di Giuseppe Baiocchi
Sulle pagine di Liberal il direttore da Washington, Michael Novak, il 23 maggio scorso ha disegnato i criteri «per un riesame critico del cattolicesimo politico». E ha rimesso in luce le radici profonde del capolavoro cristiano che ha costruito i caratteri migliori della società americana. In particolare Novak segnalava come i quattro contributi «italiani» alla mentalità americana (il senso estetico, persone coraggiose e creative, l’etica stoica della Roma antica e medioevale, il ruolo sociale dell’associazionismo laico e religioso) fossero un portato originale ed esclusivo, uno straordinario deposito storico che hanno grandemente aiutato gli Stati Uniti a crescere e coltivare la moderna visione della libertà.
Come una calamità, negli ultimi secoli, la società europea si è infatti rifugiata nella protezione dello Stato, nel collettivismo che spegne ogni creatività e che morìtifica la libertà della persona e che ha condotto a quel «relativismo» etico e culturale così dominante e ossessivo. E Novak fa notare in conclusione che è proprio il «relativismo» che tiene la società immobile, bloccando quella naturale spinta al cambiamento, vera preziosa eredità della cultura ebraico-cristiana.
È davvero difficile ritrovare nella nostra cultura politica un’analisi altrettanto incisiva e, per il presente, impietosa: e tuttavia, nel delineare che «dietro ogni crisi sociale si cela una crisi della visione del mondo, ma anche una grande opportunità», apre con decisione prospettive di fondata speranza. A un patto: che non ci dimentichiamo mai da dove veniamo e che abbiamo tutte le potenzialità per far fruttare in modo rinnovato quel nostro patrimonio di cultura e di comune sentire che è davvero unico al mondo.
Scarso senso di appartenenza
Con il tramonto, spesso ignominioso, di tutte le ideologie che hanno distorto la nostra storia recente, forse diventa finalmente possibile riflettere con serenità sui connotati profondi del Paese. La necessaria e radicale necessità della riforma dello Stato, almeno come l’abbiamo conosciuto nell’ultimo secolo, sembra riproporre l’esigenza di interrogarsi sulla natura della Nazione. La condizione di «italiano» non è ancora, nelle svolte decisive del presente e tantomeno nella vita quotidiana, quella identificabile e coesa comunità di popolo che avevano immaginato, con la lucidità del sogno, gli antesignani risorgimentali.
E il sentimento di appartenenza (al di là delle occasioni sportive o della vicinanza popolare ai soldati impegnati in difficili missioni all’estero) si sbriciola spesso di fronte a uno Stato patrigno e inefficiente (basti pensare al «buco nero» dell’amministrazione della giustizia), al rifiuto pregiudiziale delle grandi e piccole infrastrutture, agli egoismi di ceto e di corporazione prima che di luogo.
Difficile pensare di far parte di una comunità «una di lingua, d’arme e d’altar» (per citare il sempre meno conosciuto Manzoni) quando si vedono in tv le immagini dell’immondizia campana (con le interviste alla gente di quelle contrade sottotitolate in italiano), quando si assiste al crescere quasi ineluttabile di tendenze separatiste, quando si intravede ancora forte il senso di schieramento in impermeabili «piccole patrie» ideologiche, prima che territoriali.
È quindi lecito porsi il dubbio se davvero siamo diventati una Nazione (e forse, a questo proposito, non si è ancora affermata la consapevolezza che esiste un difetto di origine, con quell’Unità arrivata quasi all’improvviso e costruita contro la fede e senza il popolo) e, di conseguenza, che molta e aspra strada comune è ancora da percorrere per definire compiuto quel lontano obiettivo: ma forse, per non restare fermi sulle tante deviazioni ideologiche che ci hanno accompagnato in questi ultimi decenni, sarebbe il caso di acquisire piena e indiscussa la certezza che siamo comunque una «civiltà».
Nel discorso pubblico, come nel circuito mediatico, sembra infatti prevalente la tendenza a dimenticare e a nascondere: e tuttavia della peculiare e gloriosa «civiltà italiana» troppi segni del passato, ma anche del presente, riemergono con serena prepotenza espliciti, universali e inequivocabili. Ed è sicuramente l’assenza di questa consapevolezza che appare rendere lo scenario più cupo e il rincorrersi continuo e a volte assordante della teoria dell’ineluttabile «declino»
Successo nel mondo
E invece basta appena «girare il mondo» (cosa sempre più semplice e quasi scontata per le giovani generazioni), per accorgersi fisicamente che non esiste capitale dove nelle zone eleganti non «parlino» soltanto italiano la cucina e l’artigianato, il cibo e il vestito. E questo è più evidente, se non sfacciato, proprio in quei Paesi che solo da pochi anni si sono aperti all’Occidente e alle asprezze del libero mercato, dopo i lunghi inverni di una triste autarchia all’insegna del «realismo socialista».
Certo: nei ristoranti con il menu scritto in un italiano approssimativo i piatti non riproducono quasi mai il risultato dell’originale; così pure nei negozi di abbigliamento vanno spesso le creazioni più vistose dei nostri stilisti (con il rischio fondato di scoprire solo imitazioni indigene). E tuttavia è ormai davvero planetaria la sensibilità diffusa nell’opinione collettiva che «stile e gusto» per raggiungere ovunque l’eccellenza devono avere in ogni caso il timbro italiano. Ce lo si chiede molto poco in verità: eppure sono proprio gli stranieri, nelle loro città, a cercare di riprodurre quell’impronta come segno di benessere reale e di classe superiore.
Questo indiscusso successo italiano non è allora solo «felice colpa» di artigiani e commercianti particolarmente abili e intraprendenti; non è mai un segno di particolare fortuna; ma è semmai il prodotto sempre vivo e pazientemente rinnovato di una intera secolare cultura, appunto di una autonoma e irripetibile «civiltà». Che ha per sua natura una storia chiara, un’origine evidente e un ininterrotto processo di affinamento e di ricerca creativa: dare per scontata la complessa realtà del Made in Italy come un prodotto solo economico, anche se di sicura qualità, da promuovere e da propagandare rischia di esaurirsi in una superficiale vicenda di mercato esposta alle concorrenze globalizzate.
E invece non farebbe male se fin dai primi apprendimenti infantili si interiorizzasse completamente la conoscenza profonda del nostro essere «civiltà». Una consapevolezza troppo spesso oggi perduta nei meandri ideologici e nei cliché sovrapposti dall’esterno che alla fine ci rendono più incerti, a volte smarriti, spesso più incattiviti, mentre la semplice riscoperta identitaria delle radici da dove veniamo ci potrebbe tranquillamente fare più sereni e quietamente orgogliosi. Perché questa misteriosa magia di colori e sapori, di saperi e perfino di umori ha come fonte unanimemente riconosciuta la scoperta dell’amore per il «bello», come portato originale di società intrise di cristianesimo.
A partire dai secoli medioevali si sviluppa infatti un fervore creativo che ci ha lasciato un patrimonio ineguagliato. Quando cioè mastri costruttori, artisti e semplici artigiani hanno espresso la bellezza nell’armonia e nelle proporzioni delle forme; quando mecenati e committenti (mercanti e nobili, laici ed ecclesiastici) gareggiavano nel lasciare di sé solo opere d’arte; quando si stabiliva per competizione virtuosa e per diffuso sentire quel gusto tutto interiore del lavoro ben fatto, della tensione al «bello», perché perfino il più umile degli scalpellini si sentiva con le sue mani pienamente compartecipe dell’opera creatrice di Dio. E in questo contesto diventava logica pure la fioritura delle arti immateriali, come la musica e la poesia.
Creatività & volontariato
E tuttavia, se il paesaggio storico e artistico di quell’epoca si mostra tuttora visibile, si coglie molto meno il corrispettivo sociale, che pure dello stile italiano era la condizione necessaria e imprescindibile. Ormai gli studi storici hanno ampiamente dimostrato che il fervore creativo si esprimeva altresì in forme infinite di associazionismo di origine laica o religiosa e che toccava tutti gli aspetti della vita: dalle corporazioni di arti e mestieri, alle società di mutuo soccorso, dalle misericordie alle confraternite agli «ospedali» per gli infermi, alle opere pie di assistenza, educazione e carità.
Come se una comunità tesa al «bello» potesse esistere soltanto costruendosi da sola quegli «ammortizzatori» in grado di rendere sopportabile a tutti la condizione dell’esistenza umana. E le diverse società nel corso dei secoli, e spesso sotto numerosi e differenti dominatori stranieri, hanno complessivamente mantenuto quel carattere ospitale e compassionevole che era l’altra insostituibile faccia della medaglia del genio italiano. E forse il luogo comune degli «italiani brava gente» ha trovato in questo contesto la sua origine e la sua natura positiva.
In condizioni statuali largamente deficitarie, rispetto alla formazione rinascimentale dei grandi Stati nazionali: infatti la costellazione di Stati fragili e piccoli sembra aver favorito ovunque nella penisola l’autentico primato della società che pure superava i limitati confini, trasferendo, per benefico contagio, la condizione prevalente del «bello» e del «solidale».
Nell’epoca contemporanea in cui l’evidente eccellenza di moda e design, di artigianato di qualità e di cultura del cibo, supera ancora tutti i confini nell’intero pianeta, segnando in positivo la nostra creatività sempre feconda, è alla politica che si chiede insieme l’umiltà e l’intelligenza di conformarsi a questo spirito davvero nazionale. Restituire il massimo di fiducia nelle capacità autonome della società, sgombrando il campo dalle pastoie del barocchismo giuridico e dalla complicazione amministrativa e offrendo alla naturale inventiva dell’italico genio la piena possibilità di esprimersi, con la riconosciuta ricchezza della diversità dei territori e delle culture, è sfida insieme indifferibile e appassionante.
Con la consapevolezza che il potere e la norma, l’istituzione e la legge e il comando hanno un senso solo se accettano di farsi «cornice», che certamente regola e controlla, ma che comunque promuove e valorizza con fiducia il primato della società, secondo quel principio (tanto proclamato quanto nei fatti disatteso) della sussidiarietà.
I nostri soli talenti, inimitabili, sono dunque creatività e volontariato: farli fruttare al massimo delle loro impensate possibilità è l’unica promessa di futuro, ed è insieme l’unica opportunità di farsi finalmente nazione. Perché è cosa buona e giusta ribellarsi tutti insieme alla cupa profezia dell’ultimo (e menagramo) Indro Montanelli che intravedeva l’avvenire d’Italia come «un pulviscolo umano che abita una terra di morti».