L’autentico sviluppo cerca solide radici
don Maurizio Ceriani
I periodi di transizione sono sempre i più critici e pericolosi che la storia conosca, perché ogni gestazione è delicata e va protetta, guidata, curata; il tempo della crescita e della costruzione è infatti, nella natura delle cose, sempre più lungo, tormentato e complesso di quello della rovina e della distruzione.
Nella nostra epoca poi, a motivo della “velocità” dei cambiamenti, della globalizzazione del sistema informativo, del “vortice” delle innovazioni tecnologiche, sembra che nulla sia destinato a durare più dello spazio di un mattino, che tutto volga al suo repentino superamento e che la storia sia entrata in una fase di perenne transizione.
Forse è davvero così e il tempo si è veramente accelerato. Si pone quindi l’urgenza di creare continuità, di lanciare ponti capaci di unire “ieri” a “domani”, così da evitare la frammentazione dell’ “oggi” e l’alienazione di coloro che lo stanno vivendo.
È tempo ormai di superare l’inganno di una cultura che ha posto nella “rivoluzione” il suo motore, per recuperare il sereno fluire della “tradizione”, unica forza capace di conciliare le esigenze dell’inesauribile desiderio di crescita con la saggezza e la forza delle radici, che sorreggono e innalzano ogni slancio.
Molto spesso la nostra storiografia ha esaltano i fautori delle rivoluzioni, dimenticando invece i silenziosi tessitori della tradizione, uomini e donne che hanno saputo governare i tempi dolorosi della transizione, premurose levatrici dei secoli, preziosi condottieri dei popoli, vigili scolte della pace e del vero progresso.
Laddove sarebbe più facile distruggere il passato e creare così il vuoto davanti al futuro – coltivando l’illusione che il meglio si possa costruire uccidendo, devastando e incendiando, rinnegando le proprie origini e cancellando la propria storia – la vera grandezza dell’uomo emerge nella capacità di raccogliere le forze della novità e dello sviluppo sotto il segno del certo e del sicuro; la memoria, custode dell’identità, si salda così con il progresso e, superando la tentazione dell’effimero e del mutevole, si coltiva la pace autentica.
Quando una comunità, sia essa politica o religiosa, incontra nella sua storia siffatti personaggi ha il dovere di onorarli e seguirli come i suoi veri profeti e suoi illuminati sapienti, se non vuole tracciare da se stessa la strada della propria rovina.
Nei prossimi mesi ricorrerà (e sarà certamente trascurato) un anniversario legato a un singolare personaggio, Ezio l’ultimo generale romano, che sta sulle soglie della storia europea come uno dei suoi padri. Dopo aver salvato Roma da Attila con la più brillante operazione militare del suo secolo, ma soprattutto con un’azione culturale (degna di un vero gigante della storia) che avrebbe avuto conseguenze ben più ampie di una semplice alleanza strategica, venne ucciso per invidia proprio 1550 anni fa.
Sotto le aquile di Roma, da secoli segno certo di civiltà e diritto, Ezio seppe raccogliere le nuove forze dei popoli germanici, trasferendo l’orgogliosa eredità della Città Tiberina alla nascente Europa e incanalando per vie sicure le energie emergenti, inedite e cariche di speranze.
Così la furia di Attila venne fermata nelle pianure dei Campi Catalaunici da ciò che era contemporaneamente l’ultimo esercito di Roma e le prime legioni europee, il simbolo di una tradizione antica e la novità che la riempiva, la forza della radice e il rigoglio dei germogli. La speranza s’impose forte sulle tenebre dello sconforto e della resa e le vinse.
Passò una manciata di mesi, il lungimirante generale fu esautorato dai mediocri che spesso hanno ruoli che non meritano e non sanno onorare, la minaccia unna ricomparve. Vi erano ancora i simboli della grandezza di Roma, non erano scomparse le energie nuove dei Germani, ma non vi era più “il Tessitore”: i primi divennero vuoti simulacri, le seconde restarono sparse e inutili vampate, mentre il terrore e la disperazione trionfavano in Aquileia.
L’imperatore Valentiniano III uccise di suo pugno Ezio; era la prima volta in trent’anni di regno che faceva qualcosa di così coraggioso, lui persona inetta e dissoluta, dalla vita pigra e molliccia, per nulla incline al governo e alle decisioni.
Credeva di aver ucciso il suo padrone e invece si trovò ad aver ucciso il suo protettore fedele, al punto che persino un cortigiano ebbe l’ardire di dirgli: “Vi siete servito della mano sinistra per tagliarvi la destra”e non era una battuta di spirito, ma la verità. Così accade ogni volta che si cerca il nuovo per se stesso obliando la memoria: l’inedito finisce per avere il sapore del “già visto”, impallidendo in una triste caricatura di ciò che è stato.