Un libro racconta i milioni di morti nei campi sovietici attraverso le note burocratiche degli aguzzini e le postille con cui Stalin, scrivendo di suo pugno, chiedeva più severità
Siegmund Ginzberg
Vi ricrederete se vi capita di leggere la “Storia del Gulag, dalla collettivizzazione al Grande terrore”, di Oleg V. Chlevnjuk, appena tradotto da Einaudi (2006, pp. 301, euro 44, da martedì in libreria).Gran parte di quel che se ne sapeva finora era fondata sui racconti e le testimonianze delle vittime.
Dall’“Arcipleago Gulag” di Aleksandr Solzhenitsyn, fondato su “rapporti, memorie e lettere di 227 testimoni” e dagli straordinari (anche dal punto di vista letterario, con la loro atroce ironia) “Racconti della Kolyma” di Varlam Salamov che avevano cominciato a circolare in occidente negli anni 60, sino al recentissimo esaustivo e aggiornato “Gulag, Storia dei campi di concentramento sovietici” di Anne Applebaum (tradotta da Mondadori), ne avevamo abbastanza da inorridire e dare di stomaco, con profusione, verrebbe da dire quasi, da un certo punto in poi, persino eccessa e sovrabbondanza di documentazione.
Questo libro si differenzia dagli altri perché ci racconta quella tragedia da un punto di vista diverso, scavando soprattutto nei documenti ufficiali: il Gulag visto non più solo in base alle testimonianze delle vittime, ma in base alle tracce e ai documenti lasciati dai loro carnefici, anche ai massimi livelli.
Pezze d’appoggio burocratiche dall’interno del sistema di gestione dei campi e dei servizi segreti, i rapporti del ministero dell’Interno, della Ghepeù e dell’NKDV, le risposte e gli ordini dall’alto, denunce di quel che non va dal punto di vista dei responsabili dei campi e degli ispettori mandati da Mosca, le giustificazioni ufficiali, sprazzi della discussione sull’argomento ai vertici del partito, lettere indirizzate all’ufficio di Stalin, e persino qualche sua risposta. Insomma, il Gulag visto dal Cremlino, si potrebbe dire.
Insomma qualcosa di molto più arido, molto più “parziale” di quanto ci era stato raccontato sinora, molto più noioso da leggere, con tutte quelle date, il linguaggio burocratico, i numeri di protocollo, dati, cifre. Qualcosa di apparentemente più lontano dalle vicende umane, dalle sofferenze dei singoli, a prima vista una visione storica d’archivio, meno dirompente, meno “toccante” delle testimonianze dirette. Una scelta di freddi resoconti burocratici, dall’interno del sistema. Eppure quel che ne risulta è un quadro, se possibile, ancora più terribile e agghiacciante.
Ci sono certo libri sul Gulag che mi hanno impressionato anche più di questo. Solzhenitsyn aveva il merito di essere il primo a parlarne così diffusamente. Salamov ha pagine indimenticabili, tra le più belle e commoventi che siano mai state scritte sull’argomento, dal capitolo in cui parla della morte del poeta Mandelstam (che scrisse un’Ode a Stalin come Orazio le scriveva per Augusto) alla impareggiabile descrizione della nave fantasma coi detenuti congelati perché per domare l’ammutinamento avevano usato gli idranti. Evgenija Ginzburg esprime l’angoscia della comunista convinta che finisce nel lager senza sapere nemmeno perché.
Il pope e grande intellettuale Pavel Florenski intimidisce per la fede. Jacques Rossi compendia il sistema. Le memorie di molti comunisti italiani passati per il Gulag e le torture continuano a farmi chiedere perché alcuni di essi abbiano continuato a rimpiangere l’Urss anche quando è crollata. L’associazione “Memorial” ha pubblicato a Mosca nel 1998 un catalogo completo del “Sistema dei campi di lavoro correzionale in Unione sovietica”. Chlevnjuk – “storico autentico”, come lo definisce Robert Conquest nella sua prefazione – scava invece nei faldoni impolverati. Non nelle anime. Tirandone fuori una storia molto più prosaica, ma non per questo meno impressionante.
Le testimonianze più sconvolgenti qui sono quelle degli aguzzini e dei loro capi, che non mettono in discussione il sistema e le sua finalità, ma si rivolgono ai loro superiori perché venga reso più efficiente sul piano della resa economica e politica, chiedono che venga ripristinato un minimo di “legalità socialista”, si frenino gli eccessi, i sadismi alla Abu Ghraib, lo sterminio degli “innocenti”.
Fa un certo senso leggere i rapporti segreti di ispezioni nei campi in cui il procuratore dell’Urss Vishinskij (lo stesso che legherà il suo nome ai grandi processi e confessioni farsa e alla catena di montaggio delle più infami condanne a morte), denunciare “condizioni di detenzione assolutamente intollerabili”, descrivere “detenuti talmente abbrutiti da aver perduto ogni sembianza umana”, “uomini che sembrano bestie selvatiche”, “dormono nudi sui tavolacci comuni, come sardine in scatola (letteralmente, non è un’esagerazione)”, degli “scaglioni in arrivo da cui si prelevano i morti congelati”, della sua convinzione che “qualcuno, qualcuno di ostile, fa in modo che la gente muoia per strada, muoia una volta arrivata a destinazione”, lamentare che “questa situazione abbia ridotto in condizioni fisiche disastrose la popolazione del campo e portato a un utilizzo lavorativo assolutamente insignificante”.
In un altro documento, è sempre Vishinskij a proporre di condannare alla fucilazione dei “chekisti” che “usavano metodi di interrogatorio fascisti e nei loro uffici uccidevano con la violenza fisica quelli che si ostinavano a non formare i verbali preparati in anticipo… a un imputato ruppero il naso con un uncino di ferro e cavarono gli occhi…, due cittadini furono uccisi a colpi di martello sulla testa…”.
Ma Chlevnjuk ha cura di avvertire che “provvedimenti così severi… furono un’eccezione” e che “la gran mole di fatti di cui siamo a conoscenza… ci permette di affermare con assoluta certezza che il ricorso alle torture più crudeli era diffuso ovunque e generalizzato”.
Fa senso anche leggere di un Lavrenti Berija – l’ultimo terribile capo dei servizi di Stalin – che esordisce come “riformatore” degli eccessi commessi dai suoi predecessori, si atteggia quasi a “garantista”, parla di “ripristino della legalità socialista”, arriva a inoltrare le denunce di false confessioni estorte con la tortura, i suggerimenti di “punire severamente gli inquirenti che considerano la percosse come il principale metodo d’indagine e che storpiano gli arrestati quando non hanno prove sufficienti della loro attività antisovietica”.
Questo almeno finché non è Stalin in persona a fargli capire che è meglio non si impicci troppo nel contestare questi “metodi”. Tra i documenti citati da Chlevnjuk c’è una telegramma in codice, firmato Stalin, del gennaio 1939, in cui questi prende “un’iniziativa inattesa e per lui insolita: di fatto si assume la responsabilità del ricorso alle torture”. Taglia corto ricordando che le torture, contro i “terroristi”, sono state autorizzate dal centro, e prosegue argomentando: “Si sa che tutti i servizi segreti borghesi ricorrono alle pressioni fisiche nei confronti dei rappresentanti del proletariato socialista, e per giunta vi ricorrono nelle forme più atroci.
Ci si domanda perché i servizi segreti socialisti debbano essere più umani rispetto agli spietati agenti della borghesia, ai nemici giurati della classe operaia e dei kholkoziani… il CC ritiene che il metodo della pressione fisica debba essere assolutamente adottato anche in futuro… in quanto metodo giusto e opportuno”.
Uno dei capitoli più sconvolgenti è quello in cui si parla dei campi di concentramento per i bambini. Non solo i figli dei condannati che lo seguivano nel gulag o quelli che vi nascevano, o quelli che furono costretti a denunciare e dimenticare i genitori, persino cambiare nome (ho conosciuto il figlio di Bucharin, che era tra questi, in occasione di una sua mostra di dipinti a New York), ma intere generazioni, un numero enorme di bambini abbandonati (besprizorniki) a causa delle tremende circostanze in cui versava il paese, del susseguirsi di cataclismi come la guerra civile, la collettivizzazione forzata e poi le carestie degli anni Trenta. Una parte finiva negli orfanotrofi (386.000 nel 1934).
Milioni di altri erano abbandonati a se stessi. Per loro si istituirono campi specializzati. Erano considerati un problema di ordine pubblico. Bande di adolescenti si erano resi responsabili di delitti efferati, spesso in gruppo. I vertici del partito decisero di intervenire, non tanto perché mossi a pietà dalle condizioni dell’infanzia abbandonata, ma per ovviare a un problema che spaventava l’opinione pubblica già provata dalle difficili condizioni di vita per tutti.
Viene citata una lettera indirizzata nel marzo 1935 da Voroshilov a Stalin, Molotov e Kalinin in cui, a partire da un fatto di cronaca che aveva creato molta sensazione a Mosca (un duplice omicidio commesso da due sedicenni), si suggerisce che “il Comitato centrale debba ordinare all’NKDV di organizzare immediatamente strutture in cui collocare non solo i ragazzi abbandonati, ma anche quelli privi di sorveglianza, mettendo così al riparo la capitale dal sempre crescente teppismo ‘giovanile’”. “Non capisco perché questi farabutti non si possano fucilare.
Bisogna forse aspettare che crescano a diventino banditi ancora più pericolosi?”, la conclusione.
Stalin lesse, e diede incarico a Vyshinskij di elaborare un progetto di risoluzione contro la delinquenza minorile. Ma la bozza di Vyshinskij aveva un difetto agli occhi di Stalin: era troppo moderata, elastica nelle formulazioni, troppo persa dietro “misure correttive di carattere medico-pedagogico”.
Stalin introdusse modifiche di suo pugno, in seguito alle quali il primo punto suonava seccamente così: “A partire dai 12 anni di età, i colpevoli di furto, violenze, lesioni personali, mutilazioni, omicidio o tentato omicidio sono soggetti a giudizio penale, con l’applicazione di tutte le misure di repressione giudiziaria”.
Una nota esplicativa segreta del Politbjuro esplicitò che tra queste misure nei confronti dei bambini che avevano compiuto i 12 anni “rientrava anche la pena capitale (fucilazione)”. Nella seconda metà di quell’anno furono fermati 160 mila bambini. L’anno successivo 150 mila. In migliaia furono fucilati. La sorte degli altri non fu molto migliore.
Uno dei documenti citati, un “Rapporto alla direzione del Gulag sulla situazione dei minori detenuti nei lager” depreca, con linguaggio burocratico ancora più agghiacciante di una testimonianza diretta, le condizioni di quelli inviati nei campi: “I detenuti adolescenti terrorizzano il campo col loro comportamento violento e scandaloso, la per versione sessuale è un fenomeno non raro… nel Belomorsko-Baltijski lager per placare i minori si è dovuto ricorrere alle armi… fatti naloghi si verificano anche in altri campi”.
Un altro rapporto, di polizia, invita a moderare gli “eccessi”: tra questi, estensione dei procedimenti penali a bambini di età inferiore ai 12 anni, e addirittura “per reati non previsti dalla legge: per birichinate infantili, zuffe casuali e furti insignificanti commessi per la prima volta”. Tra gli esempi citati, il caso di un tribunale della regione di Mosca che aveva “qualificato come manifestazione di lotta di classe il gesto del figlio di un contadino non collettivizzato che aveva dato uno schiaffo alla figlia di un kholkoziano, condannandolo”.
Come per tutti gli altri “reati”, anche per i bambini il sistema ebbe i suoi alti e bassi, momenti di accentuarsi della repressione e momenti di relativo addolcimento. Ad esempio, è sempre nel 1935 che Stalin pronuncia, parlando a un assemblea di conducenti di trattori a Mosca, una frase che sarebbe divenuta famosa e avrebbe dato inizio a quella che Chlevnjuk definisce una “chiassosa campagna propagandistica”: “Il figlio non risponde alle colpe del padre”. Ma ciò non avrebbe impedito che negli anni immediatamente successivi, quelli del “Grande terrore” del 1937-38, un ordine del Commissariato del popolo agli Affari interni imponesse l’arresto non soltanto delle mogli ma anche dei figli dei “traditori”. Il che fece salire enormemente il numero dei minori arrestati, anche rispetto ai picchi degli anni della carestia assassina.
E’ nel 1937-38 che i campi del Gulag da sistema di lavoro forzato, di dubbia efficienza economica (anche se è nei laboratori specializzati del Gulag che operano prigionieri geniali come l’ingegnere Andrei Tupolev, il padre dell’aeronautica sovietica), si trasformano in campi di sterminio.
Chlevnjuk ricorda che solo negli ultimi anni sono diventati accessibili negli archivi le statistiche segretissime che erano state compilate dopo la morte di Stalin. Ne risultano, per solo quei due anni, oltre 1,6 milioni di arrestati, l’87 per cento di questi per motivi politici. Sostiene che “verosimilmente” il numero dei cittadini sovietici arrestati superò i due milioni e mezzo. E che dai diversi tribunali passarono “presumibilmente” 3 milioni e mezzo di persone. Almeno 700 mila è la stima dei fucilati dall’agosto 1937 a metà novembre 1938. “Una media di 1.500 persone eliminate al giorno”.
Un “lavoro” immane, se si tiene presente che “le fucilazioni erano nella maggioranza dei casi individuali” e che “a giudicare dai documenti noti non si utilizzavano mezzi di sterminio di massa (come le camere a gas)”. Nel Gulag stenti e malattie fecero il resto. Paradossalmente, la spaventosa repressione, spesso giustificata dalle necessità di eliminare una potenziale “quinta colonna” interna in previsione della guerra, si attenuò poi proprio di fronte all’esigenza di unire il paese nella guerra contro i tedeschi.
La stima, valutando il “turnover”, è che dal gulag ci siano passati complessivamente qualcosa come 18 milioni. Il tutto avvolto nel più assoluto segreto di stato. Ma si sapeva, anche se molti preferirono non vedere. Sin dagli esordi. Nel marzo 1931 la Pravda aveva pubblicato un articolo di Maksim Gorkij, intitolato: “A proposito di una leggenda”.
Rivolgendosi agli operai europei e americani, lo scrittore definiva le voci circa l’impiego del lavoro forzato in Urss “una disgustosa calunnia”. “Il potere sovietico non utilizza il lavoro forzato neppure nelle case di reclusione, dove i criminali analfabeti sono obbligati a leggere e scrivere, e dove i contadini godono del diritto di tornare al villaggio, alle loro famiglie, per lavori agricoli”, rassicurava.
Negarono categoricamente che si facesse ricorso al lavoro forzato per i prodotti di esportazione. Al VI Congresso dei Soviet Molotov arrivò a includere nel suo rapporto una sezione dedicata al cosiddetto “lavoro forzato” in cui non si limitava a escludere che servisse per i prodotti di esportazione, ma si giungeva ad affermare che “migliaia e migliaia di disoccupati (in occidente) ora invidierebbero le condizioni di lavoro e di vita dei detenuti nelle nostre regioni settentrionali”.
Ma Stalin la sapeva ancora più lunga: si sono conservate le seguenti annotazioni di suo pugno: “Il capitolo sul ‘lavoro forzato’ è incompleto, insufficiente. Vedi le osservazioni e le correzioni nel testo… Del lavoro dei kulaki, non trattandosi di detenuti, o non bisogna parlare affatto, o si deve spiegare in maniera specifica e documentata che tra i kulaki deportati lavorano solo quelli che lo desiderano…”.
Nella sua prefazione Conquest cita la risposta di un testimone a un processo per diffamazione intentato in Francia nel 1950 dal reduce dei campi nazisti, il trotzkista David Rousset a chi dalla sinistra ufficiale lo accusava di insultare l’Unione Sovietica equiparando la sua esperienza a quella delle vittime del Gulag.
Gli avevano chiesto: “Se si accertasse che nella Kolyma esistono campi di lavoro come quelli che ci sono stati descritti, lei sarebbe d’accordo a condannarli?”. La risposta: “Qualora mi venisse chiesto, ‘Se tua madre fosse un’assassina la condanneresti?’, io risponderei: ‘Signore, mia madre è mia madre, e non può essere un’assassina’”.
“La storia del Gulag è storia dell’affermarsi di una dittatura; della creazione ed espansione di uno dei principali segmenti dell’economia sovietica, l’economia del lavoro forzato; del formarsi di particolari gruppi sociali: decine di milioni di internati (ed ex internati) e milioni di aguzzini e sorveglianti; è la storia della particolare ‘cultura del lager’ e della mentalità di questi gruppi, che ha avuto un’enorme influenza sulla cultura, le tradizioni e la visione del mondo di tutta la società sovietica”: questo il modo in cui Chlevnjuk riassume l’obiettivo della sua ricerca. Quello specifico incubo è finito da molto tempo. Si dirà che madri, nonne e bisnonne sono sepolte
Il Gulag di cui parlerà la continuazione di questo lavoro era già diverso da quello di prima della guerra. Quelli sotto Krusciov erano diversi da quelli sotto Stalin. Così come quelli sotto Breznev diversi da quelli sotto Krusciov. Quelli di Mao erano diversi dalla Cina di oggi. La Russia di Putin non è paragonabile alle Russie precedenti, anche se qualcuno teme che non sia molto migliore di quella di Eltsin. Ma quanto pesano ancora le conseguenze, i residui stratificati e cristallizzati della “cultura”, della “mentalità” che avevano caratterizzato quel brutto sogno?