La Croce quotidiano 15 maggio 2018
Nomadelfia è la comunità cattolica che risiede nell’omonima frazione del comune di Grosseto. Gli eredi del sacerdote di campo di Fossoli sono stati visitati e gratificati dalle belle parole pronunciate il 10 maggio scorso da Papa Francesco. Non per fare i «critici» ai quali «non piace niente», come ha detto giustamente il Santo Padre durante la sua visita, ma è bene ricordare che stiamo parlando di una vocazione a dir poco “speciale”…
Giuseppe Brienza – Mauro Rotellini
Nomadelfia e a Loppiano sono le due comunità nel cuore della Toscana che hanno accolto la visita di Papa Francesco venerdì 10 maggio. Non si è ancora spenta in particolare l’eco della visita di Sua Santità alla comunità di Nomadelfia (Grosseto), fondata da don Zeno Saltini (1900-1981), la cui esperienza educativa e comunitaria mantiene la sua solidità nel tempo se si pensa che il sacerdote di campo di Fossoli (Carpi) già nel 1931 ne gettò il primo seme.
È la terza volta che dall’inizio del suo pontificato Bergoglio visita la Toscana: prima a Firenze, poi a Barbiana, sulle orme di don Lorenzo Milani (1923-1967) e adesso a Nomadelfia, dove il Pontefice ha gratificato i membri della comunità realizzata da don Zeno con queste parole: «Qui tutte le famiglie sono aperte all’accoglienza».
Inoltre il Papa ha detto che don Zeno «seppe individuare una peculiare forma di società dove non c’è spazio per l’isolamento o la solitudine, ma vige il principio della collaborazione tra diverse famiglie, dove i membri si riconoscono fratelli nella fede. Così a Nomadelfia, in risposta a una speciale vocazione del Signore, si stabiliscono legami ben più solidi di quelli della parentela».
Due i segni che in maniera particolare distinguono quella comunità: «Di fronte alle sofferenze di bambini orfani o segnati dal disagio, Don Zeno comprese che l’unico linguaggio che essi comprendevano era quello dell’amore. Pertanto, seppe individuare una peculiare forma di società dove non c’è spazio per l’isolamento o la solitudine, ma vige il principio della collaborazione tra diverse famiglie, dove i membri si riconoscono fratelli nella fede» e poi «l’attenzione amorevole verso gli anziani che, anche quando non godono di buona salute, restano in famiglia e sono sostenuti dai fratelli e dalle sorelle di tutta la comunità».
Amore per i bambini e per gli anziani in una comunità a vocazione speciale che ha a fondamento la fede in Cristo e la legge della fraternità. Fratelli in Cristo. Fratelli fra gli uomini
Ed in effetti anche i “nomadelfi” sono convinti che si tratti di una vocazione. «Aderire a Nomadelfia vuol dire rispondere ad una vocazione», si legge sul sito della Comunità (cfr. https://www.nomadelfia.it/chi-siamo-2/). Qui, infatti, vige la comunione totale dei beni, la maggior parte dei quali è di uso comune. Rispetto ai beni di uso personale come indumenti, libri, etc., ognuno si impegna ad agire secondo i principi dell’“amministrazione responsabile”, della sobrietà e della solidarietà.
In pratica si impegna a farne un uso appropriato, mantenerli e conservarli correttamente, non accumulare al di là delle proprie reali necessità, secondo una scelta di “giustizia distributiva”.
I nomadelfi lavorano all’interno della comunità senza chiedere un compenso in cambio. In nessuna famiglia si viene pagati per cucinare, riparare un lavandino o curare i bambini: perché si tratta di lavoro gratuito, fatto per amore. Così facendo, si vive una fraternità integrale, in cui si eliminano le differenze.
Nel magazzino viveri vengono stoccati i generi alimentari acquistati all’ingrosso (pasta, sale, zucchero, etc…). I responsabili del magazzino provvedono anche alla spesa settimanale e alla sua distribuzione, sulla base delle indicazioni fornite da ogni gruppo familiare.
Il “gruppo familiare” è la cellula fondante della comunità. Esso è formato da tre, quattro o cinque famiglie, più le persone non sposate, con un numero di membri compreso fra le 20 e le 35 persone. Non sarebbe possibile vivere questo tipo di fraternità se non sentissero tutti, individualmente e collettivamente, una responsabilità educativa nei confronti dei bambini che vivono nel gruppo.
Questa è la comunità di Nomadelfia, e adesso ben si capisce perché sia una vocazione speciale. Quasi una sorta di “reducciòn” in Italia sul modello di quelle praticate dai gesuiti in Sud America dal XVI secolo fino a quando le pressioni degli Stati e della massoneria costrinsero un Papa debole a sciogliere la Compagnia di Gesù.
Non tutti infatti possono vivere un’esperienza che – alla fine – si fonda su un collante forte d’interpretazione della Fede, che si concreta in una vocazione sociale molto intensa, finalizzata alla costruzione di un nuovo modello di società.
Lo nota anche il Corriere della Sera, quando sottolinea come Papa Francesco, nei suoi viaggi italiani, indichi alla Chiesa italiana «l’esempio di sacerdoti che hanno scelto di tornare all’essenziale del cristianesimo, anche a costo di essere malvisti dalle gerarchie ecclesiastiche» (Gian Guido Vecchi, Papa Francesco e l’omaggio al «prete rosso»: creò una nuova società, in “il Corriere della sera”, 10 maggio 2018).
Noi che non abbiamo questa vocazione speciale possiamo continuare ad affidarci con sicurezza ai cardini della traduzione sociale della Fede, secondo la quale il principio, soggetto e fine di ogni istituzione sociale deve essere la persona, nel rispetto del principio di sussidiarietà, il che vuol dire che un’istituzione di ordine superiore non deve assumere il compito spettante ad una di ordine inferiore. Per questo la famiglia è la cellula originaria della società umana e ne costituisce il fondamento.
La comunità statale la protegge nel rispetto del principio di sussidiarietà e delle differenze. Differenze che, entro certi limiti, non è bene cercare di annullare. Perché alcune di esse sono assolutamente lecite e necessarie. La proprietà privata dei beni costituisce ad esempio momento indispensabile di crescita per arrivare alla libertà e alla responsabilità personali.
Da queste poche osservazioni discende la nostra personale perplessità nei confronti della esperienza di Nomadelfia, che ce la fa considerare ben difficilmente esportabile alla generalità della “Catholica”.
La responsabilità collettiva, infatti è meno rigorosa di quella individuale; essa può permanere solo se supportata da una visione del mondo forte, stringente, sostanzialmente – diciamolo – esclusiva. E qui sta il pericolo di quella esperienza. Come ci insegna lo stesso Papa Bergoglio, «Ogni comunità cristiana è chiamata a varcare la soglia che la pone in relazione con la società che la circonda, con i poveri e i lontani. La Chiesa per sua natura è missionaria, non ripiegata su sé stessa, ma mandata a tutti gli uomini» (Messaggio del Santo Padre per la Quaresima 2015, Città del Vaticano 27 gennaio 2015).
E che il pericolo sia reale, lo testimonia la sorte delle “reducciones” sudamericane. La cacciata dei Gesuiti le mise alla mercé degli Stati che le distrussero e perseguitarono gli indigeni che ne facevano parte fino a minacciarne l’estinzione.