di Ugo Finetti
Quando nell’autunno del 1978 venne proiettato con grande successo nelle sale cinematografiche italiane L’albero degli zoccoli, il film di Ermanno Olmi fu «accolto», ricorda Sandro Fontana, «con la puzza sotto il naso dalla cultura dominante», che «veniva ancora una volta dimostrando quale abisso separasse il pensiero in quel tempo egemone dalla realtà viva del Paese e come certa cultura cosiddetta progressiva operasse per rinnegare il codice genetico che da secoli caratterizzava il modo di essere e di pensare degli italiani».
«Osservazioni da borghese di salotto», commenta Olmi, ma che ebbero un coro di adesioni nella intellettualità dell’epoca. A stroncare il film di Olmi si distinse, per esempio, Beniamino Placido, nel rispecchiare il fastidio verso quella rievocazione del mondo contadino: «Perché mai il buon contadino Batisti deve mutilare un albero sacrificandolo agli zoccoli del buon figliolino Minik, quando c’è tanta legna nel cortile?».
«Egli non sapeva», rileva Fontana, «che il legno per gli zoccoli deve essere leggero e spugnoso, cioè diverso da quello che viene usato per il fuoco: esso inoltre deve essere intagliato ancora verde e possedere il dono raro di essiccare senza subire crepe». Questo è uno degli episodi che troviamo raccontati da Sandro Fontana nel suo Il Dna degli italiani (Marsilio, pp.140, 14 euro) e che mette in luce come le cosiddette «virtù del passato» che traggono origine dal mondo contadino non abbiano rappresentato un handicap, ma, al contrario, un punto di forza per il nostro Paese.
Il saggio si articola, infatti, secondo una serie di capitoli in cui Fontana offre una sorta di «scheda storico-antropologica» di questi elementi del Dna italiano secondo un suggestivo arco di riferimenti che va dai dati anagrafici ai dialetti. E così che viene illustrata nel corso degli sviluppi storici e sociali una galleria di ritratti italiani: la fame, il lavoro, il risparmio, la religione, l’amore, la famiglia, la lingua, il Paese.
Luoghi comuni sull’Italia arretrata
Come emerge dalla rievocazione della polemica sul film di Olmi, il libro di Fontana si presenta come un intervento che contesta i principali luoghi comuni che si sono andati consolidando sull’onda soprattutto di una lettura classista circa l’identità italiana. È l’impostazione secondo cui gli italiani dovrebbero essere considerati un popolo «arretrato» rispetto al resto d’Europa perché non hanno conosciuto né la riforma protestante né la rivoluzione giacobina.
Il perdurare di un mondo contadino-cattolico, secondo questa storiografia dominante, sarebbe alla base dei nostri vizi e mali, a cominciare dallo scarso senso del bene pubblico con una corruzione irrimediabile in quanto connaturata al suo Dna cattolico-contadino.
In verità non solo da parte marxista nell’intellettualità italiana è prevalsa la presa di distanza critica verso la «massa» degli italiani. Si pensa solitamente di poter definire identità nazionale, senso dello Stato, concetto di patria secondo la prospettiva delle «minoranze virtuose», guardando dall’alto di un’Italia parallela e alternativa, nei secoli arroccata su vette ghibellin-giacobine incontaminate.
Ma a smentire questa impostazione è il fatto che, soprattutto nei momenti più critici della storia d’Italia, è invece scendendo verso il basso nella scala sociale che si avverte in modo crescente un’identità nazionale troppo frettolosamente travisata e bollata da quella intellettualità come immobilismo, arretratezza, conservatorismo, avversione alla modernità.
Proprio uno storico a lungo perseguitato dall’intellettualità che cantano le «minoranze virtuose», Renzo De Felice, ha osservato come di fronte alla catastrofe dell’8 settembre il senso dello Stato fu maggiormente presente tra i subalterni: «Solo se si discende ai gradini ancora inferiori della scala gerarchica», scrive De Felice, «è possibile trovare un maggior numero di ufficiali che vissero il dramma dell’8 settembre senza mettersi sotto i piedi dignità nazionale, patriottismo, etica militare».
Sandro Fontana evidenzia, quindi, come proprio le radici «contadine» e «cattoliche» siano state un punto di forza e di salvezza: un patrimonio di moralità che ha consentito di fronteggiare e superare numerose prove storiche.
Il Dna che è al centro del saggio di Fontana mette a fuoco un’identità nazionale che rispecchia e anima le ragioni per cui l’Italia è riconosciuta come Patria nei momenti più difficili e in un comune e radicato spirito di solidarietà e di sacrificio. Quindi il Dna popolare si rivela come la base di una patriottismo spesso misconosciuto, ma decisivo.
E Sandro Fontana sottolinea appunto come il senso di appartenenza a una comunità «contadina» sia stato alla base del patriottismo dei militari nelle situazioni più drammatiche come la «campagna» in Russia degli Alpini, dove la divisione Tridentina riuscì a respingere gli attacchi nemici perché», rievoca Fontana, «nelle lunghe gallerie scavate sulle rive del Don essi avevano ricostruito su scala ridotta, e quindi difeso con i denti, il “paese” (con le baite, la chiesa e l’osteria), e avevano saputo intraprendere quella epica ritirata travolgendo ogni ostacolo perché erano posseduti dal desiderio di “tornare alla baita”, cioè di poter tornare a vivere nel proprio paese».
Significato morale del lavoro
In questo Dna – che è identità e amor di patria – un ruolo fondamentale è rappresentato dal lavoro: «II lavoro», scrive Fontana, «aveva soprattutto un significato morale e lavorare voleva dire “cercare di avere la testa a posto”, riscuotere la stima e il rispetto dei compaesani, trovare moglie e, quindi, avviare una nuova famiglia».
È una «patria» arretrata e immobile? Fontana, scrutando crisi ed evoluzioni nazionali, mette a fuoco due momenti decisivi: la deindustrializzazione degli anni ’70 e la crisi finanziaria attuale. È stato proprio nel momento della crisi della grande industria che il Dna nazionale, «contadino», ha dato vita a un nuovo modello di sviluppo basato sui distretti industriali, cioè – scrive Fontana – «su una sorta di capitalismo popolare formato da una miriade di piccole e medie imprese specializzate in determinati settori merceologici».
«Si tratta — prosegue Fontana – di quel modello di sviluppo che ha consentito a un Paese come il nostro, povero di materie prime e di capitali e ricco solo di manodopera da impiegare e di bocche da sfamare, di conquistare, nel giro di pochi decenni, i primi posti nella gerarchia mondiale dei Paesi più industrializzati». È l’esempio di quella risorsa «storico-patriottica» che era la manodopera italiana, a basso costo e di prim’ordine, abituata da secoli, come aveva scritto Carlo Cattaneo già nel 1844, a tenere desti «l’intendimento, la previdenza e la frugalità».
È così che, sottolinea Sandro Fontana, vi è stata una sorta di «salvezza» grazie a queste «virtù del passato» anche di fronte alla crisi mondiale di questi ultimi anni. Come mai l’Italia di fronte a un’«onda anomala» che ha investito la scena internazionale e in particolare quella europea e occidentale ha avuto una maggiore tenuta pur presentando, a cominciare dal debito pubblico, non poche fragilità?
Ciò lo si deve proprio a quei fattori additati come negativi dai cantori delle «minoranze virtuose» come il risparmio e la casa di proprietà. «I lavoratori di un tempo», osserva Fontana, «si sono via via trasformati in veri e propri rentiers, quindi attenti più del passato alla stabilità della moneta e della economia». Il Dna indagato da Sandro Fontana diventa, quindi, la definizione dell’Italia come Patria che confligge con la cultura classista che ha inventato e coltivato in questi decenni il mito dell’Altra Italia, descrivendo una storia nazionale tutta «occasioni mancate» e minando così la stessa celebrazione del 150 dell’unità d’Italia.
In partenza sembrava che il 150 potesse offrire la possibilità della messa in scena di un primato di sinistra — soprattutto postcomunista — e cioè di una sontuosa mobilitazione istituzionale contro il Vaticano e quindi il Governo a componente «leghista». Ma proprio la partecipazione della Segreteria di Stato alla celebrazione romana del 20 settembre ha spento l’armeggiare incendiario anticattolico consegnando alla riflessione storica se il Risorgimento sia stato non solo «guerra di indipendenza», ma anche «guerra civile».
A questo punto il «patriottismo» di certa sinistra ha ceduto ai riflessi condizionati della propria matrice classista (e internazionalista) ed è fuoriuscito dalla celebrazione. È così che nella sinistra italiana è emerso in primo piano in questo 150 come protagonista lo storico Alberto Maria Banti con la sua tesi sulla «continuità tra Risorgimento e fascismo», che altro non è stata se non la riproposizione sull’argomento delle tesi di Togliatti sostenute nel 1931 contro la prospettiva di un’intesa antifascista con liberalsocialisti e cattolici («La tradizione del Risorgimento», tuonava Togliatti su Stato Operaio, «vive nel fascismo ed è stata da esso sviluppata sino all’estremo. La rivoluzione antifascista non potrà essere che una rivoluzione “contro il Risorgimento”. Le fantasie sul “secondo Risorgimento” sono fatte solo per nascondere questa realtà»).
Il saggio di Fontana rappresenta un’argomentata contestazione di questa «accademia» che si atteggia a Super-Io nazionale discettando senza conoscenza «umana» della realtà italiana.