Abstract: il parroco di Kherson: «Non potevo lasciarli soli». La vita precedente si è interrotta nella notte tra il 28 febbraio e il primo marzo, appena quattro giorni dopo l’inizio dell’offensiva scatenata da Vladimir Putin. Ed è cominciata l’anomala normalità di città occupata, in cui il sindaco e il resto delle istituzioni locali sono rimaste in carica.
Avvenire sabato 16 Aprile 2022
Ignatij, il parroco della città occupata:
«Non potevo lasciarli soli a Kherson»
E’ l’unico sacerdote della Chiesa greco-cattolica nel centro conquistato dai russi. «Un terzo degli abitanti è fuggito. Tra le 400 e le 500 persone sono scomparse»
Lucia Capuzzi
«L’ho deciso il primo o il secondo giorno dall’occupazione». Si calcola così il tempo ormai a Kherson. L’entrata delle truppe russe, accorse dalla vicina Crimea, è l’anno zero per il primo e, finora, unico capoluogo provinciale conquistato da Mosca.
La vita precedente si è interrotta nella notte tra il 28 febbraio e il primo marzo, appena quattro giorni dopo l’inizio dell’offensiva scatenata da Vladimir Putin. Ed è cominciata l’anomala normalità di città occupata, in cui il sindaco e il resto delle istituzioni locali sono rimaste in carica. Solo formalmente, però. Perché a esercitare il potere, in realtà, sono militari e agenti di sicurezza del Cremlino.
Niente entra o esce da Kherson senza la loro autorizzazione, aiuti umanitari inclusi. Quelli dal resto dell’Ucraina non possono arrivare. Il cibo, dunque, scarseggia e le medicine sono ormai introvabili. Chi ha potuto – circa 100mila persone, un terzo degli abitanti – è fuggito verso ovest nel caos d’inizio occupazione.
Ignatij Moskalyuk non ha voluto farlo e ora è l’unico sacerdote della Chiesa greco cattolica di Kherson, a cui si aggiunge un prete di rito latino. «Il parroco di Kherson», lo chiamano. «Avevo la possibilità di andare via. E ce l’avrei ancora… Ma non voglio. Ho scelto di restare. Ripeto, l’ho deciso il primo o il secondo giorno dall’occupazione».
Quella volta, padre Ignatij e gli altri confratelli basiliani – due sacerdoti e due religiosi – del monastero di San Volodymyr si sono riuniti per discutere sul da farsi. «Abbiamo convenuto che la maggior parte di noi partisse. In città, però, sarebbe rimasta una presenza, per quanto ridotta della Chiesa greco cattolica. Un confratello religioso, padre Pio, ed io ci siamo offerti di stare. Perché l’ho fatto? In quel momento, ho ripensato a queste parole di Gesù: “Il buon pastore è pronto a dare la vita per le sue pecore. Chi fa il guardiano solo per mestiere, quando vede venire il lupo, lascia le pecore e scappa, perché le pecore non sono sue. Così il lupo le rapisce e le disperde”.
Avevo letto questo brano molte volte ma l’ho capito davvero solo allora. Chi ero io? Il buon pastore o il guardiano pagato? Potevo davvero abbandonare le mie pecore in balia del lupo?», racconta il sacerdote.
I primi giorni del nuovo corso, la popolazione era sotto choc. «Le strade erano vuote, le persone erano troppo terrorizzate per uscire. La domenica successiva all’arrivo dei russi, ho celebrato la Santa Liturgia di fronte a dodici fedeli. Di norma ce n’erano un centinaio». Al panico iniziale, è subentrata, in breve, un misto di rabbia e determinazione a resistere, sfociate in coraggiose manifestazioni contro l’invasione.
In svariate occasioni, i cittadini sono scesi in piazza in modo pacifico. Ogni volta, Mosca ha utilizzato il pugno di ferro per reprimerli, con tanto di spari, lancio di granate e la minaccia della deportazione in Russia per i dimostranti. «Hanno detto che, pur di spegnere la rivolta, non avrebbero esitato a portar via anche la metà degli abitanti. Pressioni e intimidazioni si sono fatte soffocanti.
Tra le quattrocento e le cinquecento persone sono scomparse, non abbiamo idea di dove siano finite». Il Center for information sustainaibility (Cir), organizzazione londinese per i diritti umani, ha rivelato ieri che, in base allo studio delle foto satellitari di Platen Lab, dal 28 febbraio, nel cimitero cittadino sono spuntate 824 nuove tombe: ogni giorno, in pratica, sono morti in media sedici cittadini. Per quali cause non è dato saperlo.
Pressioni e violenze non hanno spezzato la protesta. I cortei, però, si sono fatti più sporadici e meno affollati. La crescente fatica di sopravvivere assorbe le poche energie disponibili.
«È come se cercassimo di “adattarci” a questo scenario tragico. Poi, pian piano la gente a ricominciato a venire alla Santa Liturgia. Domenica scorsa c’erano una settantina di persone. Almeno altrettante vengono a chiederci qualcosa da mangiare. Per fortuna, alcuni amici grossisti mi fanno arrivare dei prodotti base da distribuire ai più vulnerabili. Al termine della celebrazione, inoltre, facciamo una sorta di pranzo comunitario che per tantissimi è l’unico pasto. È un momento di fraternità, in cui cerchiamo di farci forza a vicenda. Mi ricorda un po’ “l’agape” dei primi cristiani».
Lo faranno anche domenica prossima, in cui la Chiesa greco cattolica, insieme a quella ortodossa, celebra la Pasqua. «Sempre che non ci siano bombardamenti… Kherson e l’intera Ucraina vivranno la Settimana Santa in un tempo di dolore. È una lunga Via Crucis. Eppure voglio augurare un gioioso Alleluja, nella certezza che il male, per quanto grande, non ha mai l’ultima parola».
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