II coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione

Benedetto XVIVita e Pensiero n.4 luglio-agosto 2012

Gerhard Ludwig Muller

Nella lezione da lui tenuta a Ratisbona – un momento magico della storia universitaria tedesca – Benedetto XVI ha nuovamente posto in risalto la sintesi di fede e ragione e di libertà e amore. Quattro concetti che oggi un mondo secolare vorrebbe reclamare per sé, al contempo disconoscendo alla Chiesa il diritto di presentarsi come fondamento portante o sorgente di una vita sensata della società.

Chi non crede in Cristo quale unico e insuperabile mediatore di salvezza si fa vanto della propria apertura mentale e capacità di tolleranza, accusando al tempo stesso la Chiesa di costrizione delle coscienze e di imperialismo spirituale. Ma quest’assoluta tolleranza, sbandierata in una visione pluralistica del mondo, a quanto pare vien meno se si tratta del cristiano e della sua fondamentale deliberazione di fede.

Dietro a tutto ciò si cela sovente l’idea che l’uomo possa giungere a una più profonda cognizione solo in maniera unidimensionale, puramente secolare. Il non visibile viene confinato al campo della psicologia o della mitologia, come modello di superamento soggettivo di una realtà insostenibile: a esso non viene dunque attribuita nessuna esistenza reale. Non esiste alcuna pretesa di verità, una misura ulti­ma, un Dio. Ma come è possibile pronunciare, con un atteggiamento agnostico, un simile giudizio apodittico?

Nasce così la dittatura del relativismo, di cui parlava il cardinale Ratzinger in apertura del conclave dal quale sarebbe uscito come Benedetto XVI. La negazione della trascendenza reca in sé dei pericoli, che gli avvenimenti e le tendenze storiche permettono di documentare: l’idolatria dell’uomo ha portato e porta al totalitarismo, e distrugge la visione cristiana dell’essere umano attraverso la prepotenza del più forte.

Nulla si è rivelato più autoritario del liberalismo relativista del XIX secolo con il suo furore anticlericale. Nessun altro movimento è stato più ostile all’uomo dell’ateismo del XX secolo, con l’atteggiamento pseudoreligioso dell’ “uomo nuovo”. La nomenclatura del “superuomo” ha portato allo sterminio di milioni di persone, causando morte e distruzione in tutto il mondo. In nome della libertà, si sono combattute la Chiesa e la fede.

Il relativismo applicato alla verità non è soltanto un ragionamento filosofico, bensì sfocia inevitabilmente nell’intolleranza nei confronti di Dio. Gli enunciati centrali su Dio – Gesù Cristo – la Chiesa sono considerati al massimo come subcultura di un raggruppamento con motivazioni religiose.

Dio diventa un “ideale”, da impiegare per l’edificazione o la pedagogizzazione degli uomini. Gesù Cristo diventa un “caso” speciale, che potrebbe servire da modello esemplare per la morale della società, e la Chiesa è una libera associazione – tipo circolo ricreativo – di persone con le stesse opinioni soggettive in materia di religione.

Vanno cercati qui i motivi della tabuizzazione in pubblico delle tematiche religiose; ma anche della rimozione del messaggio cristiano e della Chiesa dal dibattito politico. La Chiesa, si dice, rappresenta persone motivate religiosamente, che tuttavia non possiedono alcun diritto di intervento e compartecipazione nella configurazione del mondo. Esse sono legate a un paradigma culturale limitato, che però non è generalmente vincolante e rientra anzi nella sfera della soggettività individuale e collettiva.

Anche per l’idea che la teologia coltiva di se stessa, questa valuta-zione della fede non resta senza conseguenze. Essa costituisce ancora una genuina indagine su Dio con gli auspici della ragione, o solamente un programma al quale si dedicano alcuni aderenti?

Il liberalismo come forma agente del pluralismo non può tollerare che Dio si sia effettivamente rivelato all’uomo, poiché in tal caso si dovrebbe ammettere che l’uomo non è la misura di tutte le cose, bensì deve se stesso all’amore divino dispensatore di libertà. Il liberalismo, che assolutizza piacere e guadagno, si contrappone all’uomo eucaristi­co, che deve a Dio la propria esistenza e redenzione, e compartecipa della libertà e gloria dei figli di Dio.

Può avere buon esito un mondo senza Dio? Questo interrogativo non si pone a livello puramente teorico. Va collegato alla premessa che Dio esiste, e che noi lo rimuoviamo da ciò che è di sua proprietà. Non si tratta quindi della questione se Dio esista o meno, ma del netto rifiuto della sua presenza.

Chi riconosce in Dio il perno e cardine della propria vita viene sovente deriso, non per il fatto che non esista un Dio al quale ci si potrebbe rivolgere, ma perché si vorrebbe coscientemente bandirlo dalla realtà. Una ragione illuminista si autodichiara Dio e suggerisce che l’uomo basta a se stesso.

Ma la nostra professione di fede contiene già il germe di un incontro con Dio orientato secondo la ragione umana. Ragione e razionalità non sono concetti incompatibili con la fede, anche se questo è il ricorrente rimprovero mosso dalla modernità pluralistica e relativistica. Noi, in quanto esseri razionali, siamo concepiti in maniera tale che non nascondiamo Dio di fronte alla ragione.

Egli l’ha creata, è il logos onnicomprensivo, l’unico, insomma, che possa semmai guidarci verso l’esperienza e la cognizione. L’uomo pensa se stesso e il mondo, e ne pensa il motivo trascendentale che da origine al tutto. Impiega la propria ragione. Ma come può la ragione pensare se stessa senza far riferimento a Dio?

Il pluralismo e il secolarismo vengono incontro all’uomo che vorrebbe vivere senza Dio per non dover sottostare a delle regole; regole che tuttavia derivano proprio dal fatto stesso di essere uomo. Una discussione priva di questo punto di riferimento scardina l’uomo. Perché non esiste più una base in grado di mostrargli chi, in sostanza, egli sia.

Senza il dominio liberatorio di Gesù Cristo, ciò che essen­zialmente costituisce l’uomo diventa una farsa. Senza consistenza e terrificante per coloro che non sono in grado di difendersi. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti: i milioni di aborti, la ricerca sulle staminali embrionali e l’eutanasia.

Proprio per questo, il mondo ha bisogno di una ragione che non sia sorda nei confronti del divino. Il logos divino ha assunto la natura umana in Gesù Cristo. Questa è la fede che la ragione insegna a comprendere, e la ragione che perviene alla fede, e la libertà che agisce secondo coscienza.

La ragione è autorizzata dalla realtà stessa ad autoattuarsi in maniera trascendentale e sovraoggettuale, in un’attuazione che sola immette nell’esperienza sensibile l’unità della coscienza. La realtà pone la questione del proprio fondamento incondizionato, del senso dell’esistenza umana come persona.

La sofferenza, l’amore e la morte, che segnano la vita, sono momenti essenziali dell’esistenza spirituale dell’uomo nel mondo. L’uomo, attuandosi spiritualmente, si sperimenta come dipendente dall’origine trascendente e orientato al fine di tutto, a Dio, all’orizzonte della sua autoattuazione.

L’idea che l’uomo si fa di sé come essere razionale comporta perciò anche la qualifica di uditore di una possibile parola di conforto e di interpellanza da parte di Dio, a lui rivolta nella mediazione di una parola umana. Solo nell’incontro con il proprio orizzonte rivelantesi nella storia lo spirito umano attua la sua capacità di autotrascendersi.

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Gerhard Ludwig Muller, già vescovo di Ratisbona, il 2 luglio 2012 è stato nominato da Benedetto XVI prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Questo testo riprende stralci del suo intervento, pronunciato in occasione della presentazione degli Atti del Convegno Dal logos dei Greci e dei Romani al Logos di Dio. Ricordando Marta Sordi, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore il 3 novembre 2011.