Vent’anni fa moriva (sulla carta) il PARTITO COMUNISTA ITALIANO e nella tomba si portava intrighi, strane morti e gialli irrisolti
di Giovanni Fasanella
Saranno ancora lì, nella cassaforte di un notaio, le quattro videocassette di un’ora ciascuna con i segreti del più filosovietico dei comunisti italiani sui rapporti tra Pci e Urss? E chi custodisce l’archivio di Ugo Picchioli, «ministro dell’interno» di Enrico Berlinguer durante gli anni di piombo?
Sarà ancora in qualche armadio blindato dei servizi italiani, dove due agenti segreti lo depositarono, dopo averlo prelevato in casa sua, a poche ora dalla morte, avvenuta il 13 ottobre 1996? E dove saranno le carte più delicate del partito che non vennero mai consegnate alla Fondazione Gramsci?
«Sono in qualche capitale dell’Est ex comunista: Berlino, con ogni probabilità» sostiene lo storico Piero Melograni. Per il quale «la storia del Pci è ancora oggi in gran parte da ricostruire». La storia segreta, s’intende Perché quella pubblica è ampiamente nota. E abbondantemente celebrata in queste settimane, in cui si ricordano i settant’anni del Pci.
Iniziò il 21 gennaio 1921, quando a Livorno la corrente comunista si staccò dal Psi. Ed era il 3 febbraio 1991 quando fini sciogliendosi nel Pds, a Rimini. Mostre, dibattiti pubblici, rievocazioni per dare a Cesare quel che è di Cesare, sottolineando il valore di una tradizione politica che ha avuto un peso enorme nella vicenda italiana. E anche grandi meriti, a cominciare dalla partecipazione alla lotta parmigiana da cui nacque la nostra Costituzione.
Ma l’altra faccia della medaglia? Già, perché, come ricorda Giovanni Pellegrino, l’investigatore sul piano politico-parlamentare del dopoguerra italiano, non si possono capire la storia del Pci e quella del Paese prescindendo dall’anomalia di un partito che era, al tempo stesso, tra i padri della nostra Costituzione democratica e legato al nemico sovietico anche da rapporti economici e organizzativi. Ecco allora un piccolo promemoria su alcuni dei grandi interrogativi che pesano ancora oggi sulla storia del Pci. E dell’Italia.
La morte di quattro segretari. Antonio Granisci, Palmiro Togliatti, Luigi Longo Enrico Berlinguer: se ne andarono tutti in circostanze misteriose. Assistiti, secondo molti sospetti, dai servizi di Mosca, alle cui autorità erano tutti e quattro invisi per certe loro propensioni all’autonomia di pensiero. Il primo morì in una clinica romana il 27 aprile 1937, dov’era ricoverato da due anni.
Si parlò di «suicidio procurato», un favore di Benito Mussolini ai sovietici quando i rapporti tra Italia e Urss erano piuttosto amichevoli. Gli altri tre morirono tutti in concomitanza di eventi traumatici e a causa di un’emorragia cerebrale, circostanza che non hanno potuto fare a meno di sottolineare oltre al perfido Giulio Andreotti, due autorevoli giornalisti e intellettuali come Aldo Rizzo (nel suo libro Chi è di scena, volti e immagini del potere nel mondo, Laterza, 1989) ed Ettore Bernabei (L’uomo di fiducia, Mondadori, 1999).
Togliatti morì in una clinica di Yalta il 21 agosto 1964, poco prima della destituzione di Nikita Krusciov e della normalizzazione brezneviana. Longo, successore di Togliatti, ebbe il malore negli ultimi mesi del 1968, subito dopo l’invasione della Cecoslovacchia e la dura condanna espressa dal Pd. Aveva appena bevuto un bicchiere di vino. Gravemente menomato, morì qualche anno dopo.
Dopo la malattia, aveva lasciato la guida del partito a Berlinguer. Che a sua volta non sfuggì alla maledizione, dopo avere consumato definitivamente il suo strappo da Mosca. La sera del 7 giugno 1984 aveva appena cenato ed era salito sul palco di piazza della Frutta, a Padova: l’ictus lo colpì mentre teneva un comizio elettorale.
Secondo alcune leggende metropolitane, la segreteria nazionale del partito subito si riunì per un esame delle possibili cause della morte, compreso l’avvelenamento. Ma sulle valutazioni che vennero fatte in quella sede calò un impenetrabile segreto. Sta di fatto che il corpo di Berlinguer venne trasportato in fretta e furia a Roma per la celebrazione dei funerali, senza che prima venisse eseguita l’autopsia.
Gli «incidenti» stradali. La casistica dei dirigenti comunisti, leader di primo piano o dirigenti periferia, vittime di misteriosi incidenti stradali è impressionante Gli episodi più noti quelli accaduti a Togliatti e a Berlinguer, entrambi miracolosamente sopravvissuti. Il primo aveva già subito un attentato il 14 luglio 1948. Due anni dopo, nel 1950, mentre si recava in vacanza in Valle d’Aosta con la compagna Nilde lotti, l’auto su cui viaggiava venne investita da un camion nei pressi di Quincinetto.
Se il segretario fosse morto, a prenderne il posto sarebbe stato sicuramente il numero due del partito, il filosovietico Pietro Secchia, all’epoca responsabile dell’organizzazione e dell’apparato semiclandestino del Pci, controllati dai servizi dell’Est. Secchia, poco tempo dopo, fu rimosso dal suo incarico e sostituito con il più moderato Giorgio Amendola.
All’ipotesi di un incidente casuale non ha mai creduto il solito Andreotti, che ha espresso anche pubblicamente i suoi dubbi in una rubrica che teneva sul settimanale Europeo. E neppure Emanuele Macaluso. Il dirigente comunista, qualche tempo dopo l’episodio di Quincinetto, aveva parlato a Mosca con il capo della polizia segreta staliniana, Laurentji Beria, il quale gli aveva confidato parole sibilline: «Noi sappiamo bene come si fanno questi incidenti».
E fu proprio grazie al ricordo di quella frase che, anni dopo, nell’ottobre del 1973, Macaluso sottopose Berlinguer a un vero e proprio terzo grado sull’«incidente» che il leader aveva appena avuto in Bulgaria. Incalzato dalle domande, il segretario del Pci fu costretto a rivelare il suo drammatico sospetto: attentato organizzato dai bulgari su input sovietico.
Al termine di una burrascosa visita, aveva deciso di rientrare subito in Italia, la sua auto venne investita da un camion militare sull’unico cavalcavia lungo la strada per l’aeroporto di Sofia: non precipitò solo perché andò a sbattere contro un provvidenziale palo della luce.
Se Berlinguer fosse morto, con ogni probabilità la guida del Pci sarebbe stata assunta dal suo numero due e responsabile dell’organizzazione, Armando Cossutta. Il quale proprio due mesi prima dell’incidente aveva avuto un più che amichevole incontro a Sofia con i dirigenti di quel partito comunista. Per carità, nessun legame meccanico tra i due episodi.
Ma sta di fatto che, dopo il sospetto attentato, proprio come aveva fatto Togliatti con Secchia, Berlinguer convocò un congresso e destituì Cossutta. Le cui posizioni filosovietiche e antiberlingueriane sarebbero emerse sempre più chiaramente con il passare degli anni, fino a essere indicato addirittura come un agente del Kgb da Vassilij Mitrokhin, l’archivista del servizio segreto sovietico fuggito in Occidente con una montagna di documenti.
Il sodalizio Secchia-Feltrinelli e i misteri sulla loro morte Secondo lo studioso degli anni di piombo Migueli Gotor, un vero e proprio buco nero della storia del Pci è il rapporto fra l’insurrezionalista Secchia e l’editore suo sodale Giangiacomo Feltrinelli. Fu grazie a loro che, a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, prima germinarono le teorie rivoluzionarie e poi prese corpo il progetto di un «partito armato», che degenerò ben presto nel terrorismo brigatista.
Feltrinelli mori nella notte tra il 14 e il 15 marzo 1972, mentre collocava una bomba su un traliccio di Segrete, alle porte di Milano. L’esplosione anticipata era stata provocata quasi sicuramente da una manomissione del timer. Secchia morì invece l’anno seguente il 7 luglio 1973, dopo una lenta ma inesorabile malattia epatica: avvelenamento, stabilirono i suoi medici, come racconta Mirìam Mafai nell’unica biografia del vecchio capo comunista.
Chi volle la loro morte e perché? La domanda non ha ancora una risposta. A suo tempo si parlò della Già. Ma, secondo ipotesi più recenti, fu il frutto di un regolamento di conti tra i conservatori brezneviani del Kgb e l’«illuminato» capo del servizio segreto, Yuri Andropov, assai più conciliante con il Pci di Berlinguer e ansioso di sbarazzarsi di due personaggi divenuti troppo ingombranti.
Vittorio Vidali il «grande vecchio»? Un identikit del grande vecchio brigatista Io ha disegnato nell’aprile 2008, in un’intervista a Panorama, l’ex direttore del supercarcere dell’Asinara Luigi Cardullo. Dopo l’assassinio di Aldo Moro, aveva ricevuto dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa il compito di intercettare i brigatisti detenuti per raccogliere informazioni che aiutassero a capire se dietro le Br vi fossero potenze straniere.
Dopo oltre un anno di «ascolto», consegnò al capo dell’antiterrorismo una lunga relazione ricca di utili notizie Tra cui, appunto, le caratteristiche del possibile grande vecchio. I cui tratti coinciderebbero perfettamente proprio con la figura di Vidali, il celebre comandante Carlos della guerra di Spagna; agente del servizio segreto militare sovietico, il Gru; fondatore della rete del Soccorso rosso, che nell’arco di diversi decenni aveva aiutato e diretto i rivoluzionari di mezzo mondo e poi anche i terroristi italiani delle Br.
Sodale di Secchia, amico di Feltrinelli e parlamentare del Pci, Vidali, morto nel novembre 1983, fu l’unico comunista italiano ad avere contemporaneamente anche la tessera del Pcus.