Le prime notizie risalgono agli inizi del Duecento in Terra Santa. Da allora, come si arriva alla Torino dei Savoia? Ce lo racconta Gian Maria Zaccone» direttore scientifico del Museo della Sindone di Torino.
di Gian Maria Zaccone
Tuttavia questo silenzio delle fonti non si può interpretare quale inappellabile sentenza circa l’impossibilità di far risalire la Sindone a epoca anteriore a quella medievale, anche perché esistono delle piste di indagine che invitano a ricercare ulteriori elementi.
Tenendo conto che le risposte alle domande circa l’origine del misterioso Lenzuolo, rimane fondamentale il confronto diretto, dal quale dobbiamo attendere delle risposte agli interrogativi di carattere scientifico. Allo stato delle attuali conoscenze sulla storia della Sindone si può infatti affermare che fino al XIV secolo le uniche notizie che si possiedono riguardano la conservazione tra le reliquie di Cristo del suo corredo funerario, senza che peraltro esistano documenti che consentono di collegare tali notizie con la realtà della Sindone di Lirey/Torino.
Parallelamente si sviluppa una iconografia di Gesù che lentamente giunge a canonizzare un’immagine condivisa delle sue fattezze umane e dell’immagine del Crocefisso, alla quale innegabilmente appartiene l’immagine impressa sulla Sindone. Una citazione interessante risale al 1203-4, durante la IV crociata. Tra i fatti tramandati da un cavaliere francese, Robert de Clari, c’è la notizia dell’esistenza in una chiesa di Costantinopoli di una sindone sulla quale era visibile l’impronta di tutto il corpo di Gesù, della quale si perdono le tracce con il saccheggio della città.
Dai dati che conosciamo non possiamo con sicurezza affermare che si trattasse della stessa Sindone che apparirà più tardi in Francia, però la notizia è egualmente molto interessante in quanto afferma la possibilità di esistenza di una sindone contenente l’immagine di Cristo a Costantinopoli.
Non si deve sottovalutare in questo senso una miniatura di area bizantina, contenuta in un codice della fine del XII secolo, il cosiddetto Manoscritto Pray, dove nelle due scene giustapposte della sepoltura di Cristo e della visita delle mirofore sembrano potersi rilevare dei particolari forse spiegabili con una conoscenza della Sindone oggi a Torino.
Accogliendo tuttavia come ipotesi di lavoro che quella descritta da Robert de Clari potesse avere una relazione con la Sindone che giungerà in Francia, non è agevole ipotizzare, sulla base delle conoscenze attuali, un percorso che congiunga Oriente e Occidente, a fronte dell’assenza di fonti esplicite. Due sono le ipotesi su cui si è maggiormente soffermata l’attenzione degli studiosi. Quella più mediatica è legata a un possibile intervento dei Templari, che tuttavia non appare al momento sufficientemente documentata.
La seconda, più interessante, confortata da documenti per altro ancora da verificare nella loro completezza, presuppone un passaggio in Grecia, dove vi furono insediamenti importanti di feudatari latini, tra cui la famiglia Charny, il cui esponente più di rilievo, Geoffroy, depositò nella chiesa del suo feudo francese di Lirey, intorno al 1356, la stessa Sindone che nel 1578 giungerà a Torino. Abbiamo la certezza di tale identità attraverso una catena di documenti scritti, ma soprattutto grazie alla testimonianza iconografica di un medaglione di pellegrinaggio che raffigura la Sindone esposta nella chiesa di Lirey, incontestabilmente la stessa oggi a Torino.
Lo studio del contesto religioso del Basso Medioevo consente di inserire correttamente tali testimonianze nell’ambiente in cui la Sindone compare, Alla luce di tale contesto possono trovare nuova spiegazione i documenti che tra Trecento e Quattrocento testimoniano dell’entusiasmo e dell’interesse immediato suscitato dalla sua comparsa, ma anche del disagio che l’insolito oggetto suscita presso la gerarchia ecclesiastica, timorosa di deviazioni dottrinali. L’ultima discendente di Geoffroy de Charny, dopo varie avventurose vicende, cedette la Sindone ai Savoia ne 1453.
La Sindone rimase di proprietà della dinastia sino al 1983, quando fu destinata per testamento da Umberto II di Savoia alla Santa Sede. Ben presto la Casa sentì la necessità di trovare per la Sindone un luogo sicuro e di rappresentanza, che venne individuato nella Sainte-Chapelle di Chambéry, dove fu stabilmente riposta nel 1506, lo stesso anno in cui ne vennero approvati il culto pubblico e l’ufficio. Qui la notte del 4 dicembre 1532 scoppiò l’incendio dal quale il Lenzuolo fu salvato a fatica, ma non prima che si verificassero i danni ancor oggi ben visibili.
Gli anni seguenti minarono seriamente la stessa esistenza dello Stato sabaudo. Buona parte dei territori furono occupati durante le guerre tra Francesco I e Carlo V. La Sindone seguì allora gli spostamenti del duca Carlo II dì Savoia nel suo lungo peregrinare tra i ridotti possedimenti rimastigli, Fu il figlio Emauele Filiberto a risollevare le sorti del ducato e a riportare finalmente la Sindone a Chambéry, e di qui a Torino, dove, nell’opera di riorganizzazione del Ducato, decise di trasferire il centro di comando dei suoi domini, e con questo anche la Sindone, considerata il «palladio» legittimante della Casa e dello Stato.
Con l’arrivo a Torino inizia il vero periodo d’oro della Sindone quale reliquia dinastica di Casa Savoia in ascesa, ma anche strumento privilegiato di pastorale e catechesi della Chiesa uscita dal Concilio di Trento, e ineguagliabile, struggente, riferimento per la pietà popolare. Nel 1694 il Lenzuolo trovò sistemazione definitiva nella Cappella, appositamente concepita da Guarino Guarini.
L’esistenza della Sindone a Torino è stata scandita nel tempo dalle estensioni, sino al 700 periodiche, e in seguito celebrate con minor frequenza per solennizzare eventi dinastici o di particolare rilievo. Tale ridimensionamento del suo ruolo tra fine Sette e Ottocento trova spiegazione nel ripensamento che anche in alcuni settori ecclesiastici viene elaborato al riguardo di forme di pietà e di culto.
Rinnovato vigore al ruolo della sua presenza darà la fotografia del 1898, svelando il singolare comportamento di negativo fotografico dell’impronta e consentendo una diffusione della sua reale immagine. Da allora anche per i fedeli diventa ineludibile la questione scientifica della sua origine, che incontrastata presidia l’approccio con la Sindone nel XX secolo.
Un approccio che, spostando il dibattito sull’origine della Sin-done da elitario e dottrinale al piano popolare e scientifico, alimentò dibattiti e polemiche – ancora oggi non sopiti -, rischiando seriamente di compromettere il sereno e fecondo approccio spirituale alla Sindone.
Nel secolo scorso la Sindone è stata pubblicamente esposta nel 1931, 1933, 1978, 1998 e 2000. È inoltre da ricordare l’estensione televisiva del 1973, quella che più di altre subì il peso della questione scientifica. Le estensioni del 1998 e del 2000, e soprattutto la riflessione che scaturisce dal profondo e basilare intervento che Giovanni Paolo II, pellegrino a Torino, tenne sulla Sindone, ne hanno compiutamente recuperato il significato pastorale – per altro mai realmente negletto – con il risultato di consentire ai fedeli di accostarsi con maggior responsabilità alla Sindone e a tutti di trame i profondi spunti di riflessione di cui è ricca quell’immagine.
La storia della Sindone, dunque, al di là della questione della sua origine, si configura come una storia di profonda devozione, un importante passaggio della ricerca che ha coinvolto l’umanità credente fin dall’antichità nella ricerca del Volto del Dio fatto uomo, attraverso un percorso segnato da immagini di grande impatto, come il Mandylion di Edessa, la Veronica e la Sindone, che quindi sono legate da una forte continuità, se non materiale, certamente e profondamente spirituale.
Quel volto santo dal Mandylion a oggi
Le immagini di Cristo che la tradizione cristiana considera o ritratti fedeli realizzati da testimoni oculari, o – come la Sindone – raffigurazioni «non fatte di mano d’uomo» (acheropite), vanno comprese alla luce dell’importanza particolare che il Nuovo Testamento ascrive all’atto di contemplare il Salvatore.
Un testo paolino infatti chiama Gesù «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15), ed egli afferma di sé stesso: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). Dice ancora: «Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,40). Volerlo vedere non è perciò solo curiosità, bensì una legittima aspirazione della fede, e ogni opera che permette di visualizzarlo soddisfa sia la brama ebraica di contemplare Dio che quella cristiana di condividere la sua vita.
La più celebre immagine acheropita di Gesù, almeno oggi, è la Santa Sindone: il telo conservato a Torino con impresse le forme, e leggibili i tratti di un corpo e di un volto che molti credono suoi; essa sarebbe il lenzuolo menzionato nei Vangeli, in cui il cadavere di Gesù fu avvolto per la sepoltura.
Ma la Sindone torinese è documentata solo a partire dal tardo Medioevo; più antica di quasi mille anni è la documentazione riguardante un dipinto originalmente conservato a Edessa, poi a Costantinopoli: il cosiddetto Mandylion (dall’arabo mandi’l, (salvietta»), già citato dai santi Andrea di Creta e Giovanni Damasceno durante la controversia iconoclasta; l’influsso del perduto originale Mandylion si fa sentire in numerose copie, tra cui quelle del Vaticano e di san Bartolomeo degli Armeni a Genova.
Tema di una grande mostra organizzata nell’occasione dell’astensione pubblica della Santa Sindone a Torino questa primavera è invece la libertà dell’arte europea nell’interpretare l’aspetto fisico del Signore. La mostra, Gesù. Il corpo, il volto nell’arte, è allestita alla Reggia di Venaria Reale dal I° aprile al I° agosto.
Timothy Verdon