Tempi.it 2 Novembre 2017
Un caso raccontato dal New York Post offre un ottimo spunto di riflessione su questa pratica bio-medica e sui terribili rischi sociali e giuridici che ne derivano
Aldo Vitale
Sul New York Post dello scorso 24 ottobre 2017 è stato pubblicato un servizio sull’utero in affitto che offre un ottimo spunto di riflessione su questa pratica bio-medica e sui terribili rischi sociali e giuridici che ne derivano.
In breve la storia: Allen, 31 anni californiana, anche su consiglio del proprio marito Jasper che la invoglia in tale direzione dicendole che in tal modo consentirà a una famiglia di ricevere la benedizione di un figlio, decide nel 2015 di diventare madre surrogante, prendendo così contatti con l’agenzia di surrogazione Omega Family Global e stipulando un contratto con una facoltosa coppia cinese, che vuole avere un figlio tramite surrogazione negli Stati Uniti, al costo di 30.000 dollari.
Tra le clausole contrattuali vige quella per cui la gestante non dovrà avere rapporti sessuali con il proprio marito Jasper fino a quando le operazioni di procreazione medicalmente assistita non saranno andate in porto e poi successivamente soltanto con il condom. E così avviene.
Allen inizia la gravidanza, e soltanto dopo ha rapporti con il condom con il proprio marito Jasper, ma alla prima ecografia utile si scoprono due feti invece che uno.
La coppia cinese committente, come tutti i soggetti coinvolti, ritiene di essere destinataria di due gemelli, dato l’alto tasso di gravidanze multiple a cui conducono le tecniche di procreazione medicalmente assistita, aggiungendo quindi ulteriori 5.000 dollari al prezzo originariamente pattuito.
Si giunge, così, al momento del parto, quando nascono Mike e Max. Ma la Signora Liu, cioè la donna cinese committente, porta subito via con sé i due neonati, violando la clausola contrattuale secondo cui la donna gestante, Allen, aveva diritto di trascorrere almeno un’ora dopo il parto con i due neonati.
Dopo qualche tempo, la donna cinese committente, che intanto ha chiamato uno dei due neonati con il nome di Malachi, si accorge che Mike ha lineamenti asiatici, mentre Max-Malachi stranamente afro-americani.
Si procede, quindi, alle inevitabili indagini biologiche necessarie e si scopre che un bambino è biologicamente legato alla coppia americana, Allen e Jasper, mentre l’altro alla coppia cinese committente, i signori Liu.
Si è trattato, infatti, di un raro caso, ma ampiamente documentato in letteratura medica, di gravidanza da superfetazione, cioè di una seconda gravidanza che prende l’avvio nonostante sia già iniziata la prima, a cui diventa, sostanzialmente, coeva, dando luogo a una gravidanza gemellare dizigotica, cioè formata da due zigoti-embrioni distinti che, in questo caso, sono formati con materiale biologico di addirittura 4 diversi individui, cioè appunto le due coppie, quella americana surrogante e quella cinese committente.
Allen e Jasper, quindi, chiedono ai signori Liu la restituzione del proprio figlio biologico, trovando non solo la resistenza della coppia committente, ma la richiesta da parte di quest’ultima di un risarcimento compreso tra i 18.000 e i 22.000 dollari per tutto quanto accaduto. Comincia così la battaglia legale che costa alla coppia americana altre migliaia di dollari, ottenendo alla fine, dopo diversi mesi dalla nascita, la restituzione del figlio biologico in un parcheggio della nota caffetteria Starbucks.
Il tutto si offre quale banco di prova ideale per comprendere i rischi dell’utero in affitto.
In primo luogo, si conferma un fatto oramai noto, e cioè che il flusso del mercato della gravidanza a pagamento si è invertito, non più da ovest verso est, ma da est verso ovest, per cui non sono più le ricche coppie eterosessuali o omosessuali occidentali ad affittare gli uteri delle povere donne orientali, ma sono adesso le abbienti coppie orientali a pagare gli uteri delle impoverite donne occidentali.
Si badi che, almeno dal punto di vista etico e giuridico, nulla cambia, poiché in tutti i casi è offesa la dignità umana, prescindendo dal fatto che i committenti siano eterosessuali o omosessuali, occidentali o orientali, come ben spiegato dall’interessantissimo e documentatissimo volume di Enrica Perucchietti intitolato Utero in affitto. La fabbricazione di bambini, la nuova forma di schiavismo. I retroscena della maternità surrogata, delle derive dell’eugenetica agli interessi delle lobby.
Tuttavia, dal punto di vista sociale e politico si tratta di un inizio di cambiamento epocale, poiché da un lato l’inversione del flusso evidenzia l’ulteriore fragilità umana e culturale dell’occidente, e dall’altro lato sottolinea che la logica mercatistica servo-padrone si può rovesciare a danno di chi l’ha propugnata e praticata per decenni.
Insomma, se fino ad ora sono state le nostre madri, mogli, sorelle, e figlie a schiavizzare le donne dell’est, adesso anche le donne dell’est possono schiavizzare le nostre madri, mogli, sorelle e figlie: e di ciò occorre essere tutti ben consapevoli, poiché un domani nessuno potrà dire “io non sapevo”; l’ennesimo paradosso di una società, quella occidentale, che sul femminismo e sull’emancipazione della donna da ogni schiavitù naturale o sociale ha costruito uno dei suoi più fieri valori e stili di vita, ritrovandosi però del tutto inerme dinnanzi all’importazione di quelle nuove forme di schiavitù che a lungo gli stessi occidentali hanno esportato nelle parti più fragili del mondo.
In secondo luogo, emerge con estrema chiarezza quanto sia drammaticamente difficile ottenere l’esatta esecuzione delle clausole dei contratti di maternità surrogata e una efficace tutela in caso di loro violazione.
In terzo luogo, si disvela in tutta la sua anti-umana tragicità il reale retro-pensiero alla base della legittimazione etica e giuridica della pratica dell’utero in affitto, cioè una espansione dell’economicismo, ovvero dell’ideologia che ritiene tutto economicamente valutabile, finanche la commercializzazione dell’essere umano, tanto che, come in un rilancio di una partita di poker, in caso di secondo feto imprevisto la coppia committente, almeno in questo caso, ha rialzato la posta aggiungendo la somma di 5.000 dollari (sarebbe interessante sapere anche con quali criteri economici si sia giunti alla definizione di una tale somma: valore di mercato, equo apprezzamento di un terzo, mero arbitrio?).
In quarto luogo, si comprende con troppa facilità quanto siano a rischio i rapporti sociali, le relazioni famigliari, i ruoli parentali in seguito alla diffusione della pratica dell’utero in affitto dietro cui si cela la mera speculazione economico-finanziaria delle agenzie di surrogazione che sfruttano tanto i desideri dei committenti, quanto soprattutto lo stato di bisogno delle donne surroganti.
Infine, ad essere stravolta è anche la natura dello stesso diritto che, sottratto alla sua vocazione di difesa dei più deboli, diventa, tramite i contratti di surrogazione, strumento grottesco d’abuso del più (monetariamente) forte, contraddicendo tutta l’antica sapienza giuridica occidentale per cui il diritto dovrebbe essere ars boni et aequi, cioè l’arte di ciò che è buono ed equo.
Il tutto si può agevolmente riassumere con le parole della stessa ragazza americana, Allen, che ha deciso di diventare surrogante: «It was like Max was a commodity and we were paying to adopt our own flesh and blood». È’ stato come se Max fosse una merce e noi abbiamo dovuto pagare per la nostra stessa carne e il nostro stesso sangue».