Fonte : benedettoxviblog.wordpress.comv
19 luglio 2019
Un saggio del giovane teologo Ratzinger, del 1959
di Joseph Ratzinger
Secondo la statistica religiosa la vecchia Europa è sempre ancora una parte del mondo quasi completamente cristiana. Si può dire però che non c’è quasi un altro caso nel quale sia altrettanto evidente quanto la statistica inganni. Questa Europa che viene denominata cristiana è diventata da circa quattro secoli il luogo di nascita di un nuovo paganesimo, che cresce in modo inarrestabile nel cuore stesso della Chiesa minacciando di distruggerla dal di dentro.
L’immagine della Chiesa moderna è caratterizzata essenzialmente dal fatto di essere diventata e di diventare sempre di più una Chiesa di pagani in modo completamente nuovo: non più, come una volta, Chiesa di pagani che sono diventati cristiani, ma piuttosto Chiesa di pagani, che chiamano ancora sé stessi cristiani ma che in realtà sono diventati da tempo dei pagani.
Il paganesimo risiede oggi nella Chiesa stessa e proprio questa è la caratteristica della Chiesa dei nostri giorni come anche del nuovo paganesimo: si tratta di un paganesimo nella Chiesa e di una Chiesa nel cui cuore abita il paganesimo.
Non si intende qui perciò parlare di quel paganesimo che si è ormai organizzato nell’ateismo dell’Est per diventare un consistente avversario della Chiesa e compare ora davanti alla comunità dei fedeli come una nuova forza anticristiana, anche se non si dovrebbe dimenticare che la sua particolarità consiste nell’essere un nuovo paganesimo, un paganesimo cioè che è nato nella Chiesa e ha preso in prestito da lei elementi essenziali che determinano in modo decisivo la sua immagine e la sua forza.
È necessario piuttosto considerare il fenomeno più caratteristico del nostro tempo che costituisce la tentazione propria del cristiano, il paganesimo intraecclesiale stesso: «l’abominio della devastazione nel luogo santo» (Mc. 13,14) (2).ù
Non praticanti e poco credenti
Il fatto che oggi, anche secondo le valutazioni più ottimistiche, certamente la metà dei cattolici (per limitarci qui alla nostra Chiesa) non «pratica» più, non deve sicuramente essere interpretato senz’altro come se tutta questa maggioranza di non-praticanti fosse da considerare semplicemente formata da pagani. È però evidente che costoro non fanno propria, senza eccezioni, la fede della Chiesa, ma che la loro visione del mondo è costituita piuttosto da una scelta molto soggettiva fra le verità che la Chiesa professa.
Può dunque senza dubbio succedere che una gran parte di loro non può più propriamente essere considerata credente. Essa segue una impostazione di fondo di stampo più o meno illuminista, la quale afferma sì la responsabilità morale degli uomini, ma la fonda e la limita in base a considerazioni puramente razionali.
Le etiche di Nicolai Hartmann [1882-1950], Karl Jaspers [1883-1969], Martin Heidegger [1889-1976] sono un esempio di come, in modo più o meno consapevole, si comportano dal punto di vista morale molte personalità che non per questo appunto sono cristiane.
Lo scandaloso volumetto della casa editrice List intitolato «Che cosa ritenete cristiano?» (3) ha potuto far aprire di nuovo gli occhi a coloro che si sono lasciati ingannare dalla facciata cristiana della nostra ufficialità, su quanto questa moralità puramente razionale e dunque non credente sia diffusa.
L’uomo d’oggi può dar per scontata con una certa sicurezza presso gli uomini che incontra un po’ dappertutto la presenza di un certificato di battesimo, ma non di una convinzione cristiana. Deve presupporre piuttosto come caso normale l’incredulità del proprio prossimo. Questo dato di fatto ha un paio di conseguenze importanti: da una parte comporta un fondamentale cambiamento strutturale della Chiesa, dall’altra provoca un cambiamento essenziale nella coscienza dei cristiani ancora credenti. Entrambi questi fenomeni devono essere analizzati un po’ più da vicino in questa conferenza.
La Chiesa e la salvezza eterna
Quando la Chiesa nacque, si appoggiò sulla decisione spirituale dei singoli per la fede, sull’atto della conversione. Se all’inizio si pensò di costruire già qui sulla terra con questi convertiti una comunità di santi, una «Chiesa senza macchia né ruga», si dovette poi, in mezzo a dure lotte, far strada la consapevolezza che anche il convertito, il cristiano, rimane un peccatore e che anche i comportamenti più gravi sarebbero stati possibili nella comunità cristiana.
La Chiesa ha fatto accettare questa conoscenza mediante una lotta secolare contro gli eretici (Katharoi!). Se però il cristiano non era perciò un perfetto dal punto di vista morale e in questo senso la società dei santi rimaneva sempre incompiuta, vi era tuttavia una sintonia fondamentale che distingueva i cristiani dai non-cristiani: la fede nella grazia di Dio rivelatasi in Cristo.
La Chiesa era una comunità di persone convinte, uomini che avevano fatta propria una determinata decisione spirituale e dunque si erano diversificati da tutti coloro che avevano rifiutato questa decisione. Nella comunione della decisione e della convinzione si fondava la vera e vivente comunità dei credenti e anche la loro convinzione di essere separati in forza di essa, come comunità di graziati, da coloro che alla grazia avevano resistito.
Nel Medioevo però le cose già cambiarono per il fatto che Chiesa e mondo divennero identici e così in fondo essere cristiano non fu più una decisione personale, quanto piuttosto un dato politico-culturale prestabilito. Ci si aiutò con il pensiero che Dio aveva scelto per sé proprio questa parte della terra; la coscienza speciale cristiana divenne ora nello stesso tempo una coscienza di elezione politico-culturale.
Dio aveva scelto proprio questo mondo occidentale.
Oggi è rimasta la sovrapposizione di Chiesa e mondo; la convinzione invece che in questo modo — nell’appartenenza non cercata alla Chiesa — si nasconde una grazia speciale di Dio, una realtà di salvezza per l’aldilà, è caduta. La Chiesa è, come il mondo, un dato prestabilito della nostra specifica esistenza occidentale e dunque, come quel particolare mondo a cui apparteniamo, un dato di fatto del tutto casuale.
Quasi nessuno così crede realmente che da questo dato di fatto assai casuale di natura culturale e politica che si chiama «Chiesa» possa dipendere qualcosa come la salvezza eterna. Per l’uomo occidentale la Chiesa è per lo più, di fatto, un pezzo di mondo assai casuale: essa ha perso, proprio per quella sua rimanente sovrapposizione con il mondo, la serietà delle sue esigenze.
È così comprensibile che oggi venga posta molto spesso con insistenza la domanda se la Chiesa non debba trasformarsi di nuovo in una comunità di convinzione, per recuperare la sua grande serietà. Questo dovrebbe significare la rigorosa rinuncia alle esistenti posizioni secolari, per smantellare l’apparenza di un possesso, che si rivela sempre più pericoloso, perché in verità è solo in fieri.
A chi dare i sacramenti?
Questo problema viene aspramente discusso soprattutto in Francia, dove l’arretramento della convinzione cristiana cresce ancora più in profondità di quanto non avvenga da noi e così la contraddizione tra apparire ed essere viene percepita ancora più chiaramente. Il problema però naturalmente da noi è lo stesso.
Si affrontano qui gli aderenti di una linea più dura e di una più indulgente. I primi sottolineano la necessità di ridare ai sacramenti il loro valore, «se non si vuole scivolare ancora di più nella scristianizzazione. Non è più possibile affidare i sacramenti a uomini che li vorrebbero ricevere solo sulla base di una convenzione sociale o di una tradizione irriflessa e per cui i sacramenti sarebbero solo dei riti vuoti» (4).
Gli aderenti alla linea più mite sottolineano invece che non si deve spegnere il lucignolo che ancora fumiga, che la richiesta del sacramento (per es. matrimonio, battesimo, cresima o prima comunione; funerale!) testimonia appunto ancora un certo legame con la Chiesa, dal quale non si dovrebbe respingere nessuno, se non si vuol correre il rischio di ricambiare con un danno maggiore.
Gli aderenti alla linea dura si dimostrano difensori della comunità, mentre quelli della linea mite difensori del singolo: mettono in rilievo che questi ha un diritto al sacramento. A loro controbattono gli esponenti della linea dura: «Se noi vogliamo riportare il paese al cristianesimo, questo può succedere solo mediante la testimonianza di piccole comunità piene di zelo. Dovunque è forse necessario incominciare dall’inizio. È un male che qualcuno venga respinto, ma che il futuro sia assicurato? Non siamo forse terra di missione? Perché dunque non ci rivolgiamo a metodi missionari? Ora questi esigono dapprima comunità solide, che in seguito dimostrino di essere capaci di accogliere i singoli» (5).
La discussione ha raggiunto infine un tale livello di asprezza che l’episcopato francese si è visto costretto ad intervenire. Si è accordato il 3 aprile 1951 su un «Direttorio per l’amministrazione dei sacramenti» che mantiene in generale una linea mediana. Viene deciso per esempio a proposito del battesimo, che deve essere garantito anche ai figli di genitori non praticanti se questi lo richiedono. Non autorizza insomma a considerare questi genitori come degli apostati; il passo esteriore della loro richiesta del battesimo lascia piuttosto presumere almeno la presenza di un certo nucleo di atteggiamento religioso.
«Se nel frattempo gli altri figli non sono stati educati cristianamente, si può permettere il battesimo solo se si accetta l’impegno, in quel dato momento del tempo, a mandare il bambino ora da battezzare alle lezioni di catechismo e lo stesso per quelli nati prima se ciò è ancora possibile» (6). Alcune diocesi richiedono un impegno scritto, per il quale esiste un apposito formulario (7).
Il Direttorio dice ancora espressamente: «Si deve ricordare alle religiose e ai membri dell’Azione Cattolica che, per ottenere un tale battesimo in tutte le circostanze, non devono esercitare nessuna indiscreta pressione che possa comportare una mancanza di sincerità» (8).
Questo unico esempio — battesimo — mostra già da solo che il Direttorio assume in generale un atteggiamento si direbbe piuttosto moderato; rinuncia soprattutto a considerare i non-praticanti semplicemente come apostati, cioè di fatto come dei pagani e tende piuttosto qui a un giudizio particolare per i singoli casi.
Tuttavia questa posizione si distingue essenzialmente da quella ancora consueta dalle nostre parti. Al posto di un puro e semplice sacramentalismo mette di nuovo un atteggiamento di fede. Da noi si trova ancora l’opinione — e non solo presso le suore — che sarebbe già tanto se con inganno e furbizia si arrivasse a far scorrere l’acqua del battesimo sulla testa di un bimbo.
Non si è in pace finché la sovrapposizione di Chiesa e mondo non è completa. Nella misura in cui i sacramenti vengono non soltanto donati ma svenduti, sono profondamente svuotati del loro valore. Il Direttorio esprime chiaramente che la situazione è proprio rovesciata: è vero che Dio offre nei sacramenti la sua salvezza a tutta l’umanità; è vero che invita cordialmente tutti al suo banchetto e la Chiesa deve continuare a porgere questo invito, questo gesto aperto che offre un posto alla tavola del Signore; rimane però altrettanto vero che non è Dio ad avere bisogno degli uomini, ma gli uomini di Dio.
Non sono gli uomini che fanno un favore alla Chiesa o al parroco se ricevono ancora i sacramenti, sono piuttosto i sacramenti il favore che Dio fa agli uomini. Non si tratta dunque di negoziare i sacramenti in modo rigido o moderato, ma piuttosto di condurre ad una convinzione a partire dalla quale l’uomo riconosce e riceve la grazia dei sacramenti come una grazia.
Questo primato della convinzione, della grazia e non del puro sacramentalismo è quell’insegnamento fondamentale che sta dietro le equilibrate ed acute determinazioni del direttorio francese. Alla lunga non può essere risparmiato alla Chiesa di smantellare pezzo per pezzo la sua apparente sovrapposizione con il mondo per tornare ad essere quello che è: comunità dei credenti.
Di fatto la sua energia missionaria non potrà che crescere mediante queste perdite esteriori: solo quando smette di essere un qualcosa di scontato e a buon mercato, solo allora incomincia a mostrare quello che è e a raggiungere l’orecchio dei nuovi pagani con il suo messaggio. Quei pagani che finora vivevano nell’illusione di non essere dei pagani.
Naturalmente l’arretramento di tali posizioni esteriori porta con sé la perdita di vantaggi di gran valore, senza dubbio presenti nell’attuale intreccio della Chiesa con la realtà pubblica. Si tratta di un processo, il quale avanza di suo, con o senza la collaborazione della Chiesa, al quale si deve dunque adattare (il tentativo di conservare il Medioevo è senza senso e sarebbe sbagliato non solo da un punto di vista tattico ma sostanziale).
Naturalmente questo processo non deve essere neppure forzato, ma deve essere al contrario importante conservare quello spirito di giusto equilibrio che ci mostra esemplarmente il Direttorio francese.
I sacramenti senza la fede sono senza senso
Tutto considerato in questo necessario processo di de-secolarizzazione della Chiesa bisogna distinguere attentamente tre livelli: il livello sacramentale, quello dell’annuncio della fede e quello delle relazioni personali tra credenti e non credenti. Il livello dei sacramenti, una volta circoscritto dalla disciplina dell’Arcano, è il livello proprio ed intimo della Chiesa.
Esso deve essere liberato da una certa sconsiderata confusione con il mondo, la quale o provoca un’impressione di magia oppure degrada il sacramento ad un livello cerimoniale (battesimo-prima comunione-cresima-matrimonio-funerale). Deve essere di nuovo chiaro che i sacramenti senza la fede sono senza senso e la Chiesa deve qui rinunciare a poco a poco e con precauzione ad un raggio d’azione che ultimamente comporta una auto-illusione ed una illusione degli uomini.
Quanto più qui la Chiesa realizza l’auto-circoscrizione, il discernimento di ciò che è cristiano, se necessario riducendosi ad un piccolo gregge, tanto più riconosce realisticamente il suo compito al secondo livello, quello dell’annuncio della fede.
Quando il sacramento è il luogo in cui la Chiesa si chiude e si deve chiudere contro la non-Chiesa, allora è la parola il modo e la misura con cui lei continua il gesto di apertura dell’invito al banchetto. Qui non si deve però neppure dimenticare che vi sono due modalità di annuncio: la praedicatio ordinaria, che è una parte della liturgia domenicale, e l’annuncio missionario che può essere attuato in cicli propri, come ad esempio Quaresima e tempi di missione popolare.
La praedicatio ordinaria, la parola all’interno della liturgia può e deve essere, secondo le circostanze, breve, perché non deve annunciare niente di nuovo, ma solo introdurre di nuovo nell’unico mistero della fede, il quale è già accolto e approvato.
L’annuncio missionario dovrebbe dunque smettere di lavorare su semplici emozioni del momento o particolarità, dovrebbe invece rendere di nuovo accessibile in modo comprensibile la costruzione d’insieme della fede o di sue parti essenziali per l’uomo di oggi.
Qui però il raggio d’azione non può essere mai dilatato a sufficienza. Nella misura in cui gli uomini non sono raggiungibili dalla parola, possono e devono intervenire qui lettere del parroco, grandi manifestazioni e così via. Alla radio non si dovrebbe mai dare, a partire da queste considerazioni, una vera e propria celebrazione liturgica, ma solo liturgia missionaria (9).
Sul piano delle relazioni personali invece sarebbe completamente sbagliato voler concludere dall’autolimitazione della Chiesa, richiesta per l’ambito sacramentale, un isolamento dei cristiani credenti rispetto al loro prossimo non credente. Dovrebbe naturalmente essere ricostruita a poco a poco tra i credenti qualcosa come la fraternità dei comunicanti, i quali si sentono uniti anche nella loro vita privata per il fatto della loro comune partecipazione alla mensa del Signore. In modo tale da poter contare l’uno sull’altro in caso di necessità, come una vera comunità familiare.
Questa familiarità, che si ritrova nei gruppi settari e che attira molti a farne parte, potrebbe e dovrebbe essere di nuovo più ricercata tra coloro che ricevono veramente lo stesso sacramento (10).
Ciò però non deve originare nessuna chiusura settaria, ma il cristiano deve essere piuttosto un uomo gioioso in mezzo agli altri, un prossimo là dove non può essere un fratello cristiano. Penso anche che dovrebbe essere, nelle relazioni con il suo prossimo non credente, proprio e soprattutto uomo, cioè non dare sui nervi con continui tentativi di conversione e prediche.
Sarà suo compito svolgere in modo discreto un’attività missionaria, portando il bollettino parrocchiale, suggerendo in caso di malattia la possibilità di far intervenire un prete o portandolo lui stesso o qualcosa di simile; ma non deve essere un predicatore, ma appunto, in bella apertura e semplicità, un uomo.
Riassumendo possiamo, come risultato di queste riflessioni, tener per fermo questo: la Chiesa ha dapprima realizzato il cambiamento di struttura da piccolo gregge a Chiesa mondiale, a partire dal Medioevo si è identificata in occidente con il mondo.
Oggi questa identificazione è solo ancora un’apparenza, che nasconde la vera natura della Chiesa e del mondo e impedisce alla Chiesa in parte la sua necessaria attività missionaria. Così dovrà a breve, con o senza il consenso della Chiesa, realizzare un cambiamento di struttura che da interiore diventa anche esteriore, ridiventando un pusillus grex.
La Chiesa deve fare i conti con questo dato di fatto in modo tale da procedere in modo più circospetto nella prassi sacramentale, da distinguere nell’annuncio tra annuncio missionario e annuncio ai credenti; il singolo cristiano deve tendere in modo più deciso aduna fraternità dei cristiani e nello stesso tempo aspirare a dimostrare la sua prossimità con il prossimo non credente attorno a lui in modo veramente umano e in questo modo profondamente cristiano.
Accanto al cambiamento strutturale della Chiesa di cui abbiamo appena tracciato uno schizzo, bisogna notare però anche uno slittamento nella coscienza dei credenti che si è prodotta in relazione al fatto del paganesimo intraecclesiale.
Al cristiano di oggi è diventato inimmaginabile che proprio solo la Chiesa cattolica sia l’unica via di salvezza; in questo modo l’assolutezza della Chiesa, la serietà della sua pretesa missionaria, ma in fondo tutte le sue rivendicazioni sono diventate discutibili. Ignazio di Loyola [santo, 1491-1556] fa ancora riflettere gli esercitanti, in occasione della contemplazione sull’incarnazione, come la Trinità di Dio veda che tutti gli uomini scendono all’inferno (11).
Francesco Saverio [santo, 1506-1552] poteva ancora obiettare ai credenti musulmani che tutta la loro devozione era inutile, perché pii o senza Dio, delinquenti o virtuosi, sarebbero andati in ogni caso all’inferno perché non facevano parte dell’unica Chiesa in grado di salvarli (12).
La nostra umanità è respinta da tali rappresentazioni. Non possiamo credere che l’uomo che ci sta accanto, il quale è un uomo stupendo, disponibile e buono, andrà all’inferno perché non è un cattolico praticante. L’immagine secondo cui tutti gli uomini «buoni» saranno salvati è oggi per il cristiano normale altrettanto ovvia come prima la convinzione del contrario.
I teologi in realtà, a partire dal Bellarmino [card. Roberto S.J., santo, 1542-1621], che fu uno dei primi a tener conto di questi desideri umanitari, hanno cercato di spiegare in diversi modi come questa salvezza di tutti gli uomini «perbene» in fin dei conti sia una salvezza attraverso la Chiesa, ma queste costruzioni erano però troppo artificiose per poter lasciare dietro di sé tanta impressione (13).
In pratica quello che rimaneva era la confessione che «gli uomini perbene» «vanno in cielo», che cioè si poteva essere salvati sola moralitate; naturalmente questo era concesso ai soli non credenti, mentre i credenti continuavano ad essere gravati dal duro sistema delle esigenze ecclesiastiche.
Il credente si chiede allora un po’ disorientato: perché è così facile per quelli di fuori, mentre per noi è così dura? Da questo viene il sentire la fede come un peso e non come una grazia. Ad ogni modo gli rimane l’impressione che in fondo vi sono due vie di salvezza: quella della semplice moralità, misurata molto soggettivamente, per quelli che stanno al di fuori della Chiesa e quella della Chiesa.
Non può avere l’impressione che a lui sia toccata la via più piacevole; ad ogni modo la sua credulità è seriamente appesantita dalla presenza di una via di salvezza accanto a quella della Chiesa. Che l’effetto dirompente missionario della Chiesa in questa intima insicurezza ne soffra sensibilmente è chiaro.
Io cerco di rispondere a questa domanda che pesa per lo più sul cristiano di oggi, che esiste solo una via di salvezza, cioè quella di Cristo, che però poggia già in partenza sull’interazione di due forze contrapposte, su due piatti di bilancia che costituiscono insieme una sola bilancia, in modo tale che ogni piatto da solo sarebbe senza senso e ha senso e significato solo come parte dell’unica bilancia di Dio (14).
Incomincia già con il fatto che Dio ha separato il popolo di Israele da tutti i popoli del mondo come il popolo di sua elezione. Vuol forse dire che il solo Israele è scelto e che tutti gli altri popoli sono abbandonati? All’inizio sembra effettivamente così, come se, ponendo accanto il popolo eletto e i popoli non eletti, si dovesse pensare in questo modo statico, come lo stare l’uno accanto all’altro di due diversi gruppi.
Ben presto però diventa chiaro che le cose non stanno così; in Cristo infatti quell’essere l’uno accanto all’altro in modo statico di giudei e pagani diventa dinamico, così che i pagani attraverso la loro non elezione diventano eletti, senza per questo che l’elezione di Israele infine diventi illusoria, come mostra Rm. 11.
Si vede così che Dio può eleggere gli uomini in due modi diversi: direttamente oppure mediante la loro apparente riprovazione. Detto più chiaramente: diventa chiaro che Dio divide l’umanità nei «pochi» e nei «molti», una suddivisione che ricorre sempre nella Bibbia: «Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano!» (Mt. 7,14); «sono pochi gli operai» (Mt. 9,37); «pochi [sono] eletti» (Mt. 22,14); «Non temere, piccolo gregge» (Lc. 12,32); Gesù dà la sua vita in riscatto per i «molti» (Mc. 10,45); lo stare di fronte di giudei e pagani, di Chiesa e non Chiesa ripete questa divisione nei pochi e nei molti. Dio però non divide l’umanità nei pochi e nei molti per gettare questi nella fossa della perdizione e salvare quelli; neppure per salvare i pochi facilmente e i molti a tante condizioni.
Egli utilizza piuttosto i pochi in certo qual modo come il punto di Archimede, a partire dal quale scardina i molti con la leva con cui li attira a sé. Entrambi hanno la loro funzione nel cammino di salvezza, ciascuna diversa dall’altra. Il cammino però rimane uguale. Questo star di fronte lo si può capire solo quando si vede che a fondamento c’è lo stare di fronte di Cristo e dell’umanità, dell’uno ai molti.
Infatti qui si vede anche molto chiaramente il contrario: in realtà le cose stanno così, tutta l’umanità merita la dannazione e solo l’Uno la salvezza. Qui diventa visibile qualcosa di importante, che normalmente invece sfugge, pur essendo la cosa più decisiva: il carattere gratuito della salvezza, il dato di fatto che si tratta di una assolutamente libera manifestazione di favore; perché la salvezza dell’uomo consiste nel fatto che è amato da Dio, che la sua vita si trova in fondo fra le braccia dell’amore infinito.
Senza di questo tutto gli rimane privo di senso. Un’eternità senza amore è l’inferno, anche se a uno non succede nient’altro. La salvezza dell’uomo consiste nell’essere amato da Dio. Ma all’amore non esiste nessun diritto. Neppure a ragione di motivi morali o di altro tipo. L’amore è per sua natura un atto libero oppure non è neppure sé stesso. Questo lo sorvoliamo per lo più con il nostro moralismo.
In realtà nessuna moralità, per quanto grande essa sia, può trasformare in diritto la libera risposta dell’amore. La salvezza rimane così sempre libera grazia, anche se non consideriamo il peccato. Da esso non può d’altra parte propriamente prescindere; perché anche la più elevata moralità è sempre quella di un peccatore.
Nessuno può seriamente negare che anche le più elevate decisioni morali dell’uomo, in un modo o nell’altro, per quanto sottile e nascosto esso sia, sono intaccate dalla ricerca di sé stesso. Rimane così dopotutto vero che nello stare di fronte tra Cristo, l’Uno, e noi, i molti, siamo noi ad essere indegni della salvezza, sia che siamo cristiani o non-cristiani, credenti o non-credenti, morali o immorali; nessuno «merita» veramente la salvezza al di fuori di Cristo.
Ma qui appunto succede il meraviglioso scambio. Tutti gli uomini devono essere dannati, a Cristo solo appartiene la salvezza — nel santo scambio succede il contrario. Lui solo prende su di sé tutta la catastrofe e rende così libero per noi tutti lo spazio della salvezza. Tutta la salvezza che ci può essere per l’uomo riposa su questo scambio primordiale tra Cristo, l’Uno, e noi, i molti, ed è proprio dell’umiltà della fede il confessare questo.
Qui però si aggiunge che, per volontà di Dio, questo scambio primordiale, questo grande mistero della sostituzione, di cui vive tutta la storia, continua in tutto un sistema di sostituzioni che ha il suo coronamento nella contrapposizione tra Chiesa e non-Chiesa, tra credenti e «pagani».
Questa contrapposizione di Chiesa e non-Chiesa non significa una coesistenza e neppure uno scontro, ma un essere uno per l’altro, in cui ogni lato ha la sua necessità e la sua indissolubile funzione. Ai pochi, che sono la Chiesa, appartiene la continuazione della missione di Cristo di portare la sostituzione dei molti e la salvezza di entrambi succede solo nel loro essere funzionalmente ordinati l’uno all’altro e nel loro essere insieme subordinati alla grande sostituzione di Gesù Cristo, che abbraccia entrambi.
Se però l’umanità in questa sostituzione mediante Cristo e nella sua continuazione mediante la dialettica dei «pochi» e dei «molti» viene salvata, questo significa che ogni uomo, soprattutto i credenti, hanno una funzione inevitabile nel processo complessivo della salvezza dell’umanità.
Se uomini, addirittura il più gran numero degli uomini, vengono salvati senza appartenere in pienezza alla comunità dei credenti, questo avviene allora solo perché c’è la Chiesa come realtà dinamica e missionaria, perché quelli che sono chiamati alla Chiesa realizzano il loro compito come i pochi. Ciò significa: vi è la serietà di una vera responsabilità e il pericolo di un reale insuccesso, di una reale perdizione.
Anche se sappiamo che gli uomini, anche molti uomini, possono essere salvati apparentemente senza la Chiesa, sappiamo però anche che la salvezza di tutti dipende sempre dalla continua permanenza della contrapposizione di pochi e di molti; che c’è una vocazione dell’uomo davanti alla quale lui può mancare e, in virtù di questa mancanza, si può perdere.
Nessuno ha il diritto di dire: vedi, gli altri si salvano senza la piena serietà della fede cattolica, perché non io? Come fai a sapere che la fede cattolica nella sua pienezza non sia proprio la tua necessarissima missione, che Dio ti ha imposto per dei motivi di cui tu sul momento non ti accorgi, perché appartengono a quelle cose di cui Gesù dice: ora non le puoi capire, ma le capirai più tardi (cfr. Gv. 13,36)?
Questo vale rispetto ai moderni pagani. Il cristiano sa che la loro salvezza è nascosta nella grazia di Dio, da cui dipende anche la sua salvezza e che, per quanto riguarda la loro possibile salvezza lui non è però in grado di dispensarla a partire dalla serietà della propria esistenza di credente, ma piuttosto che proprio la loro incredulità può essere per lui un appoggio amplificato per una fede più piena nel momento in cui si sa coinvolto nella funzione di sostituzione di Gesù Cristo, dalla quale dipende la salvezza del mondo e non soltanto quella dei cristiani.
Solo Dio salva
Devo a conclusione di questi pensieri chiarire ancora qualcosa mediante una breve interpretazione di due testi della Scrittura, nei quali è riconoscibile una presa di posizione a proposito di questo problema (15). Vi è innanzitutto il difficile e pesante testo, in cui la contrapposizione dei molti e dei pochi è espressa in modo particolarmente insistente: «molti sono chiamati, ma pochi eletti» (Mt. 22,14) (16).
Che cosa significa questo testo? Non dice che molti sono respinti come generalmente si percepisce, ma innanzitutto solo che vi sono due diverse forme dell’elezione divina. Ancora più precisamente: dice chiaramente che vi sono due diversi atti divini, i quali entrambi tendono all’elezione, senza darci già nessuna chiarezza se entrambi raggiungono il loro scopo.
Se però si considera il procedere della storia della salvezza, come ce la spiega il Nuovo Testamento, allora le parole del Signore diventano chiare. Lo stare uno accanto all’altro in modo statico di popolo eletto e popoli non eletti diventa in Cristo un rapporto dinamico, in modo tale che i pagani proprio mediante la loro non elezione diventano eletti e quindi proprio mediante l’elezione dei pagani anche i giudei tornano alla loro elezione. Così questa parola può diventare per noi un insegnamento importante.
Il problema della salvezza degli uomini è quindi sempre impostato falsamente, se lo si imposta partendo dal basso, cioè come gli uomini salvano sé stessi. Il problema della salvezza degli uomini non è un problema della salvezza che loro riescono a raggiungere con le loro forze, ma il problema della giustificazione mediante la libera grazia di Dio.
Bisogna vedere le cose dall’alto. Non vi sono due modi con cui gli uomini giustificano sé stessi, ma due modi con cui Dio li elegge e questi due modi della elezione da parte di Dio sono l’unico cammino di salvezza in Cristo e nella sua Chiesa, che riposa sulla necessaria dialettica dei pochi e dei molti e sul servizio di sostituzione dei pochi che dilatano la sostituzione di Cristo.
Il secondo testo è quello del grande banchetto (Lc. 14,16-24 e paralleli). Questo Vangelo è proprio in senso molto radicale buona notizia, quando racconta che alla fine il cielo è riempito con tutti quelli che ora si possono raccogliere dappertutto; con gente che è del tutto indegna, che in rapporto al cielo è cieca, sorda, paralitica, mendicante.
Dunque un atto radicale di grazia e chi vorrebbe contestare che anche tutti i moderni pagani dell’Europa di oggi possono entrare in cielo in questo modo? Ognuno ha speranza sulla base di questo passo. D’altra parte la serietà rimane. Vi è il gruppo di quelli che sono respinti per sempre. Chi può sapere se, in mezzo a questi farisei respinti ci sia anche qualcuno che credeva di doversi ritenere un buon cattolico, mentre in realtà era un fariseo?
Chi può sapere se invece al contrario, in mezzo a quelli che non hanno accolto l’invito, non ci siano proprio quegli europei ai quali il cristianesimo era stato offerto, ma che lo hanno lasciato cadere? Così per tutti speranza e minaccia nello stesso tempo. In questo punto di intersezione di speranza e minaccia, a partire dal quale si danno la serietà e la grande gioia dell’essere cristiani, il cristiano di oggi deve condurre la sua esistenza in mezzo ai nuovi pagani, che d’altra parte riconosce posti nella stessa speranza e minaccia, perché anche per essi non c’è altra salvezza che quell’unica a cui crede: Gesù Cristo, il Signore.