Il Giornale.it domenica 29 Dicembre 2019
Esecuzioni, torture, molestie: la comunità Lgbtq è perseguitata dal regime integralista di Hamas
di Lorenza Formicola
Sembra inarrestabile la fuga di omosessuali dalla Palestina di Hamas: la comunità LTBGQ continua a rifugiarsi in Israele, dove, a differenza dei regimi di Hamas e dell’Autorità palestinese, non si applica la pena di morte. Le autorità israeliane avevano addirittura preso in considerazione di concedere asilo politico agli omosessuali palestinesi.
È ormai storia l’uccisione, negli ultimi decenni, di molti gay palestinesi in Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza. Il caso più celebre resta, probabilmente, quello di Mahmoud Ishtiwi, 34enne, giustiziato nel 2016 da Hamas con tre colpi di pistola al petto, in un’esecuzione pubblica, perché accusato di omosessualità.
Era uno dei suoi più autorevoli comandanti militari, ma macchiato di un peccato punibile con la morte nella Striscia di Gaza. Il caso di Ishtiwi rivelò in maniera plateale la grossa differenza tra la cultura e la società israeliane e quelle palestinesi. Anche se di attenzione ne ha avuta poca.
E altrettanto poca è quella che il mondo omosessuale occidentale destina a coloro che vivono sotto l’Autorità Palestinese in Cisgiordania e sotto Hamas nella Striscia di Gaza. Il pugno chiuso da corredo alla battaglia contro Israele è da tempo lo stendardo anche dell’universo gay che da Hollywood all’Europa, tra unicorni e bandiere arcobaleno, ha scelto di ignorare la persecuzione dell’omosessualità e di combattere il nemico israeliano a priori, anche se resta l’unico paese del Medio Oriente in cui la comunità LTBGQ si sente al sicuro.
Da anni gruppi come «Queer for Palestine» e «Queers Undermining Israel Terrorism» incitano all’odio contro Israele e ne sostengono ossessivamente il disinvestimento finanziario in collaborazione con le stesse organizzazioni musulmane che li perseguitano.
Una rapida passeggiata a Tel Aviv mostra come gli omosessuali fuggiti dalla Cisgiordania e da Gaza in Israele preferiscano dormire per le strade, piuttosto che restare nei villaggi ad affrontare le molestie, le torture, la morte.
Da un lato del confine l’islam, dall’altro il cristianesimo. Sono tante le storie di omosessuali palestinesi, come quelle di Adam e Rami fino a poco fa reperibili anche su YouTube, poi censurate che quando hanno rivelato la loro omosessualità sono stati torturati senza il biasimo delle autorità e hanno poi deciso di scappare in Israele.
Mentre molti casi simili vengono nascosti ancor prima di finire sui giornali. Jamil nome di fantasia ha raccontato come Hamas monitori la comunità omosessuale effettuando ronde. L’organizzazione palestinese alQaws per la diversità sessuale e di genere nella società palestinese ha uffici a Gerusalemme est e a Haifa: non osa, infatti, aprire un ufficio nelle città o nei villaggi al di là dei confini israeliani.
Nell’agosto di quest’anno, il portavoce della polizia dell’Autorità Palestinese con una dichiarazione pubblica ha vietato ogni attività di alQaws in Cisgiordania e incitato i palestinesi a denunciare chiunque sia affiliato. E, nell’affermare che l’esistenza stessa del movimento va contro «i valori palestinesi tradizionali», l’Autorità Palestinese ha anche accusato i membri della comunità LTBGQ di essere «agenti stranieri».
Nel frattempo gruppi come Queer for Palestine restano impegnati ad attaccare Israele nei campus universitari e nelle strade di San Francisco sventolando le bandiere arcobaleno contro Netanyahu.
Durante l’estate, in quello che è stato eletto nelle città occidentali come il mese dell’orgoglio omosessuale, si sono susseguite le marce e le sfilate per il «Rainbow Pride», ma al «Dyke March» di Chicago, gli organizzatori hanno espulso, nel corso di più edizioni, i manifestanti che sventolavano bandiere arcobaleno con la stella ebraica di David: etichettate «offensive» per un evento «inclusivo».
E a questo punto sarebbe interessante indagare anche sui calzini arcobaleno con su scritto «Eid Mubarak» (tradizionale saluto festivo musulmano) indossati dal primo ministro canadese Justin Trudeau al Pride Parade di Toronto. Orgoglio per gli omosessuali perseguitati nel mondo islamico? Circa 40 dei 57 paesi a maggioranza musulmana hanno leggi che criminalizzano l’omosessualità, prescrivendo punizioni che vanno da multe a frustate, da 10 anni di prigione alla morte.
All’indomani della storica sentenza della corte suprema statunitense che con l’hasthtag #LoveWins decretò Obama eroe globale, l’Isis iniziò a condividere lo stesso slogan a corredo dei video e delle immagini che ritraevano le decapitazioni e il lancio di omosessuali dai palazzi mentre sullo sfondo sventolava la bandiera nera dello stato islamico.
Ma in giro per il mondo non si vedono iniziative contro Hamas e le sue esecuzioni; contro Erdogan e le aggressioni agli omosessuali in nome di Allah; contro il regime socialista venezuelano per il trattamento riservato a chi sventola la bandiera arcobaleno. Neanche un coro contro l’Indonesia che ha recentemente frustato gli omosessuali sulla pubblica piazza, nessun flash mob contro l’Iran o il Bangladesh.
Perché nessun attivista per i diritti dei gay boicotta i regimi islamici o protesta con qualche cartello fuori le loro ambasciate?
Il cortocircuito politicamente corretto impedisce di chiarire come mai la battaglia così veemente e appassionata per i diritti omosessuali si fermi ai confini dell’islam.