da Cultura&Identità — anno III, n. 11, maggio-giugno 2011
Mons. Luigi Negri
Intervento di mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro, alla tavola rotonda conclusiva del Convegno Unità sì, Risorgimento no. A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. Quale identità?, organizzato da Alleanza Cattolica e svoltosi a Roma in Campidoglio il 12 febbraio 2011. Testo non rivisto dall’Autore; trascrizione letterale, con ritocchi per ridurre l’effetto parlato
1. Prima osservazione
L’identità italiana è stata curata, educata e fatta maturare dalla Chiesa insieme alle famiglie cristiane. Per secoli è stata custodita dai padri e dalle madri di famiglia, ai quali il grande arcivescovo di Milano san Carlo Borromeo (1538-1584), arrivato in una diocesi devastata — come lo sono oggi molte diocesi —, disse: «O fate voi il catechismo o io non riesco più a farlo». L’identità italiana quindi è in una storia, dove la si percepisce, la si incontra, la si vive e la si combatte. È nella inculturazione della fede, nel tessuto culturale, antropologico, etico e sociale di quella che noi chiamiamo Italia, pur nella varietà delle situazioni e delle condizioni che questa ha vissuto negli ultimi milleottocento anni.
La Chiesa ha formato l’identità italiana attraverso un’opera assolutamente rigorosa e puntuale di educazione. L’identità è la vita di un popolo sia nella ordinarietà della vita quotidiana, sia nelle sue grandi vicende culturali e artistiche. È la vita di un popolo che mangia, beve, veglia e dorme, vive e muore, non più per sé stesso, ma per Colui che è morto e risorto per noi. Non c’è niente di paradisiaco: è stato un cammino lungo di educazione che ha dovuto fare i conti con le differenze etniche e, nei secoli centrali della nostra storia, con le litigiosità dei piccoli potentati, ancor più gravi delle inimicizie dei grandi potentati. Ne è nato un popolo, una esperienza storica, che grida la sua bellezza e la sua verità.
Tuttavia una ideologia ha preso il posto di questa identità, di questa esperienza storica: il Risorgimento. Se non si comprende la differenza fra una identità che si vive nella storia e un’ideologia che s’impone e pretende di cambiare la storia, non si comprendono le vicende degli ultimi due secoli in Europa e nel mondo. Certamente non si capisce la vicenda del passaggio dalla situazione tradizionale del Paese alla situazione unitaria e risorgimentale, allorché una minoranza estremamente ridotta di ideologi, di massoni, di filo-protestanti e di borghesi ha preteso che la sua visione delle cose fosse l’unica possibile e che quindi questa dovesse prevalere sulle altre.
È la tragica presunzione di chi sostiene che una idea giusta possa essere imposta anche con la forza: lo aveva già detto Thomas Hobbes (1588-1679). Questa sostituzione è stata fatta senza nessuno scrupolo, usando la violenza, la manipolazione, l’ingiustizia, la sopraffazione e il disprezzo per una maggioranza informe e per quei “cafoni e fanatici dei preti, dei frati e delle suore”.
D’altra parte, si sa, la Rivoluzione si fa in questo modo. Non ci devono essere scrupoli — diceva Friedrich Nietzsche (1844-1900) — uno dei padri della Rivoluzione moderna e contemporanea. La morale fondata sugli scrupoli è una morale dei deboli, degli inerti, dei vili, dei cristiani.
Gli interventi di questa mattina ci hanno fatto capire l’importanza della ricerca storica. Non c’è nessuno che possa dire che sulla storia del Risorgimento abbiamo già conosciuto tutto. Non esiste nessuna autorità, né civile, né religiosa — nemmeno il Presidente della Repubblica o il Papa, che in effetti non lo ha mai fatto — che possa dire: “avete studiato abbastanza”. Detto questo, credo che quello attuale sia un periodo fortunato, perché si sta componendo un quadro sicuramente più inquietante, ma indubbiamente più oggettivo.
A tal proposito tornerei a sottolineare l’auspicio dell’on. Alfredo Mantovano, secondo cui “ci vuole una purificazione della memoria”. Non si può procedere senza sottrarre alla vulgata del Risorgimento il suo carattere di indiscutibilità. Occorre ricordare, e forse pochi lo sanno, che, per la prima volta nella storia della guerre europee, i piemontesi hanno combattuto la grande battaglia sul fiume Volturno — per intenderci quella che formalmente pose fine allo Stato borbonico — mitragliando e bombardando i civili inermi che erano in fila per prendere il pane e l’acqua. Un ragazzo e una donna con la figlia al collo diventarono improvvisamente un nemico da mitragliare e da uccidere. Ebbene il generale Enrico Cialdini (1811-1892), che si macchiò di questo delitto contro l’umanità, venne gratificato dal Re d’Italia con il titolo di Duca di Volturno.
Evidentemente l’ideologia ha sostituito l’identità del popolo non solo con la violenza, ma tacendo una parte sostanziale della storia che non aveva diritto di esistere, dal momento che non era prevista nei piani delle strutture centraliste, burocratiche e amministrative che hanno guidato l’Unità. Un progetto, quest’ultimo, che al Sud arrivò con il prefetto di polizia, il maresciallo dei carabinieri e la tassa sul macinato, ovvero il cibo dei ricchi! Senza dimenticare la coscrizione obbligatoria che, come sempre avviene in Italia per i meccanismi a sorteggio, penalizzò i figli dei poveri e mai i figli dei ricchi.
2. Seconda osservazione
La Chiesa cattolica, pur additando sin dall’inizio i limiti gravissimi di questa operazione ideologica, non ha mai trascurato l’educazione. Tant’è che nel fondo del cuore di ogni cattolico e del cuore delle famiglie cristiane essa ha proseguito la sua azione. Ma c’è di più: è proprio grazie all’opera educativa della Chiesa — consentitemi questa affermazione ardita ma rispondente al vero — che il popolo ha sopportato il susseguirsi delle ideologie. Sta qui la ragione per cui il suo cuore non si è avvinghiato allo Stato unitario, né al fascismo, né all’azionismo, né al marxismo. Ecco perché ha saputo affrontare le condizioni sociali e politiche avverse con molta dignità e capacità di sacrificio.
Chi ha educato centinaia di migliaia di soldati cristiani a morire sui campi di battaglia in guerre assolutamente assurde, come la Prima Guerra Mondiale? Chi ha insegnato loro a servire la patria anche per una causa non condivisa? La risposta è semplice: i parroci e quei cappellani che sono rimasti loro accanto e sono morti al loro fianco. L’esempio è quello del beato don Carlo Gnocchi (1902-1956), che ha vissuto in prima linea la terribile tragedia della spedizione italiana in Unione Sovietica, da cui sono tornate appena 60.000 persone sulle 350.000 partite, sottoposte a situazioni al limite della sopportazione fisica e psicologica. Il fatto è che in tutta la storia umana non si trova una struttura più realista della Chiesa. Essa continua ad educare i suoi figli perfino nelle avversità.
3. Terza osservazione
Nella lunga serie delle ideologie anticristiane e, quindi, antiumane — il collegamento fra anticristianesimo e antiumanità è stato sufficientemente chiarito dal magistero di Giovanni Paolo II (1978-2005) e di Benedetto XVI — la più pervasiva, oserei dire la più terribile, benché possa sembrare la più innocua, è senza dubbio quella attuale, l’ideologia massmediatica. Essa stabilisce ciò che è corretto e, attraverso lo scientismo, si innalza a unico termine di paragone e a unico potere che non teme nulla al di sopra di sé. In altre parole disorienta il cristiano che non riconosce altri al pari di Dio, radice autentica della libertà di coscienza e del senso dello Stato.
E non è che lo Stato per un cristiano non abbia importanza: esso, tuttavia, non è Dio. Il passato — basti pensare all’argine eretto nei confronti di Federico II di Sassonia (1529-1595), di Adolf Hitler (1889-1945), di Joseph Stalin (1878-1953) o di Benito Mussolini (1883-1945) — ne è la prova. La frase che il nostro grande sant’Ambrogio di Milano (337/340-397) pronunciò davanti all’imperatore romano Teodosio (347-395) è inequivocabile: «Tu sei una grande cosa, Imperatore, ma sotto il Cielo e io difendo i diritti del Cielo».
Oggi imperano il relativismo etico, lo scetticismo, l’anticristianesimo, quel che rimane della cultura razionalistico-illuministica e il giustizialismo — vera “latria” della magistratura —: ma tutto ciò è ancora valido. Tanto più che negli ultimi trenta o quarant’anni anni il popolo autenticamente cristiano si è ridotto ulteriormente sotto i colpi di quanti vogliono cancellarne la presenza.
Pertanto la Chiesa in Italia ha una grandissima responsabilità. Farebbe un delitto contro se stessa e contro il Signore Iddio, che l’ha voluta come presenza viva nel mondo, se non se l’assumesse in maniera adeguata. A tal fine è necessario però che ritrovi e viva la capacità educativa che ha avuto in passato. Non c’è niente di più importante per il suo cammino e per quello della società.
Si deve rinnovare l’esperienza del popolo cristiano cosciente della propria identità e disposto alla ricerca intellettuale con tutta l’ampiezza della ragione di cui parla Benedetto XVI. Di un popolo che senta la sfida del cuore e ami l’altro da sé come portatore di un segno del mistero di Dio, evitando di farlo oggetto della manipolazione psicologica, affettiva o sessuale. Direbbe san Paolo (5 ca.-67 ca.): occorre un popolo educato a vivere la propria esperienza umana, razionale e affettiva secondo la misura del cuore di Cristo. Cosicché questa presenza, quantitativamente minoritaria e qualitativamente contestata, potrà porre dentro la società un fattore positivo di novità, richiamando realtà e culture non completamente omologate al “massmediaticamente corretto” e in grado di riconoscere le proprie radici e di vivere un dialogo.
D’altro canto il futuro della democrazia nel nostro Paese passa da qui: molto dipende dalla possibilità di stabilire un dialogo senza smarrire le identità che lo costituiscono talvolta esigendo un duro confronto. La politica deve fare la sua parte e anziché riproporre steccati ideologici è chiamata a individuare linee di attuazione mediando fra posizioni ideologiche e religiose diversissime fra loro. Si badi bene, tuttavia, che la democrazia — fra i tanti studiosi che lo hanno scritto e detto vorrei ricordare Hannah Arendt (1906-1975) — è imperfetta. E, se soffre di totalitarismo, è perché è continuamente esposta al rischio di essere ricondotta a una pura procedura che legittimi tutti i peggiori delitti.
Ma che cosa può fare la Chiesa affinché la sua identità non sia soltanto memoria del passato o il male assoluto additato dalla maggioranza del Paese? L’ho già detto: deve educare i suoi figli a portare nell’esistenza la testimonianza di Cristo, Via, Verità e Vita. Essi incontreranno così molti più uomini di quanto si possa credere. Incontreranno anche quegli uomini di buona volontà ancora in attesa di un annunzio chiaro, di una certezza e di un’affezione che li accompagni nella solitudine delle masse tele-manipolate. Non so, storicamente parlando, se la Chiesa italiana sarà capace di assumersi fino in fondo questa responsabilità. So tuttavia che laddove un pastore e una comunità ecclesiale riescono a farlo, si genera una società sana e pulita che lentamente filtra ben al di là dei propri limiti.
Il resto è compito di chiunque riceve questa educazione, che deve essere lietamente portata nel mondo come la cultura della vita e la cultura di un popolo che sa da dove viene e qual è il senso della sua esistenza. L’unica alternativa — ha affermato Giovanni Paolo II nella Evangelium vitae — è la cultura della morte: in effetti fra l’umanità dei figli di Dio e coloro che non hanno conosciuto il Mistero — sant’Ambrogio diceva che non sarebbe nemmeno valsa la pena di nascere, se non fosse per essere stati salvati dal Mistero di Cristo — non esistono vie di mezzo.