di Gustave Thibon
La Bruyère parla, in una sua pagina, della venerazione ardente e irriflessiva dei poveri nei riguardi dei grandi. “Se i grandi si curassero di essere buoni, commenta amaramente, si arriverebbe all’idolatria”.
Allora, l’invidia esisteva appena (l’invidia presuppone una specie d’identità nelle vocazioni e negli interessi: così un commerciante invidierà i guadagni di un altro commerciante e non il “genio” di un poeta): l’uomo del popolo viveva troppo la distanza irriducibile che lo separava dai grandi per invidiarli altro che in sogno. Ma tutto è crollato a poco a poco, man mano che il popolo si è accorto che i potenti e i nobili gli assomigliavano, che, nel segreto dei loro atti, erano bassi e volgari quanto lui e che la loro supremazia esteriore non corrispondeva ad alcuna intima grandezza.
Il popolo, allora, si è messo a detestare e a odiare questa aristocrazia discesa al suo livello e ormai svuotata, per lui, di ogni sostanziale superiorità. Essendo morta nella sua anima la distanza vissuta fra lui e i suoi capi, come avrebbe potuto sopportare lo spettacolo della distanza esteriore di quei privilegi che sentiva fondati sulla menzogna, mostruosamente usurpati? Un selvaggio, un anarchico “perché non io?” ha preso necessariamente il posto di una accettazione veneratrice della ineguaglianza. Ma prima di quest’odio e di questa rivolta quale vertigine di disinganno deve aver suscitato nell’anima, ostinatamente adoratrice degli umili questa presa di coscienza della bassezza dei grandi, questa lacrimevole caduta dalle nuvole?
Il ciclo è ormai compiuto: il popolo, il vecchio popolo da cui sgorgarono i romanceros e le leggende eroiche e che aureolò la fronte dei grandi d’uno splendore spirituale spesso inesistente, oggi non crede più alla grandezza, anche quando esiste. Ma dove cercare la colpa iniziale? Se una malsana febbre di uguaglianza consuma la plebe, non l’hanno forse accesa gli stessi grandi, abbassandosi col loro comportamento al livello della plebe? Tu non avevi il diritto di assomigliarmi, può dire l’umile al grande.
Hai scatenato ed esasperato la mia bassezza, rivelandomi la tua. L’odio che mi divora oggi è il cadavere della mia venerazione di ieri. Hai ucciso in me il sentimento vivente della gerarchia, la dolcezza e la nobiltà dell’obbedienza. E’ stata dura a morire questa immagine della tua giustizia e della tua bontà, lungamente ha resistito questo povero e abbagliato rispetto che cullava i miei sogni e la mia fatica, ma è pur stato necessario che alla fine soccombesse sotto i tuoi colpi. Sei riuscito a provarmi che mi rassomigliavi. Voglio dunque, ora, che ci assomigliamo fino in fondo (questa volontà si denomina rivoluzione, egualitarismo, comunismo … ).
– Misuri il male che m’hai fatto? La giustizia, e l’amore mi hanno mentito con la tua bocca. Tu mi hai amputato della miglior parte di me: la mia confidenza in te e in tutto l’ordine umano e divino che tu rappresentavi. Eri infatti per il popolo il sostegno e il messaggero del cielo e l’immagine di Dio s’è corrotta in me con la tua immagine.
Per colpa tua, mi sono sentito solo e orfano, ho perduto il sentimento di una grande realtà a me superiore, che mi sosteneva e mi tutelava mentre nutriva nel mio cuore una rassegnazione senza amarezza e una speranza senza febbre; ho cessato di sentirmi sorpassato, non ho visto più nulla al disopra di me al disopra della mia meschinità e della mia debolezza, che non sia la menzogna. Non capisci che ora io provo a ricreare il mondo sulla mia miserabile immagine?