La Croce quotidiano
11 ottobre 2017
Etica, regole, onestà e capacità: un poker, tra i molti possibili, che predice il successo o il fallimento delle aspirazioni politiche
di Andrea Artegiani
Il recente scandalo delle abilitazioni alla docenza universitaria nella disciplina di diritto tributario, che non ha riguardato singole università ma atenei di tutto il territorio nazionale (indagate complessivamente 59 persone tra cui anche l’ex ministro Augusto Fantozzi), ha riportato alla ribalta una questione non facile da affrontare.
Parlo dell’importanza della correttezza, dell’efficienza e dell’efficacia nello svolgersi di un procedimento pubblico e di quanto esso possa essere influenzato da un sistema di prescrizioni che lo organizzi e quanto, invece, necessiti di un condiviso sistema di regole non scritte, cioè fondamentalmente etiche che, in ultima analisi, possa garantire che le prescrizioni, pur formalmente rispettate, non siano sostanzialmente aggirate per garantire interessi che c’entrano poco o nulla con l’obiettivo del perseguimento del bene comune.
Il citato caso è paradigmatico: l’organizzazione concorsuale che doveva favorire, ovviamente, la nomina alla docenza dei candidati più preparati, era sistematicamente aggirata per “pilotare” i concorsi, affinché risultassero vincitori i candidati preventivamente “graditi” alle commissioni giudicanti.
Stando agli atti dell’inchiesta giudiziaria, Il “sistema” era banale: i professori ordinari che, di volta in volta, dovevano far parte delle commissioni giudicanti, si accordavano preventivamente sulla partecipazione dei “loro” candidati, in modo che il principio del concorso fosse clamorosamente ribaltato. Come ha sostenuto in una intervista radiofonica il candidato che ha dato il via all’inchiesta con la sua denuncia alla magistratura, non erano i candidati a concorrere liberamente ad un concorso indetto, quanto, piuttosto, il concorso stesso ad essere indetto e “cucito addosso” ai candidati di volta in volta da promuovere.
Senza attendere gli sviluppi, pur doverosi, della vicenda giudiziaria, si può tranquillamente parlare della questione poiché chiunque abbia un minimo di confidenza con questo tipo di concorsi sa perfettamente che il “sistema” si sia da anni attestato su questa immoralità e, purtroppo, in molti (se non in tutti) i dipartimenti universitari italiani.
Dunque il punto sembra essere quello citato all’inizio di questa riflessione: quanto la prassi descritta è figlia di regole sbagliate, che favoriscono “l’inciucio” e quanto, invece, il problema sta invece in una mancanza generale di etica pubblica che nella regolamentazione cerca e scova le falle per utilizzarle a proprio vantaggio?
Credo si possa serenamente sostenere che entrambe le cose concorrono a determinare la situazione che stiamo esaminando.
Nessun sistema di regole è infatti perfetto ed immune da falle. Così come è peregrino confidare solo nell’etica individuale per tamponare un sistema di regole chiaramente fallato che sostanzialmente “invita” alla malversazione.
Dal lato della regolamentazione si può e si deve sicuramente fare molto. Viviamo in sistemi di regole che, spesso, sembrano assemblati per favorirne un uso distorto e questo dei concorsi universitari negli atenei nazionali ne è un bell’esempio. I settori concorsuali dei settori omogenei che formano i gruppi dei relativi docenti ordinari sono troppi e troppo frazionati, al punto che, nel caso di specie, gli Ordinari di Diritto Tributario che costituivano poi i membri delle commissioni giudicatrici risultano essere, in tutta Italia, circa 150. È evidente che si conoscano quasi tutti tra di loro e che la tentazione di accordarsi nasca piuttosto spontanea. Un allargamento consistente del gruppo dei candidati a far parte delle commissioni giudicanti renderebbe, evidentemente, più complessa e meno “naturale” la tendenza ad accordarsi preventivamente.
Sono queste soluzioni semplici che ben potremmo adottare se solo si diffondesse la sana pratica di sottoporre a severi controlli di efficacia ed efficienza i sistemi regolativi pubblici che abbiamo in uso. Con l’intento di migliorarli rispetto ai risultati distorti dal bene comune prefissato. Tendiamo, invece, a fare riforme ideologiche ed altrettanto unilaterali cancellazioni di strumenti di regolamentazione (vedi il caso dei “voucher” per il lavoro saltuario, cancellati in primavera scorsa e di cui ora si riparla per evidente necessità) senza comprendere che è l’approssimazione successiva che ci porta ai migliori risultati piuttosto che i continui cambiamenti che finiscono poi per non cambiare veramente nulla. Si tratta, in fondo, del vecchio vizio italico magistralmente narratoci da Tomasi di Lampedusa ne “Il Gattopardo”.
Quanto all’etica comportamentale, invece, la questione è indubbiamente più complessa e richiede un ragionamento di più ampio respiro.
Come ben diceva Emiliano Fumaneri in un suo articolo recentemente pubblicato su queste colonne, l’uomo è in grado, se vuole, di percepirsi terzo rispetto a sé e, dunque, di adoperarsi per il bene comune anche indipendentemente dal proprio tornaconto personale. Ma in assenza di una morale che lo contraddistingua dal regno animale, egli è anche perfettamente in grado di auto-distruggersi proprio rincorrendo il proprio tornaconto personale (cfr. Emiliano Fumaneri, Derive #pornografiche della post-democrazia, in “La Croce quotidiano”, 7 ottobre 2017, p. 6).
Dobbiamo dunque, a mio avviso, provare a ragionare sull’inestricabile rapporto fra valori, onestà e capacità e la loro declinazione in politica per dare una prospettiva costruttiva al problema dell’etica comportamentale. Credo infatti che il raggiungimento di un più diffuso modello di etica individuale e collettiva non possa prescindere dall’onestà, dalle capacità professionali e dai valori morali attraverso i quali indirizzare le prime due.
Vediamo di analizzarli insieme.
Un sistema di riferimento valoriale mi pare una precondizione essenziale senza la quale anche soltanto la determinazione di cosa possa essere definito “bene comune” diventa impossibile. Nel caso della parte di mondo occidentale in cui viviamo, il sistema valoriale cristiano dovrebbe essere la scelta più ovvia per evidenti ragioni storiche.
L’onestà dovrebbe venire subito dopo: definito il bene da perseguire, sembra infatti difficile conseguirlo senza un approccio onesto, almeno intellettualmente se non anche praticamente.
Attenzione però che l’onestà può essere solo una precondizione, non un valore. L’onestà, priva di capacità, di per sé non produce nulla di buono in politica. Si può e si deve essere onesti per occuparsi della cosa pubblica ma se non si è anche capaci si diventa banderuole al vento, nel migliore dei casi, o asserviti acriticamente a lobby di potere, nel peggiore. Ogni riferimento al ‘Movimento 5 stelle’ è puramente voluto.
Infine, la capacità professionale. In alcuni campi, la politica fra questi, assistiamo ad un drammatico calo del livello di preparazione di coloro che si presentano a sollecitare una rappresentanza di qualche tipo. In questo ambito le responsabilità dei partiti e movimenti politici sono enormi. Non c’è più, evidentemente, alcuna selezione interna ai partiti per la scelta di coloro che devono rappresentarli nelle istituzioni né, tantomeno, un’attività di formazione politico-culturale-amministrativa. Valgono solo i canoni di notorietà che possano garantire un risultato elettorale uniti alla “fedeltà” al dominus che gestisce il sistema di potere di riferimento. Gli esempi in merito portati sulla scena politica prima dal berlusconismo e poi dal renzismo e dai “5 stelle” sono palesi.
Promuovere dunque una politica fortemente valoriale, partecipata da persone oneste e professionalmente capaci sembra essere una assoluta priorità dei nostri tempi. Il Popolo della Famiglia ci sta provando seriamente.