I «pericoli» della solidarietà

burocracyStudi cattolici n. 637

marzo 2014

Roberto Giorni

C’è qualcosa – oltre al senso di onestà – che obblighi un governo al rigore e alla completa trasparenza nei confronti dei cittadini? No! Attualmente no. Negli anni Trenta del XX secolo, invece, il sistema monetario gola standard – caratterizzato da moneta non liberamente manovrabile perché coperta da riserva aurea – impediva ai governi la falsa solidarietà di «promettere tutto a tutti», nascondendo il costo delle politiche monetarie che comportavano sistematicamente la crescita del debito pubblico e la successiva inflazione, strumenti di frode sul reddito e sul risparmio dei cittadini.

 

Con il cambio fisso della moneta, nel medesimo periodo, i governi erano obbligati a dire la verità ai cittadini per il fatto che una svalutazione della moneta risultava politicamente imbarazzante, in quanto avvertita subito dagli elettori. Il sistema monetario aureo non cadde per problemi relativi al suo funzionamento, furono i governi a distruggerlo. Dal loro punto di vista la stabilità dei tassi di cambio (non modificabili dai governi) era solo un impedimento alle loro libere manovre monetarie.

Le manovre monetarie

Prima dell’euro. Prima del 2002, l’anno di entrata in vigore dell’euro, i governi e le banche centrali in caso di crisi economi­ca adottavano i soliti provvedimenti di corto respiro:

1) emettere moneta in dosi massicce con conseguente inflazione;

2) svalutazione esterna della moneta per favorire le esportazioni. Quando un Paese svaluta la moneta  le  sue  merci  sui  mercati esteri costano meno; il provvedimento coinvolge i Paesi produttori concorrenti che, per ritorsione, sono costretti a svalutare le rispettive monete per far riguadagnare competitivita alle loro merci. Così i problemi non trovavano soluzione;

3) rinvio a tempo indeterminato delle urgenti misure strutturali (liberalizzazione dell’economia; aumento della flessibilità di prezzi e mercati; riduzione della spesa pubblica e  smantellamento dello Stato sociale).

Con l’euro. Per i Paesi dell’euro questa reiterata fuga dalla realtà non è più possibile. Infatti, gli Stati aderenti non hanno più la possibilità di manipolare (svalutare) la moneta per nascondere i problemi del governo del momento. L’euro, che sotto certi aspetti agisce come il sistema gola standard ai suoi tempi, di fronte alla recessione del 2008 ha provocato nonostante tutto due effetti positivi:

1) gli Stati dell’Eurozona non hanno potuto manovrare la moneta per creare la tassa occulta dell’inflazione;

2) la crisi economica ha mostrato l’effetto disciplinante dell’adozione dell’euro: alcuni Stati, tra i quali la Grecia e la Spagna, hanno trovato la forza di affrontare la realtà facendo finalmente i «compiti a casa» (le riforme strutturali), per ritrovare rigore amministrativo e trasparenza di bilancio.

La situazione italiana

Qual è, in proposito, la situazione dell’Italia? Semplicemente quella di un Paese ostaggio dello Stato burocratico, creato dagli errori della politica, in cui non c’è spazio per la libera impresa. Per sintetizzare questa situazione basta qualche punto di riferimento di attualità.

1. Un’occhiata alle statistiche mostra che in alcune regioni del mondo i posti di lavoro sono creati dalle piccole imprese. Negli Stati Uniti il 50% della popolazione attiva lavora nelle piccole imprese; in Italia più dell’80%. Per favorire la nascita di queste imprese sono indispensabili almeno quattro condizioni: possibilità di creazione con facilità e a basso costo; possibilità di accesso al credito; assistenza di enti capaci di fornire formazione e appoggio tecnico (come le camere di commercio); e infine – sul piano dell’intera popolazione — la valorizzazione di creatività, capacità imprenditoriale e abilità specifiche. Questa situazione favorevole alla nascita delle piccole imprese, com’è noto, in Italia non esiste.

2. Nel nostro Paese esistono ruoli, gruppi sociali e interessi assolutamente decisivi che da tempo, più di conservare un accesso privilegiato alla decisione politica, si muovono usando indifferentemente la Destra e la Sinistra, al di là di qualunque loro ipotetica contrapposizione. Questo blocco burocratico-corporativo, scrive Ernesto Galli della Loggia, «è collegato stabilmente a quei settori, economici e non, strettamente dipendenti da una qualche rendita di posizione (dai taxi alle autostrade, agli ordini professionali, alle grandi imprese appaltatrici, alle telecomunicazioni e all’energia). Consiglio di Stato, tar, Corte dei Conti, Authority, alta burocrazia (direttori generali, capigabinetto, capi degli uffici legislativi), altissimi funzionari delle segreterie e degli organi costituzionali (presidenza della Repubblica, della Camera e del Senato), vertici di gran parte delle fondazioni bancarie, i membri dei CDA delle oltre ventimila SFA a partecipazione pubblica al centro e alla periferia: sono questi il nucleo del blocco burocratico-corporativo. Il quale si trova a muoversi assai spesso in collegamento con l’attività dei grandi interessi protetti».

Bisogna pensare, conclude Galli della Loggia, «che specialmente di fronte alla componente giudiziario-burocratica del blocco in questione il ceto politico-parlamentare, quello che apparentemente ha il potere di decidere e di fare le leggi, si trova, invece, virtualmente in una situazione di sostanziale subordinazione» (Corriere della sera, 24.1.2014). In questa situazione la democrazia è oggi un evidente ostaggio dei detti componenti dello Stato burocratico.

«Che poi l’impotenza della politica», scrive Angelo Panebianco, «si accoppi alla sua invadenza non è una contraddizione: a una politica che non può innovare resta solo la distribuzione di posti e prebende. Il politico che non può affermarsi generando beni pubblici (innovazioni a beneficio della collettività) deve farlo distribuendo beni privati [ossia attraverso la falsa solidarietà pubblica con danno del risparmio privato]» (Corriere della sera, 11.2.2014).

3. Tra i trucchi finanziari che sostengono il potere della casta politica, le fondazioni politiche occupano un posto di rilievo. «Il caso inesplorato con aspetti alquanto truffaldini», sottolinea Massimo Teodori, «si riferisce al finanziamento pubblico mascherato alle fondazioni politiche, sia che avvenga sotto forma di contributi degli enti economici, sia che passi attraverso le finte ONLUS che sottraggono risorse a benemerite associazioni per la promozione sociale e la ricerca scientifica» (Corriere della sera, 22.2.2014). Per non parlare poi dei crediti «incagliati» delle banche che furono concessi sulla base di considerazioni extraeconomiche e cioè della vicinanza con il ceto politico che, com’è noto, attraverso le fondazioni controlla di fatto il sistema bancario.

Si potrebbe continuare a lungo, ma concludiamo con un aspetto significativo. «In questo contesto», ricordano S. Rizzo e G. A. Stella, «18 anni dopo la riforma delle pensioni che stravolse la vita di milioni di persone, i consiglieri laziali mandati a casa dagli scandali che avevano mozzato la legislatura hanno incassato nel 2013 (oltre alla “liquidazione”) pensioni stratosferiche rispetto ai contributi pagati» (Corriere della sera, 20.1.2014).

 Come negli anni Settanta?

 Questo quadro dell’Italia, a eccezione dell’inflazione contenuta dall’euro, presenta non poche analogie con la situazione degli anni Settanta che, tra l’altro, era aggravata dall’usurpazione del potere politico da parte del potere sindacale. In altre parole, s’imponevano paghe pari a quelle di altri Paesi europei non volendo vedere che anche per difetto d’investimenti, e quindi di capitale reale a disposizione del lavoro, nel nostro Paese il prodotto per unità di lavoro era assai più modesto che altrove.

Inoltre, l’esistenza della scala mobile (il meccanismo per l’adeguamento delle retribuzioni: indennità di contingenza) operava come un fattore moltiplicatore dell’inflazione in quanto prevedeva per tutti un’uguale indennità. E questo, come sottolineava Libero Lenti, «era il modo per appiattire salari e condizioni di lavoro». Ma nessuno cercava di far intendere agli italiani che bisognava lavorare di più per collegare i salari alla produttività.

Le tensioni inflazionistiche erano anche aggravate dall’aumento dei trasferimenti di redditi che, nell’ambito di uno Stato assistenziale, comportavano un continuo aumento del disavanzo del bilancio della pubblica amministrazione. Nel 1981 la situazione avrebbe comportato un tasso d’inflazione pari al 21,1%. Ma tutto questo non contava. Si ignoravano le evidenti cause dell’inflazione e ci si illudeva di poterle bloccare facendo affiggere manifesti con richieste ridicole: «Difendi la tua spesa, chiama il governo» e si indicava perfino il numero telefonico per le chiamate… senza risposta. «Il tutto», scriveva Libero Lenti, «finì, come doveva finire, e come spesso finisce nel nostro Paese, in farsa» (Le radici nel tempo, Angeli, Milano 1983, p. 352).

 Burocrazia o libertà?

 All’inizio del 2014, ancora una volta, dobbiamo costatare che il nostro Paese è finito nelle comiche, e questa volta con i politici ci sono anche gli attori di professione. L’aspetto che inquieta è dato dal fatto che questa ennesima crisi era facilmente prevedibile perché, insieme alle suddette preoccupanti caratteristiche del blocco burocratico-corporativo, bisogna considerare, tra l’altro, i problemi delle imprese pubbliche controllate dalla Stato centrale e dagli enti locali (regioni, provincie e comuni) che sono più di quattromila. Si può dire che siamo uno Stato del «socialismo reale». Come dimostrare il contrario?

Eppure da tempo un crescente corpo di pensiero (La scuola delle scelte pubbliche), confortato da ricerche empiriche, mostra che l’espansione del settore pubblico fa crescere la burocrazia che è interessata, a sua volta, a massimizzare l’impiego di fattori produttivi (numero di persone negli uffici, strumenti, tempo ecc.), a parità di servizi prodotti, e ad ampliare l’intervento statale. «Troppo spesso», scrivono James Buchanan e Richard E. Wagner, «tali attività da parte dei burocrati prendono la forma di intrusioni sempre più costose nelle vite dei comuni cittadini, e specialmente nelle loro funzioni di responsabili di attività produttive […]. Un settore pubblico sempre più sproporzionato, oltre alle conseguenze inflazionistiche, porta con sé le ben note, ma sempre importanti, conseguenze per la libertà individuale» (La democrazia in deficit. L’eredità politica di Lord Keynes, Armando, Roma 1997, p. 88).

 La crisi era prevedibile

Ci siamo permessi di dire che la crisi italiana era prevedibile perché la storia e l’analisi economica ne mostrano da troppo tempo le cause, sollecitando la possibile soluzione. Giunge a proposito, a conferma del discorso sin qui fatto, un significativo pamphlet di Sergio Ricossa, I pericoli della solidarietà, pubblicato nel 1993 e riproposto in questi giorni dall’editore Rubbettino. Con la sua ironia pungente, l’Autore ci mostra che cosa sia la solidarietà e quale funzione essa svolga nella convivenza di tutti giorni e specialmente nel rapporto tra governanti e governati.

In primo luogo, Ricossa parla della solidarietà volontaria. E spiega che pure il nostro più spontaneo desiderio di aiutare gli altri «esige un patto fra almeno due persone», chi propone e chi accetta. In questo contesto Ricossa esplora le relazioni familiari, i rapporti tra colleghi e altre situazioni. E al suo setaccio non sfuggono i «regali» prestigiosi che precedono l’«invito ad aderire a reti di connivenze e omertà», le cricche solidaristiche alle quali «bisogna saper dire di no al momento giusto».

Ricossa passa poi al tipo di solidarietà a cui non è possibile sottrarsi: quella resa «obbligatoria per legge, imposta da politici demagoghi, pagata da contribuenti inermi, goduta massimamente da burocrati pubblici, inventata nella forma moderna da Bismarck, il cui ideale era trasformare la Prussia in un’immensa caserma, trattando i civili come militari […]. Il valore morale della solidarietà obbligatoria, non libera, è nullo», mentre il suo valore economico «inteso come spesa, è altissimo. Il presupposto teorico è che i ricchi paghino per i poveri. La conseguenza pratica», conclude Ricossa, «è che, più spesso di quanto non si creda, i poveri pagano per i ricchi» (p. 26).

Alla lente del nostro Autore non sfugge il ruolo dell’industriale incompetente in economia, ma astuto in politica: «Chiede denaro pubblico per non licenziare, dieci, cento o mille operai. In effetti egli è nove volte su dieci un asociale egoista, che spreca risorse della collettività fingendosi solidale con i dipendenti». In sostanza, l’industriale aiutato diventa un concorrente sleale, che danneggia i non aiutati. «L’industriale cattivo», conclude Ricossa, «scaccia gli industriali buoni, e l’economia di mercato a poco a poco cessa di funzionare e la si accusa di essere un sistema disastroso» (p. 78).

Forse è il caso di ricordare che navigando nei saggi del prof. Ricossa, a partire dagli anni Settanta, si può vedere come troppe volte le previsioni negative delle sue analisi – non ascoltate – si sono verificate. Questa volta, con le prospettive aperte dal nuovo governo, riusciremo a fare «i nostri compiti a casa» con autentica trasparenza? Il primo ostacolo da abbattere, come abbiamo visto, è la gabbia metallica del blocco burocratico-corporativo e degli interessi protetti che soffoca la politica. Chiudiamo citando a memoria un brano di Ricossa dell’inizio degli anni Novanta che sintetizza efficacemente il contenuto di questa nostra nota: «In Italia quando le cose vanno bene, i profitti sono dei capitalisti, quando vanno male, le perdite sono addossate a tutta la popolazione, per lo meno ai contribuenti. Questo sistema è senza dubbio il peggiore: siamo riusciti a sommare il peggio del capitalismo e del socialismo».