Negli ultimi decenni gli studi sul gender hanno preteso di imporre l’idea secondo cui le differenze biologiche tra i sessi sarebbero irrilevanti rispetto ai significati sociali che si possono loro attribuire: la polarità sessuale maschile-femminile andrebbe cancellata a favore dell’affermazione di un sé asessuato o liberamente polisessuato.
Nella relazione conclusiva al I Congrego Internacional de Ideologia de Gènero dell’Università di Navarra, 9-11 febbraio 2011, Francesco D’Agostino, ordinario di Filosofia del diritto presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata, evidenzia l’aporia di fondo di questo soggettivismo assoluto: per difendere come insindacabile il diritto di scelta della propria identità sessuale si deve presupporre l’esistenza dell’identità personale come una realtà ontologica metapositiva che può essere solo riconosciuta e che perciò non è manipolabile né dagli individui più forti né dal potere politico, ma l’impianto individualistico nega l’esistenza di una natura essenziale dell’uomo e perciò non è in grado di rivendicare la determinazione del genere come assoluta e non negoziabile.
L’identità personale è unica e irripetibile in quanto si differenzia da quella di ogni altro individuo, ossia è intrinsecamente relazionale, e D’Agostino evidenzia che ciò vale anche per l’identità sessuale: siamo uomini o donne perché riconosciamo nell’alterità sessuale il limite costitutivo della nostra soggettività.
di Francesco D’Agostino
Di fatto, un’intera vita è a stento sufficiente per dare una risposta personale, cioè per fare nostre, le risposte che altri hanno già dato (al nostro posto) a queste domande (2). Ma per quanto sia difficile, per ognuno di noi, identificare sé stesso, in specie nelle dimensioni più intime del proprio io, quelle nelle quali il desiderio si mescola alla pulsione e l’eros si intreccia con l’agape, resta pur fermo che quella che ha per oggetto la nostra identità è pur sempre una risposta a una domanda che non solo non spetta a noi formulare, ma che non possiamo nemmeno alterare o comunque rimodulare.
Alla domanda «chi sei?» dobbiamo dare una risposta autentica, anche ricorrendo, eventualmente, all’aiuto provvidenziale degli altri (come appunto auspica re Lear); ma dobbiamo comunque dare una risposta secondo verità e non secondo il nostro arbitrio. È per questa ragione che il tema del gender, per come si è venuto costruendo negli ultimi decenni, è un tema ideologico e bene ha fatto l’Università di Navarra, nel promuovere questo congresso internazionale, ad affermarlo esplicitamente, fin dalla sua intitolazione.
Non lasciamoci suggestionare dall’idea che si tratti di un tema di frontiera, che ci impegnerebbe a spingerci in tenitori ancora largamente inesplorati; un tema suggestivo e affascinante come tutti quelli caratterizzati dall’ipotesi del nuovo. In realtà il nostro tema, pur se può essere legittimo qualificarlo come di frontiera, non è da ritenere assolutamente nuovo: i Gender Studies hanno ormai da tempo imposto e canonizzato come irrefutabile una pretesa differenza epistemologica tra la prospettiva sessuale, radicata anatomicamente, biologicamente e produttiva di molteplici elaborazioni simboliche, e la prospettiva del genere, pensato come costruzione meta-biologica, libera e soggettiva dell’identità personale.
Non metto in dubbio che i Gender Studies, sorti oramai parecchi decenni fa, siano ampiamente consolidati, abbiano ottenuto attenzione diffusa e abbiano altresì conosciuto, al proprio interno, significative dinamiche evolutive e involutive, al punto che è ormai possibile descriverne con pedanteria analitica la storia.
Pretendo semplicemente che si riconosca che i temi di cui ci siamo fatti carico nel nostro convegno, riassumibili nella pretesa secondo la quale le differenze biologiche tra i sessi sono irrilevanti rispetto ai significati sociali che è possibile loro attribuire e alle dinamiche identitarie che possono essere coltivate dagli esseri umani come soggetti sessuati, sono tuttora confinati in una sorta di nicchia epistemologico-culturale, che se da una parte ha suscitato nella riflessione antropologica contemporanea vivacissima attenzione, dall’altra non è riuscita a imporsi a livello di senso comune, ottenendo esclusivamente vittorie mediatiche: la maliziosa osservazione di Niklas Luhmann, secondo il quale i sociologi empirici non dovrebbero cessare di meravigliarsi del fatto che la dicotomia maschile/femminile «corrisponde così bene ai fatti», cioè «concordi con le differenze biologiche» (il fatto, cioè, in un’espressione riassuntiva, che «solo le donne reali possono partorire dei figli»), deve restare al centro della nostra riflessione.
I «Gender Studies», paradigma in transizione
Insomma, che gli studi sull’identità di genere, per quanto vivaci e numerosi, fondino un nuovo sapere è ampiamente discutibile, come mostra il fatto che la differenza sessuale ha sempre costituito il problema antropologico fondamentale e che, come tale, essa si è sempre manifestata come una struttura che attraversa tutti gli ambiti di ricerca teologico-fi-losofici, sociali, storici, psicologici, etnologici della cultura e non solo di quella occidentale.
È per questo che alcuni studiosi, che pur simpatizzano per i Gender Studies, cominciano a ritenere che quello del genere sia un paradigma in transizione, la cui funzione nell’attuale momento storico sarebbe riducibile fondamentalmente a quella di scardinare l’idea tradizionale secondo la quale il genere umano si qualifichi a partire da una doverosa vocazione genealogica, come risposta al precetto biblico del crescete e moltiplicatevi.
Ad avviso di questi stessi studiosi, la destrutturazione e la desimbolizzazione della differenza tra i sessi, potenziate dal banalizzarsi delle nuove possibilità di procreazione assistita e soprattutto dalla produzione di embrioni costitutivamente senza genitori, svuoterebbero dall’interno il triangolo famigliare padre/madre/figlio e aprirebbero una nuova e irreversibile fase dell’auto-comprensione storica dell’uomo.
Nell’orizzonte postmoderno il rapporto tra i sessi sarebbe perciò destinato a dematerializzarsi, data l’impossibilità di continuare a pensarlo radicato in una logica fisicistica; l’unico spazio residuo a un pensiero che volesse ancora interrogarsi sulla sessualità sarebbe quello di metterla radicalmente in questione, trasportandola dal piano del corpo a quello della mente e soprattutto senza lasciarsi suggestionare da quelli che sono stati definiti incongrui obblighi anatomici.
La tradizionale polarità sessuale maschile/femminile andrebbe cancellata, per essere sostituta dalla logica del continuum; all’individuo dovrebbe essere definitivamente riconosciuta la caratteristica di soggetto nomade intimamente posseduto da una logica di mutamento (3). Le ricadute antropologiche, giuridiche e sociali di questi nuovi paradigmi sono evidenti.
Se la loro consistenza fosse definitivamente accertata, si aprirebbe (o si dovrebbe pretendere che venisse aperto) uno spazio sconfinato a nuove prospettive costruttivistiche, di cui l’ordinamento giuridico dovrebbe farsi carico, adeguando coerentemente le sue istituzioni, nel nome del doveroso rispetto nei confronti delle nuove modalità di affermazione dell’identità personale: la legalizzazione del matrimonio omosessuale dovrebbe essere solo il primo passo per la completa legalizzazione dell’ omoparentalità, per ulteriori, ancorché allo stato attuale ben poco precisate, forme di giuridicizzazione del rapporto uomo/animale, nonché per la definitiva rimozione dal sistema ordinamentale di ogni marcatore sessuale (per dir così): l’affermazione di un sé asessuato (oppure, il che è essenzialmente la stessa cosa, di un sé liberamente polises-suato) diventerebbe la frontiera della compiuta liberazione sociale della soggettività.
Per il giurista di orientamento giusnaturalistico queste pretese si inscrivono chiaramente in quel processo di denaturalizzazione del giuridico, che, sorto nell’orizzonte della modernità, giunge ai suoi esiti più estremi nella prospettiva postmoderna e nella profonda tentazione che la caratterizza di dare rilievo alla soggettività giuridica non a partire dalla sua specifica natura, ma in quanto portatrice di una sua profonda e insindacabile volontà di autodefinizione identitaria.
È ben difficile che le argomentazioni giusnaturalistiche possano trovare attenzione da parte di paradigmi teoretici e/o ideologici costitutivamente antimetafìsici e quindi coerentemente ostili a qualunque prospettiva essenzialistica. Se l’uomo non ha natura, ma solo storia – per riprendere uno dei più fortunati ed espressivi slogan antigiusnaturalistici – è conseguente ammettere che la sua storicità possa manifestarsi anche attraverso la consapevole accettazione della frammentazione postmoderna delle relazioni tra i sessi o addirittura attraverso la pretesa di irrilevanza antropologica di qualsivoglia istituzione che sulla relazione maschile/femminile venga a fondarsi, da quella delle nozze a quella dei cosiddetti legami di sangue, da quella della procreazione fino a quella che da rilevanza all’ordine simbolico delle relazioni famigliari.
Ciò però che consente al giusnaturalismo di restare al centro del dibattito contemporaneo sul gender è la memoria storica di cui questo paradigma è portatore e di cui i giusnaturalisti sono stati innumerevoli volte, per dir così, sul piano non solo della teoria, ma soprattutto della prassi, testimoni, per non dire martiri: il costruttivismo puro, quando si impone come paradigma giuridico, ben di rado si manifesta come custode e amico di pretese individualistiche di autodeterminazione (secondo le ingenue illusioni dei costruttivisti); ben più di frequente esso diviene coerentemente funzionale alla logica impersonale del potere.
Si rifletta infatti che, se l’identità personale non è altro che il frutto di un processo, svincolato da ogni radice naturale, non si vede la ragione per la quale questo processo non possa essere, oltre che autodeterminato, anche, e con ben maggiore probabilità, eterodeterminato. Jacques Lacan ci ha insegnato che nell’autodeterminazione etica soggettivistica è implicito il suo ribaltamento: il nobile principio kantiano: considera l’altro sempre come fine e mai esclusivamente come mezzo ha il suo inquietante pendant nel principio sadista: considera l’altro sempre come mezzo e mai esclusivamente come fine.
Nell’orizzonte soggettivistico, la prima formula è logicamente consistente tanto quanto la seconda. L’autodeterminazione – parola magica della modernità biopolitica – fa riferimento a un soggetto in grado di autodeterminarsi; ma, se si sostiene che il sé non possiede una natura propria, in quanto qualificato solo da indeterminate capacità tecnomorfiche, se la vita non è più intesa come il fondo inaccessibile dell’individualità, ma viene sottratta alla natura e affidata ai meccanismi gestionali del sistema biomedico, non c’è ragione alcuna perché essa non debba essere legittimamente pensata a partire dagli imperscrutabili interessi del potere politico.
In conclusione, la riclassificazione dei criteri sociali e giuridici per la definizione del sesso e dell’identità sessuale non va pensata e rivendicata come ineluttabilmente orientata alla dilatazione delle libertà individuali, né, a maggior ragione, va inscritta nel contesto delle lotte per la rivendicazione di nuovi diritti, se non ci si vuole incamminare, contro ogni intenzione, in un pendio scivoloso.
Una determinazione volontaristica
Coloro infatti che intendono difendere il diritto all’identità sessuale non come il diritto all’accertamento oggettivo sulla verità del proprio sesso, ma come un insindacabile diritto di scelta della propria identità sono comunque obbligati a postulare un’identità della persona, sia pure di carattere metasessuale, che ne costituisca il substrato inconcusso; sono obbligati a postulare nuove forme di identità non biologicamente o morfologicamente, ma volontaristicamente determinate, identità che avrebbero il diritto di essere incondizionatamente riconosciute e in ordine alle quali il potere politico non dovrebbe avere alcuna voce in capitolo. Ma è proprio a questo punto che le buone ragioni del giusnaturalismo, scacciato dalla porta, finiscono per rientrare dalla finestra, sia pure depotenziate e indebolite.
Se infatti la determinazione del gender è in buona sostanza volontaristica, perché non può invocare a propria giustificazione nessuna determinazione naturalistica, resta irrisolto il problema di come essa possa essere individualisticamente rivendicata come assoluta e non negoziabile: poiché non esiste un volere vero che possa (solo perché tale) imporsi su un volere falso, e ciò che conta – come aveva perfettamente capito Nietzsche – è solo quale tra due voleri si riveli alla fin fine come il più forte, quello quindi capace di imporsi al più debole, è molto dubbio che in sistemi di complessità sociale sempre crescenti, per quel che attiene alla determinazione dell’identità sessuale, a prevalere siano le volontà di genere di tipo individualistico, a fronte delle pretese regolative sul genere che possano essere avanzate dal potere.
La modernità, per riprendere una lucida intuizione di Foucault (4), non saprà più che farsene dei soggetti di diritto, una volta che l’identità non sia più ritenuta un presupposto, ma un prodotto. Emergono qui in tutto il loro carattere ingombrante le ricadute giuridiche di questioni biopolitiche fondamentali, di cui dobbiamo ancora prendere adeguata consapevolezza e con le quali siamo ancora molto lontani dall’aver compiutamente fatto i conti.
Anche se le più immediate ricadute dell’ideologia di genere operano sul piano giuridico e sociale, i loro effetti più incisivi hanno carattere antropologico, mettono cioè in questione la nostra stessa capacità di autocomprensione personale.
Il discorso sembra acquistare un carattere paradossale, perché coloro che si fanno difensori della legittimità delle rivendicazioni di genere usano come argomento quello della doverosità di riconoscere le identità elaborate autonomamente dalle persone stesse, perché solo queste porterebbero il segno dell’autenticità. Solo un io capace di analizzare sé stesso e di far emergere dal profondo di sé stesso la sua identità meriterebbe in definitiva rispetto morale.
L’ideologia di genere viene così ad acquistare, sul piano antropologico, la pretesa di stare al fondamento di un’etica nuova. La pretesa di essere riconosciuti liberi di definire il proprio genere viene così a corrispondere a una pretesa libertaria estrema, suggestiva e affascinante. Non sarebbe più l’occhio dell’altro, lo sguardo esteriore a identificarci, ma il nostro stesso occhio, l’occhio interiore a rivelarci a noi stessi. Emergono da questa pretesa antiche suggestioni.
Che la nostra libertà prima che politica sia morale e che risieda essenzialmente all’interno di noi stessi è una verità antica e vitale, dalle profonde radici cristiane. Non nel fatto che rivendichi tale dimensioni della soggettività, ma nel fatto che le esasperi si condensa tutto il problema dell’ideologia di genere.
Se infatti è vero, agostinianamente, che solo nell’interiorità coscienziale di ciascuno di noi alberga la verità, è altrettanto vero che la nostra interiorità non si autoalimenta, ma cresce e si forma attraverso le innumerevoli dinamiche relazionali che ci costituiscono come soggetti e come persone. Il tu viene prima dell’io e ogni tentativo di chiudere l’io al tu è non solo psicologicamente improponibile, ma moralmente inaccettabile.
L’identità sessuale non viene costruita privatamente, ripiegando l’io su sé stesso, né volontaristicamente, imponendo agli altri la propria autodeterminazione. Siamo uomini, o siamo donne, perché rispondiamo, con la nostra identità sessuale, alle pro-vocazioni che ci giungono dal sesso opposto, pro-vocazioni che ci chiedono essenzialmente di riconoscere nell’alterità sessuale il limite costitutivo della nostra soggettività.
Nel mito greco, il folle amore che Narciso ha per sé stesso va di pari passo con la sua disumana incapacità di rispondere al sincero amore che nutre per lui la ninfa. Eco: è da questa duplice distorsione (cioè dal dire di sì esclusivamente a sé stessi e dal dire di no all’altro) che scaturisce l’esito tragico, cioè né più né meno che mortale, della vicenda.
Fuori dal mito e da ogni metafora, è realmente mortale ogni forma di assolutizzazione soggettivistica dell’io: quella assolutizzazione che in campo economico prende il nome di capitalismo selvaggio, in campo etnico di razzismo, in campo religioso di fondamentalismo, in campo bioetico di gestione privatistica del corpo (dall’aborto all’eutanasia, dalle manipolazioni genetiche al commercio di organi), in campo antropologico di negazione della dadità sessuale. Tutte le esperienze, individuali o collettive, nelle quali la percezione dell’alterità viene rimossa o offuscata non sono esperienze di libertà, ma di asservimento.
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Benedetto XVI & il termine «gender»
Poiché la fede nel Creatore è una parte essenziale del Credo cristiano, la Chiesa non può e non deve limitarsi a trasmettere ai suoi fedeli soltanto il messaggio della salvezza. Essa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere anche l’uomo contro la distruzione di sé stesso.
È necessario che ci sia qualcosa come una ecologia dell’uomo, intesa nel senso giusto. Non è una metafisica superata, se la Chiesa parla della natura dell’essere umano come uomo e donna e chiede che quest’ordine della creazione venga rispettato. Qui si tratta di fatto della fede nel Creatore e dell’ascolto del linguaggio della creazione, il cui disprezzo sarebbe un’autodistruzione dell’uomo e quindi una distruzione dell’opera stessa di Dio. Ciò che spesso viene espresso e inteso con il termine «gender» si risolve in definitiva nella autoemancipazione dell’uomo dal creato e dal Creatore.
L’uomo vuole farsi da solo e disporre sempre ed esclusivamente da solo ciò che lo riguarda. Ma in questo modo vive contro la verità, vive contro lo Spirito creatore. Le foreste tropicali meritano, sì, la nostra protezione, ma non la merita meno l’uomo come creatura, nella quale è iscritto un messaggio che non significa contraddizione della nostra libertà, ma la sua condizione.
Discorso alla Curia romana 22 dicembre 2008
Note
1) «Chi è che mi sa dire chi sono?» Shakespeare, King Lear, I. 4.
2) Così J.B. Pontalis, L’insaisissable entre-deux, in «Nouvelle Revue de Psychanalyse» (Bisexualite et difference des sexes), 7 (1973), p. 23.
3) Così S. Rodotà, Sesso, diritto all’identità sessuale, prospettiva transessualismo, in S. Rodotà, Tecnologie e diritti, II Mulino, Bologna 1995, p. 231.