Tempi 3 Luglio 2017
Numeri, studi e fatti per smontare i luoghi comuni sui migranti. Perché la soluzione ai mali dell’Africa non è svuotarla
di Rodolfo Casadei
Partire dai fatti. Dal fatto che gli stranieri che arrivano in Italia con natanti di fortuna non sono rifugiati, ma quasi tutti migranti economici. Che dopo gli accordi fra l’Unione Europea e la Turchia l’Italia è diventata il collo di bottiglia e l’accampamento di tutti gli emigranti illegali che da Africa e Vicino Oriente vogliono passare in Europa. Che i migranti di oggi non emigrano perché muoiono di fame, ma perché vogliono stare meglio e vivere come gli europei. Che non ce la fa più nemmeno la accogliente, progressista e multiculturalista Svezia, altro che le egoiste Austria e Ungheria, perché l’immissione smodata di stranieri nel sistema alimenta il lavoro nero e prosciuga le entrate fiscali.
Che abbiamo fatto un accordo per la gestione del problema con un governo libico che è tenuto al potere da milizie che si finanziano col commercio dei clandestini. Che la Chiesa cattolica africana è contraria all’emigrazione di massa, e chiede di rimuovere le cause che spingono tanti giovani ad abbandonare il continente. Che non si era mai vista un’emigrazione di massa verso un continente dove il tasso di crescita del Pil è penoso e il paese di primo approdo (l’Italia) presenta un tasso di disoccupazione del 40 per cento fra i suoi giovani fra i 15 e i 24 anni, proprio la categoria più rappresentata fra i migranti.
Che tantissimi emigrati, vista la malaparata dei centri di accoglienza italiani nei quali vengono confinati e della mancanza di lavoro in regola che li costringe all’accattonaggio o al lavoro in nero, vorrebbero tornare in patria ma non possono per la vergogna di aver fallito la loro chance. Che i paesi della grande crescita economica oggi sono proprio quelli africani, per i quali quest’anno sono previsti aumenti del Pil a tassi superiori al 7 per cento, ma ciò non basta a frenare l’emigrazione a causa della corruzione locale che si mangia tutto, con la complicità di molti poteri dei nostri paesi.
Ingressi in aumento
Anna Bono è sempre partita dai fatti, sia quando lavorava come ricercatrice in Storia e istituzioni dell’Africa all’Università di Torino che quando si confrontava con la realtà del Kenya, dove ha vissuto nove anni. Per questo i suoi libri, saggi e articoli sui temi dello sviluppo e dell’Africa non sono la lettura preferita di chi ama i proclami e le marce affollate di belle bandiere, ma con la realtà intrattiene un rapporto selettivo. Migranti!? Migranti!? Migranti!?, suo ultimo libro che fa seguito a Migrazioni, emergenza del XXI secolo. I numeri, i problemi, le prospettive, uscito due anni fa, probabilmente conoscerà lo stesso destino: piacerà ai fautori degli approcci fattuali, farà alzare le spalle a chi si accontenta delle affermazioni di principio o vede solo l’aiuola che è solito curare.
Il primo fatto di cui curarsi è che mentre gli ingressi di irregolari diminuiscono a livello europeo, in Italia continuano ad aumentare. In Europa nel 2015 sono entrate illegalmente, via mare e via terra, 1.012.275 persone; nel 2016 si sono dimezzate a 503.700; nei primi quattro mesi del 2017, secondo Frontex, gli arrivi in Europa sono diminuiti dell’84 per cento rispetto ai dati confrontabili dell’anno scorso. In Italia, invece, gli arrivi irregolari sono stati 153.842 nel 2015 e 181.045 nel 2016, dato che sarà certamente battuto alla fine di quest’anno, perché il primo quadrimestre segna già un più 33 per cento rispetto a quello dell’anno scorso.
La posizione dell’Italia si fa sempre più gravosa perché la nostra frontiera di mare è l’unica frontiera europea che non è stata sigillata: è spesso letale (già 1.889 morti per naufragio quest’anno al 18 giugno, 2.449 l’anno scorso nello stesso periodo), ma è anche l’unica via attraverso cui si riesce ad arrivare in Europa. Se si guardano i dati della Iom (Organizzazione internazionale per i migranti, ente Onu) si scopre che al 18 giugno per via di mare sono arrivate in Italia 69.382 persone, ma solo 8.323 in Grecia e 3.314 in Spagna.
Il secondo fatto che non si può ignorare è che i profughi rappresentano solo un’esigua fetta di quanti arrivano in Italia, anche se molti di loro fanno domanda per essere riconosciuti tali. L’anno scorso le domande sono state 123.482, quelle esaminate 90.473, quelle accolte solo 4.940. Altri però hanno ottenuto titoli per soggiornare in Italia attraverso il riconoscimento della protezione sussidiaria, che viene concessa a chi non può essere considerato profugo ma se torna da dove è venuto corre il rischio di subire un grave danno (11.200 persone), e attraverso il permesso per motivi umanitari, che ha la durata di un anno (18.801 persone).
Tutti gli altri, e anche parte dei 35 mila circa delle tre categorie protette, vegetano all’interno del sistema di protezione e accoglienza italiano, una galassia di centri che di nome fanno Cara, Cpa, Cpsa, Cda, Cie, hotspot e hub regionali.
Il terzo fatto che merita di essere preso in considerazione è che nemmeno i paesi più attrezzati sono in grado di evitare gli effetti socio-economici negativi delle migrazioni odierne. Il caso della Svezia è molto chiaro. «Nel 2016 – scrive Anna Bono – il governo svedese ha ammesso di esser del tutto incapace di mantenere gli standard di ospitalità finora offerti agli immigrati. (…) In Svezia masse di immigrati svolgono lavori in nero e sottopagati e già se ne avvertono i danni economici e sociali. Le retribuzioni medie diminuiscono perché gli stranieri percepiscono stipendi pari a un quinto della media svedese. Quindi si contrae anche il gettito fiscale. Nel 2015 lo Stato ha perso quasi 8 milioni di dollari. Inoltre le imprese che pagano regolarmente i dipendenti risentono della concorrenza di quelle che assumono in nero. Statistiche governative dicono che a sette anni dal loro ingresso in Svezia solo il 60 per cento circa degli immigrati svolgono lavori regolari. “Stiamo creando un nuovo sottoproletariato – spiega Sten-Erik Johansson, direttore del sindacato dei lavoratori stranieri irregolari – che vivrà ai margini della società senza avere diritto alla pensione, ai permessi per maternità, a niente”».
In conseguenza di ciò la Svezia ha annunciato un anno fa una politica di rimpatri forzati che non ha veramente attuato, ma che ha prodotto l’effetto di un crollo delle domande di asilo.
Il quarto fatto che ancora pochi conoscono è che la grande maggioranza dei migranti africani non rappresenta gli strati più poveri della popolazione, ma quelli entrati in contatto con il mondo globalizzato attraverso la vita delle realtà urbane africane e le nuove tecnologie della comunicazione disponibili anche ai piccoli redditi.
Il miraggio dell’eldorado europeo li attira e li mette in viaggio come negli anni Novanta i programmi delle tv italiane spingevano decine di migliaia di albanesi all’emigrazione. Dice il ministro per i senegalesi all’estero Souleymane Jules Diop: «Qui la gente non parte perché non ha niente, se ne va perché vuole di meglio e di più». Parte anche Ibrahim Ba, morto nel canale di Sicilia insieme ad altri 700 migranti nell’aprile 2015 per il ribaltamento della barca su cui viaggiava. Grazie alle rimesse del padre dalla Francia, aveva potuto creare un’azienda con tori da monta, ma nonostante le più che buone condizioni economiche non aveva potuto resistere alla tentazione di emigrare in Francia.
Soldi ne arrivano, ma nulla cambia
«È nelle città, tra queste masse urbane, che chi emerge, chi ne ha i mezzi matura il progetto di emigrare, se necessario clandestinamente», si legge nel libro. «Lo sviluppo economico, seppure modesto, moltiplica le persone in grado e desiderose di farlo: come spiegano i ricercatori dell’Icmdp (ente per lo studio delle migrazioni creato dai governi di Svizzera ed Austria, ndr) sia perché aumentano le persone che dispongono dei mezzi per farlo sia perché cresce il desiderio di emigrare. “Un maggiore accesso all’informazione e gli accresciuti contatti con altri stili di vita (ricchi e/o occidentali) grazie all’educazione, ai mass media e alla pubblicità modificano la concezione della vita, aumentano la propensione al consumismo e ad acquistare beni materiali”».
A ciò si aggiungano gli incontri coi turisti bianchi, che agli occhi degli africani appaiono tutti ricchissimi, e fanno immaginare un mondo dove il benessere è alla portata delle persone comuni.
Di fronte a tutto ciò, le persone ragionevoli di ogni schieramento politico evidenziano la necessità di favorire lo sviluppo socio-economico dei paesi africani come via maestra per contenere un’emigrazione altrimenti deleteria sia per chi parte che per chi riceve. Gli uni propongono piani Marshall per l’Africa, gli altri chiedono che si metta fine allo «scambio ineguale», ma entrambi sembrano non avere coscienza di un altro fatto scomodo che Anna Bono non si esime di evidenziare: soldi in Africa ne arrivano, ma le cose a livello generale continuano a non cambiare.
Nel 2014 (ultimo dato disponibile) sono entrati in Africa 662 miliardi di dollari di investimenti esteri diretti, 135 di aiuti internazionali e 443 di rimesse dei migranti. Ma nel febbraio scorso l’Onu ha lanciato l’allarme per una carestia dovuta alla siccità che quest’anno colpirà 20 milioni di africani, mentre un quarto dei 65,6 milioni di profughi e sfollati del mondo a causa di conflitti si trovano in Africa, e la corruzione continua ad avere la stessa incidenza di sempre: uno studio del 2002 dell’Unione Africana indica che la corruzione si porta via il 25 per cento di tutto il Pil africano. Tutti problemi da far tremare le vene ai polsi, e rispetto ai quali una solo cosa è certa: la soluzione dei mali africani non sta nell’emigrazione.