di Amakusa Shiro
Quella dei Pacs è una questione puramente ideologica di cui non c’è alcuna esigenza sociale. Anzi, a dirla tutta, la vera esigenza sociale è combatterli a tutto spiano. Infatti, è la famiglia naturale a far bene alla società, laddove le convivenze, anche quelle etero, la danneggiano. Se non vi basta il buonsenso per capirlo, ecco i dati scientifici, riassunti da Renzo Puccetti, segretario del Comitato “Scienza & Vita” di Pisa-Livorno, intervistato dall’agenzia Zenit il 15 maggio 2006.
Nelle convivenze si hanno tassi di problemi psicologici doppi e della loro precarietà a far le spese sono soprattutto i minori (il tasso di abuso minorile vi è venti volte maggiore), che registrano anche peggiori rendimenti scolastici.
E veniamo alle coppie gay. Uno studio olandese evidenzia questi dati: le relazioni omosessuali durano in media un anno e mezzo e i maschi gay hanno mediamente, in un anno, otto partner diversi da quello principale. Nel matrimonio normale si registrano tassi medi annuali di infedeltà pari al 5% per l’uomo e il 3% per la donna; ma nelle unioni gay il tasso balza al 54,8%.
In Norvegia e Svezia, dove il matrimonio gay è legale, il tasso di divorzio in questo tipo di unione è superiore del 50% a quello normale (per le unioni lesbiche si arriva al doppio). Negli Usa, le coppie omosessuali evidenziano tassi di violenza domestica doppi rispetto alle coppie normali (tripli quando la coppia è formata da due maschi). Infine, nelle convivenze anche etero abbiamo percentuali maggiori, rispetto ai matrimoni regolari, di problemi ansioso-depressivi e comportamentali (alcolismo, droghe, violenza).
Morale della favola, non solo i governi dovrebbero incentivare il più possibile la famiglia tradizionale fondata sul matrimonio, ma anche porre in essere misure tese a scoraggiare qualunque altra forma di unione, altro che Pacs. E questo, come si è visto, non solo per frenare e possibilmente invertire il declino demografico.
Ora, l’unica realtà che opera, anche da questo punto di vista, per il bene dell’uomo è la Chiesa cattolica, cui stanno accodandosi quei laici più ragionevoli che vedono nel diritto naturale e cristiano il fondamento della civiltà. Dall’altro lato, anche politico, abbiamo i teorici della dissoluzione e del suicidio culturale e perfino fisico, che, al massimo, acconsentono ad accogliere nei loro consessi (ma in posizione subordinata) quei «cattolici adulti» che hanno accettato di relegare nella dimensione meramente privata la loro fede e hanno altresì accettato di bruciare incenso sull’altare dell’idolo del pluralismo relativista.
Ma la neutralità ideologica dello Stato, giusta e doverosa, non ha nulla a che vedere con quella etica, e il diritto naturale non può essere suscettibile di contrattazione lobbistica. Né la laicità dello Stato può essere sostituita e contraffatta da un regime che obblighi i cristiani a far finta di non esserlo per poter venire ammessi in società.
Infine, l’enfasi sui “diritti” degenera in individualismo anarchico e in jungla dove predomina il forte sul debole, l’interesse particolare sul bene comune. Quel bene comune per tutelare il quale lo Stato esiste ed è nato. Ma la cui nozione sembra essersi persa nel vocìo dei cortei, delle piazzate e dei talk show (che non sono, checché ne dicano, «approfondimenti», bensì mere parate di opinioni). Il bene comune, altro che Pacs
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ZENIT- Il mondo visto da Roma 15 maggio 2006
Dati scientifici confermano la necessità del sostegno alla famiglia naturale fondata sul matrimonio
Intervista al Segretario del Comitato “Scienza & Vita” di Pisa-Livorno
ROMA, lunedì, 15 maggio 2006 (ZENIT.org).- Ricevendo il 13 maggio i partecipanti alla Plenaria del Pontificio Consiglio per la Vita, Benedetto XVI è tornato a distanza di pochi giorni ad esprimere le considerazioni della Chiesa sulla unicità dell’unione umana basata sul matrimonio monogamico eterosessuale.
Il Santo Padre ha parlato di “amore debole”, quale fondamento delle unioni alternative e successivamente di “patrimonio dell’umanità” riferendosi alla famiglia fondata sul matrimonio (cfr. ZENIT, 14 maggio 2006).
Intervistato da ZENIT, il dottor Renzo Puccetti, Segretario del Comitato “Scienza & Vita” di Pisa-Livorno, ha spiegato che le argomentazioni del Pontefice riflettono esattamente la realtà dei fatti e cioè la debolezza sociale delle convivenze e la solida stabilità fornita dalla famiglia naturale fondata sul matrimonio.
“Il Papa ha semplicemente detto come stanno effettivamente le cose – ha sottolineato Puccetti –. Le convivenze si dissolvono con una frequenza che è del 300-400% superiore rispetto al matrimonio e questo è documentato in tutti i contesti socio-culturali”.
Inoltre, ha continuato, “i livelli di violenza domestica sono nettamente più alti tra i conviventi rispetto agli sposati (Kenney, 2006); negli individui fino a 64 anni si assiste ad una seria compromissione psicologica con frequenza doppia nelle persone che convivono, rispetto agli omologhi sposati (Schoenborn, 2004)”.
Qual è il problema principale delle convivenze?
Puccetti: La precarietà di cui fanno le spese i minori: il tasso di abuso minorile è 20 volte maggiore se il bambino vive con genitori conviventi, anziché con genitori sposati (Whelan, 1994); addirittura il matrimonio costituisce un fattore protettivo nei confronti della gravidanza, che risulta svolgersi con meno problemi medici (Raatikainen, 2005) ed i bambini che crescono in una famiglia con genitori sposati hanno migliori risultati scolastici (Sarantakos, 1996).
Quali i dati relativi alla convivenze omosessuali?
Puccetti: Se confrontiamo le unioni omosessuali, non abbiamo sotto il profilo sanitario dati migliori. Uno studio condotto in Olanda ha evidenziato che le relazioni omosessuali durano in media un anno e mezzo e che i maschi gay hanno mediamente 8 partner in un anno fuori dal rapporto principale (Xiridou, 2003).
In un’ampia indagine condotta in Francia che ha coinvolto oltre seimila persone omo/bisessuali, quelle che venivano identificate come “relazioni stabili” sono risultate non essere esclusive nell’ultimo anno in oltre la metà dei casi; un’analoga indagine condotta a Bologna, peraltro pubblicata sullo stesso sito web dell’ARCIGAY, ha fornito numeri ancora superiori (Pietrantoni, Fattorini).
Di fronte a tassi d’infedeltà in un anno che nel matrimonio eterosessuale le varie indagini non collocano oltre il 5% per l’uomo e il 3% per la donna, per le unioni gay si registrano valori del 54,8% (Enquête Presse Gay 2004) e per quelle lesbiche del 14% (Bryant, 1989).
Non è un caso se in Norvegia e Svezia, dove esiste il matrimonio omosessuale, il tasso di divorzio nei matrimoni gay è maggiore del 50% ed in quelli lesbici del 100%; mentre il Dipartimento di Giustizia USA registra un tasso di violenza domestica doppia nelle unioni omosessuali femminili e tripla in quelle maschili.
Di fronte ad un quadro così delineato, quale riflessione può essere fatta?
Puccetti: Non si tratta ovviamente di dare giudizi, né di addossare colpe, ma semplicemente di registrare dati e fatti e trarne le conseguenze. Un recentissimo studio condotto da ricercatori dell’Università di Princeton, secondo cui i genitori non sposati sono affetti in percentuale maggiore da problemi ansioso-depressivi e comportamentali (alcolismo, uso di droghe, incarcerazione e violenza), rispetto agli omologhi sposati, si conclude con l’invito rivolto al governo a promuovere iniziative atte ad incrementare il matrimonio tra le coppie a basso reddito, tenendo in considerazione questi aspetti (Deklyen, 2006).
Nell’interesse generale, in un’ottica di salute, non si può non prendere atto che non solo è utile per la società mettere in atto politiche a favore del matrimonio inteso nel senso tradizionale, ma addirittura è sensato porre in essere disincentivi alle convivenze. Una politica orientata diversamente sembra molto più frutto dell’ideologia, che della ragione, o almeno del suo parente povero: il buon senso.