Educare richiede coraggio quando c’è una fuga dall’educazione da parte di tanta società adulta, quando si censura il problema del senso e del fine. Un coraggio, tuttavia, indispensabile.
Giuseppe Savagnone
Liceo Classico «Umberto I», Palermo
Ma una riflessione più matura ci spinge a chiederci se per caso non sia il modo di porre le domande a dover essere modificato. In realtà, per educare, è necessario rimettere in discussione i propri schemi, non per gettar via la tradizione, ma per operare l’indispensabile discernimento tra l’essenziale e il contingente, tra i valori e le abitudini, tra ciò che bisogna ad ogni costo salvaguardare e ciò che, invece, può e deve essere radicalmente rinnovato.
Questo è stato vero sempre, ma nel nostro tempo è diventato più necessario per la rapidità con cui i processi culturali si svolgono – si pensi agli sviluppi delle nuove tecniche di comunicazione -, creando in brevissimo tempo abissali distanze tra le generazioni. Vi è, però, oggi, un problema più inquietante – perché più radicale – delle trasformazioni culturali con cui deve misurarsi chi vuole educare, ed è lo smarrimento del concetto stesso di educazione e della corrispondente tensione educativa da parte di molti adulti.
Si moltiplicano, così, i genitori che si travestono da compagni dei loro figli; gli insegnanti che si concentrano in modo pressoché esclusivo sulla trasmissione dei saperi disciplinari; i sacerdoti che si accontentano di una pratica quasi esclusivamente ritualistica, oppure si lanciano in una serie di attivita organizzative, rinunciando a formare i loro fedeli. Alla radice della cosiddetta “emergenza educativa”, insomma, non c’è tanto la crisi dei giovani, ma quella degli educatori. È a questa che bisogna cercare delle soluzioni convincenti.
Le grandi coordinate dell’educare
Non si tratta, è chiaro, di propinate ricette, ma di riproporre il senso dell’educare. Ciò significa ritornare al suo radicamento nella struttura stessa della persona. Questa si caratterizza, innanzi tutto, per ciò che la costituisce nella sua identità (essere); per la sua storia, che ne implica anche l’origine (essere-da); per le sue relazioni, che la fanno appartenere ad una comunità (essere-con); per il suo tendere a dei fini, scelti in base alla verità e al valore di cui sono espressione (essere-per). Ebbene, anche il compito educativo si deve caratterizzare in base a queste quattro dimensioni, secondo le modalità che gli sono proprie.
A questo scopo, bisogna aver sempre presente che l’educatore non può e non deve sostituirsi all’educando. La metafora inscritta nell’etimologia del termine “educare” (da e-ducere, “condurre fuori”) richiama il contesto dì una nascita, in cui il compito dell’ostetrico è svolto da genitori e maestri, che ne mantengono il ruolo semplicemente ausiliario. Le quattro grandi coordinate sopra indicate possono essere dunque proposte, non imposte.
Si tratta di risvegliare nell’altro la consapevolezza di ciò che lo costituisce nella sua identità e di cui egli è il primo a doversi assumere la responsabilità. Si colloca qui il concetto di “educare ad aver cura di…”. Dove il concetto di “cura” non ha un significato terapeutico, ma intende esprimere l’atteggiamento dì fronte a qualcosa di cui si avverte al tempo stesso il valore e la fragilità. In questo senso, educare qualcuno ad aver cura del proprio essere, della propria storia, dei propri rapporti nella via comunitaria, del senso della propria vita, significa molto di più che trasmettergli delle nozioni, significa sollecitarlo, nel rispetto della sua autonomia, a percepire, custodire e promuovere il valore della sua umanità, così preziosa e così spesso minacciata.
L’aver cura di sé e della propria storia
Oggi il nucleo più intimo della persona, il suo stesso essere, è sottoposto a una duplice pressione che rischia di vanificarlo. La prima è quella delle mode che, in varie forme, tendono a plasmare il modo di pensare, di sentire, di agire dei singoli, determinandone un’omologazione forse senza precedenti. L’altra, concomitante con la prima, è quella di una molteplicità di stimoli, sollecitazioni, opportunità, che minacciano l’unità interiore del soggetto, disperdendola in una miriade di esperienze eterogenee e a volte contraddittorie.
Educare qualcuno alla cura di sé, del proprio essere più autentico, significa aiutarlo a riscoprire il proprio vero volto, spesso nascosto dal proliferare incontrollato di pulsioni superficiali indotte dall’esterno, e a ritrovare la propria verità. In famiglia, a scuola, nella comunità cristiana, questo comporta innanzi tutto, da parte dell’educatore, la testimonianza vissuta di aver saputo riconciliarsi col proprio “vero io”, non per rassegnarsi ai suoi limiti, ma per affrontarli onestamente, in uno stile di pace e di sincerità.
Comporta, inoltre, la capacità di individuare nell’altro le ferite, profonde che gli rendono difficile l’accettazione di se stesso e l’impegno a evidenziare le potenzialità che sono in lui, a livello intellettuale, emotivo, volitivo, fisico. L’essere della persona è inscindibile dalla sua storia. Spesso oggi le persone vivono come se si fossero “fatte da sé”, incapaci di quel riconoscimento dell’origine che è anche riconoscenza verso i genitori, i maestri, la cultura da cui sono stati generati.
Educare alla cura della propria storia significa coltivare il senso della tradizione, che non è attaccamento al passato, ma la capacità di leggere il presente, alla luce del passato, per essere in grado di progettare il futuro. Significa recuperare e restituire agli altri il senso dell’autorità, che non è cieco potere, ma – secondo la sua etimologia (dal latino augere, “far crescere”, “far nascere”) -si fonda sulla tensione verso la piena realizzazione dei singoli e delle comunità e si rivolge alle persone non come ad oggetti, bensì come a soggetti liberi, da ascoltare e con cui confrontarsi prima di decidere.
Certo, bisogna riconoscere che questi fraintendimenti sono anche il frutto di un modo sbagliato di proporre sia la tradizione che l’autorità. Un esempio di ciò è la scuola, i cui programmi sono per lo più incentrati sullo studio del passato. Ma il passato diventa tradizione solo se lo si attualizza. Altrimenti è inevitabile che, dopo cinque o sei ore mattutine di cultura senza vita, i ragazzi si abbandonino, il pomeriggio e la sera, a una vita senza cultura.
Analogamente, per quanto riguarda l’autorità, si è passati, tra padri e figli, tra alunni e docenti, dalle relazioni asimmetriche senza reciprocità (autoritarismo) del passato a quelle odierne in cui c’è una reciprocità che però annulla la differenza. La sfida è di stabilire un autentico rapporto educativo che, rispettando l’asimmetria tra adulti e ragazzi, valorizzi al tempo stesso la reciprocità e il dialogo.
Educare ad aver cura degli altri e del senso
Educare alla cura dell’essere-con significa aiutare i giovani a comprendere che “nessun uomo è un’isola” e gli esseri umani sono tutti indissolubilmente legati tra di loro, cosicché le scelte di ognuno ricadono sugli altri anche quando egli crede di fare solo i “fatti propri”. Perciò la libertà non può ridursi a quella, di stampo liberale, che finisce dove comincia quella altrui, ma è anche responsabilità. Ciò implica – nella vita di ogni giorno – la scoperta del «volto dell’altro» (Lévinas), che, al di là del filtro dell’abitudine, ci interpella e ci costringe ad uscire dal nostro egocentrismo per rispondere al suo appello silenzioso.
Sul piano operativo ciò comporta che si educhino le persone alla cooperazione, che non è solo coordinazione tra fini uguali, ma scoperta di un fine comune. Dove la differenza è che i primi possono essere raggiunti da qualcuno e non da altri (come in un esame, dove tutti vogliono essere promossi, ma solo alcuni ci riescono), mentre il secondo, se non viene raggiunto anche da uno solo, non è raggiunto da nessuno (come in una partita di calcio, dove se un giocatore sbaglia, è tutta la squadra a perdere).
Solo se c’è un fine comune nasce la comunità. E nel nostro tempo, dominato dall’individualismo, educare ad essa è diventato fondamentale sia per la vita privata – si pensi alla dinamica della famiglia, oggi spesso ridotta a “società per azioni” -, sia per quella pubblica (la cittadinanza).
Ma l’educazione deve anche – forse soprattutto – mirare alla cura del senso, inteso nella duplice accezione di significato della vita e di direzione in cui andare. Un’educazione che si concentri solo sui mezzi e non sui fini non può che essere fallimentare sul piano etico e su quello più ampiamente umano. A determinare questo ripiegamento viene spesso invocata l’idea che non esista una verità valida per tutti e che di conseguenza sia impossibile additare dei valori universali.
Solo su questa base – si afferma – sarebbe possibile salvare il dialogo e la convivenza civile, evitando la violenza dei fondamentalismi. Ma forse sarebbe il caso di chiedersi se proprio la tesi secondo cui “ognuno ha la sua verità” non comporti una chiusura nel proprio punto di vista e l’impossibilità del dialogo. Perché, se non c’è una verità “oggettiva” con cui le opinioni dei singoli possono confrontarsi, esse sono indiscutibili e infallibili. Se non c’è verità non c’è neppure le possibilità dell’errore. E non c’è neppure motivo di confrontarsi con altri, che, avendo la “loro” verità non possono certo arrogarsi il diritto di criticare la nostra.
Ma, soprattutto, diventa impossibile dare significato alle proprie scelte e orientarle verso il futuro. Resta solo da vivere l’ “attimo fuggente”. È quello che molti giovani si sono ridotti a fare. Educare alla cura dell’essere-per significa, in realtà, aumentare la speranza. Solo così, del resto, si potrà ritrovare il coraggio perduto di educare (1).
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1) Per una trattazione più ampia e approfondita di questa tematica, mi permetto di rinviare a A. Briguglia-G.Savagnone, Il coraggio di educare. Costruire il dialogo educativo con le nuove generazioni, Elledici, Torino (Leumann) 2009.