di Ernesto Galli della Loggia
È singolare come a volte la sinistra dimentichi in fretta i suoi eroi e le loro idee: per esempio come essa si sia dimenticata in fretta di Pier Paolo Pasolini. Dopo averlo trasformato in una vera e propria icona di spregiudicatezza intellettuale, oggi sembra non ricordarsi quasi per nulla di ciò che egli disse nell’Italia della grande trasformazione degli anni Settanta.
La ragione sta forse nel fatto che lo scrittore friulano vide allora in anticipo quell’insieme di processi sociali che nei decenni seguenti avrebbero mutato completamente il volto non solo del Paese ma soprattutto della sinistra italiana stessa, e li analizzò in modi che, proprio perché poi confermati dalla realtà, oggi risultano alquanto imbarazzanti. Come si è visto nella recente discussione sulla fine del «cattocomunismo».
Tre i temi di fondo di quell’analisi, sviluppata da Pasolini specialmente negli «Scritti corsari». Riduco all’essenziale:
1) Sono i ceti medi i veri protagonisti della modernizzazione del costume italiano, i cui valori da «sanfedisti e clericali» di un tempo divengono ora quelli dell’«ideologia edonistica del consumo» a sfondo individualistico con l’inevitabile appendice del «laicismo» e della «tolleranza»;
2) ma questo mutamento non ha alcun significato politico-ideologico di tipo democratico o comunque progressivo, così come non ce l’ha la vittoria del «no» al referendum sul divorzio o la battaglia per l’aborto. Si tratta di un puro e semplice adeguamento ai tempi: «Oggi – scrive Pasolini – la libertà sessuale della maggioranza (il corsivo è mio ) è in realtà (…) un obbligo, un dovere sociale»;
3) la Chiesa cattolica, «gettata a mare cinicamente» dai ceti medi insieme ai valori tradizionali, è la principale vittima sociale del nuovo panorama ideologico; fino al punto che lo scrittore auspica che essa, invece di «accettare passivamente la propria liquidazione», passi «all’opposizione»: «la Chiesa potrebbe essere la guida grandiosa ma non autoritaria di tutti coloro che rifiutano (e parla un marxista, proprio in quanto marxista) il nuovo potere consumistico (…) falsamente tollerante».
Come negare che queste affermazioni descrivano in nuce ma con sufficiente esattezza alcuni mutamenti dell’antropologia italiana, i quali a loro volta hanno inciso profondamente sulla composizione sociale, i valori e gli orientamenti ideologici della sinistra, in particolare di quella postcomunista? Invece proprio da questo orecchio la cultura della sinistra non vuole sentirci.
Pasolini, insomma, deve restare un santino da omaggiare, ma nulla di più. Tutto ciò che in qualche modo richiama le sue idee va respinto con sdegno: il dire per esempio che oggi la sinistra politica è diventata per molta parte lo schieramento dei ceti medi dai valori individualistico-libertari; l’affermare che in questa posizione non vi è nulla di particolarmente «coraggioso», «democratico» o «anticonformista» ma semmai il contrario, dal momento che quella è la posizione di gran lunga maggioritaria in tutta l’area occidentale; che, di conseguenza, sono coloro che in qualche modo vi si oppongono, a cominciare dalla Chiesa, a sostenere un punto di vista socialmente minoritario e dunque, se non altro per questo, più coraggioso. Si tratta di banali verità suffragate da mille prove, eppure enunciarle scatena ancora oggi un coro di ripulse.
Evidentemente esse toccano un nervo scoperto, e in effetti è proprio così. Quelle banali verità, infatti, mandano all’aria l’idea che l’opinione media di sinistra ha di sé, minano l’immagine della sua identità che, proprio perché sempre più vacillante, con tanta più forza e a qualunque costo va invece ribadita.
Un’identità che è obbligatoriamente sentita come quella di un’eterna minoranza sempre in lotta contro forze soverchianti, contro nemici agguerriti e potenti. Tutto l’immaginario della sinistra, tutte le autorappresentazioni fantastiche di sé (dalle canzoni, agli spettacoli di Dario Fo, al modo di presentarsi dei suoi menestrelli televisivi), tutto è in certo senso costruito su questo presupposto eroico-minoritario.
Esso serve a conferire grandezza e dignità morale, a far sentire sempre intimamente migliori dei propri avversari. Stare dalla parte della storia, dell’evoluzione «spontanea» della società, può soddisfare chi ancora si riconosce nel marxismo (ormai peraltro pochissimi) ma certo non implica nessun prestigio etico: la sinistra invece ha un forte bisogno psicologico di sentirsi innanzi tutto buona. E cioè, per l’appunto, di sentirsi sempre e comunque «contro», in minoranza, controcorrente nel mare della storia: paradossalmente anche quando, invece, essa vi naviga con il favore dei venti.
Anche da questo bisogno di minoritarismo nasce il rapporto psicologicamente e culturalmente difficile della sinistra con la modernità: di cui essa è da decenni e per molti versi, specie nel campo dei valori diffusi, degli stili di vita accreditati, delle mode, un’avanguardia conclamata, ma rispetto alla quale deve, invece, sempre trovare il modo di polemizzare, non potendo accettare di stare dalla parte dei tempi, cioè di qualcosa che per definizione coinvolge ed è rappresentativa dei «più» anziché dei «meno».
Da qui, allo stesso modo – dal bisogno di considerarsi essa sola destinata a recitare il ruolo di minoranza – da qui anche, infine, il suo non riuscire a intendere affatto le obiezioni della Chiesa alla ormai proclamata e ultramaggioritaria libertà moderna in tema di ingegneria genetica, di orientamenti sessuali e di cose analoghe: il suo travisare tali obiezioni facendole passare come espressione di un dogmatismo chiuso e nella sua arroganza potentissimo, mentre si tratta solo del disperato tentativo, mi pare, di limitare il dilagare distruttivo dei tempi.
Si tratta di banali verità suffragate da mille prove, eppure enunciarle scatena ancora oggi un coro di ripulse. Evidentemente esse toccano un nervo scoperto, e in effetti è proprio così. Quelle banali verità, infatti, mandano all’aria l’idea che l’opinione media di sinistra ha di sé, minano l’immagine della sua identità che, proprio perché sempre più vacillante, con tanta più forza e a qualunque costo va invece ribadita.
Un’identità che è obbligatoriamente sentita come quella di un’eterna minoranza sempre in lotta contro forze soverchianti, contro nemici agguerriti e potenti. Tutto l’immaginario della sinistra, tutte le autorappresentazioni fantastiche di sé (dalle canzoni, agli spettacoli di Dario Fo, al modo di presentarsi dei suoi menestrelli televisivi), tutto è in certo senso costruito su questo presupposto eroico-minoritario.
Esso serve a conferire grandezza e dignità morale, a far sentire sempre intimamente migliori dei propri avversari. Stare dalla parte della storia, dell’evoluzione «spontanea» della società, può soddisfare chi ancora si riconosce nel marxismo (ormai peraltro pochissimi) ma certo non implica nessun prestigio etico: la sinistra invece ha un forte bisogno psicologico di sentirsi innanzi tutto buona.
E cioè, per l’appunto, di sentirsi sempre e comunque «contro», in minoranza, controcorrente nel mare della storia: paradossalmente anche quando, invece, essa vi naviga con il favore dei venti. Anche da questo bisogno di minoritarismo nasce il rapporto psicologicamente e culturalmente difficile della sinistra con la modernità: di cui essa è da decenni e per molti versi, specie nel campo dei valori diffusi, degli stili di vita accreditati, delle mode, un’avanguardia conclamata, ma rispetto alla quale deve, invece, sempre trovare il modo di polemizzare, non potendo accettare di stare dalla parte dei tempi, cioè di qualcosa che per definizione coinvolge ed è rappresentativa dei «più» anziché dei «meno».
Da qui, allo stesso modo — dal bisogno di considerarsi essa sola destinata a recitare il ruolo di minoranza — da qui anche, infine, il suo non riuscire a intendere affatto le obiezioni della Chiesa alla ormai proclamata e ultramaggioritaria libertà moderna in tema di ingegneria genetica, di orientamenti sessuali e di cose analoghe: il suo travisare tali obiezioni facendole passare come espressione di un dogmatismo chiuso e nella sua arroganza potentissimo, mentre si tratta solo del disperato tentativo, mi pare, di limitare il dilagare distruttivo dei tempi.