II PCI e l’«identità» italiana

PCIStudi Cattolici n.541 marzo 2006

di Ugo Finetti

Ricordare il XX Congresso del Pcus del febbraio 1956, e soprattutto come mezzo secolo fa i comunisti italiani – guidati da Palmiro Togliatti – reagirono di fronte all’abbattimento del «culto della personalità» di Stalin, e illuminante circa quanto è avvenuto in questi anni in Italia dopo il crollo del Muro di Berlino e il dissolvimento dell’Urss e del suo sistema di «Stati satelliti».

In Italia il crollo del comunismo, dal punto di vista della storiografia sul Pci è stato contenuto equiparandolo in sostanza a una sorta di secondo «rapporto Krusciov» su efferatezze accadute in Urss. Ancora una volta, cioè, sì ostentano sorpresa e rammarico preoccupandosi di rivendicare, però, una propria estraneità e originalità. Nel complesso la storiografia dominante che in Italia si occupa del Pci tende a considerare questo partito sostanzialmente come un «fenomeno a parte» rispetto alla vicenda complessiva della storia del comunismo in Europa.

Si insiste infatti nella tesi del «Togliatti italiano», del «parlare italiano» del Pci fino a ripercorrere gli stessi anni della Resistenza, della Liberazione e del dopoguerra – come ha fatto Giorgio Napolitano, che pur è il leader più innovatore e animato da spirito critico dell’ex Pci, nel suo saggio Dal Pci al socialismo europeo, ed. Laterza – senza mai nominare Stalin. Alla chiamata in causa della storia stalinista del Pci, e del suo essere stato comunque pane integrante di un «movimento operaio internazionale», si replica agitando lo spettro dell’anticomunismo viscerale» e rivendicando invece il ruolo importante svolto dal Pei nella edificazione della democrazia in Italia e per la sua difesa.

Ma la tesi incentrata sul Pci come forza democratica non è molto pertinente e fondata. Anche Dc e Psi erano partiti democratici, e tuttavia ciò non li ha esentati da una disamina talora persino spietata. In particolare, nessuno nega che il Pci abbia concorso a fondare e a qualificare la vita democratica italiana come ha sottolineato persino il principe dell’«anticomunismo viscerale», l’autore del Libro Nero dei comunismo: «I partiti comunisti», scrive Stéphane Courtois a proposito dell’Europa occidentale, «hanno favorito l’ingresso di ceti popolari nel campo della democrazia moderna; hanno determinato presa di coscienza, educazione, organizzazione in campo politico e sindacale in particolare nelle relazioni con la nazione, lo Stato e l’imprenditoria».

E aggiunge, per quanto riguarda specificamente l’Italia: «Il Pci è stato un fattore importante di stabilizzazione dì uno Stato unitario e di integrazione nella società e nelle istituzioni democratiche, in particolare dei contadini emigrati dal Mezzogiorno e diventati operai nel Nord».

In nome della richiesta di un’analisi «politica» e dell’indubbio concorso dato dal partito di Togliatti alla costruzione dell’Italia liberata non si sciolgono quindi i nodi che invece pone il recente studio di Franco Andreucci, Falce e martello. Identità e linguaggi dei comunisti italiani fra stalinismo e guerra fredda (Bononia University,  Bologna 2005,  pp. 302, euro 19).

I tre nodi

Andreucci è Io storico che negli anni ’70 insieme a Paolo Spriano – fatto che Giorgio Napolitano «cancella» quando si sofferma sull’argomento – aveva curato l’edizione delle Opere di Togliatti per la casa editrice del Pci (Editori Riuniti) dopo la scomparsa di Ernesto Ragionieri.

Successivamente Andreucci era entrato in rotta di collisione con la dirigenza delle Botteghe Oscure per la reticenza ad aprire gli archivi sugli anni Cinquanta e Sessanta; quindi, dopo il crollo dell’Urss nel 1992 era stato al centro delle polemiche per aver scoperto la lettera di Togliatti sul massacro degli alpini italiani in Urss. Dopo quello che egli stesso chiama un periodo di isolamento, Andreucci ha dato alle stampe questo brillante studio, frutto di ricerche condotte anche nella sua attività accademica negli Stati Uniti, soprattutto rompendo il provincialismo dei «baroni» italiani della storiografia comunista con la conoscenza della saggistica mondiale sul comunismo e sul Pci e avvalendosi in particolare di studiosi finora sconosciuti in Italia come Nathan Leites.

I nodi che affronta Andreucci sono soprattutto tre: il rapporto tra Pci e stalinismo, tra Pci e democrazia occidentale, tra Pci e anticomunismo democratico.

II PCI e comunque chi è stato comunista, di fronte al crollo del sistema dei regimi comunisti, possono davvero invocare un’eccezione culturale, dichiararsi «altro», delineare per sé stessi una «storia a parte» rifiutando e condannando ogni analisi comparata che dia una visione d’insieme del movimento comunista, per esempio, in Europa occidentale?

Certamente un partito di 1 milione e 800 mila iscritti non può essere considerato la fotocopia di partiti clandestini o di poche decine di migliaia di aderenti. Il Pci ha «parlato italiano» sin dal 1943-’44. anche prima dell’arrivo di Togliatti. Ma il problema storico è appunto questo: il dare e avere tra comunismo e Paese.

In sostanza, si tratta dei tema posto dallo stesso Giorgio Amendola nel Pci all’inizio degli anni Sessanta: le «corresponsabilità» di Togliatti e dei comunismo italiano anche in riferimento al dopoguerra. E le osservazioni critiche di Andreucci esplicitano quelle sottintese da un altro dirigente comunista come Giancarlo Pajetta quando scriveva: «Non so che cosa sarebbe accaduto anche a noi se, alla caduta di Badoglio, fossimo stati portati subito ad assumere lutto il potere. Anche noi venivamo dal carcere, dal confino, dall’esilio… Da molto tempo ormai non avevamo un contatto diretto con il Paese e la sua vita. Forse in questo eravamo anche noi simili al gruppo dirigente ungherese».

E aggiungeva: «Non ho mai parlato con Togliatti di Stalin. Ho certo sentito di lui qualche frase di convinta stima». Il secondo punto che pone la lettura di Andreucci riguarda la «distanza critica» che il Pci ha marcato nei confronti di ciò che i comunisti definivano «democrazia formale» e Togliatti considerava, ancora nel 1964 nel suo ultimo editoriale su Rinascita  «riformismo borghese».

È stato un punto di eccellenza della cultura comunista l’insistere sulla tesi di un pericolo fascista sempre incomberne e attuale, connaturato alla vocazione autoritaria e antidemocratica del capitalismo e della borghesia in Italia. Andreucci, limitandosi agli anni di Stalin. ragiona sulla identità comunista italiana, sulla rivendicazione costante di una «diversità» e «alterità» rispetto alla democrazia e al socialismo occidentale. Non è un’illazione, bensì una costatazione.

Non è folclore

Oggi, infatti, si tende troppo a rappresentare il Pci della Resistenza e del dopoguerra come un partito democratico al pari degli altri e il cui stalinismo era «un di più», un fatto quasi folcloristico: per la qua! cosa, mettendo tra parentesi il «culto della personalità», il risultato sarebbe quello di un partito sostanzialmente riformista e, come esempio concreto, si cita il Piano del Lavoro della Cgil guidata da Di Vittorio.

In realtà, quel che viene «messo tra parentesi» non è folclore. Si pensi non solo alle risoluzioni sulla «vigilanza rivoluzionaria», ma soprattutto a come nel 1951 il Pci celebrava il suo trentennale: il libro che rappresenta la prima storia del Pci pubblicato in quell’occasione è un testo molto eloquente, soprattutto nella sua requisitoria contro le «illusioni parlamentari e legalitarie».

II testo, licenziato dallo stesso Togliatti e pubblicato sotto gli auspici della Direzione nazionale del Partito, si riferisce proprio alla politica di quegli anni mettendo in guardia dalle «illusioni parlamentari e legalitarie createsi in una parte delle file del Pci in seguito alla partecipazione al governo: numerosi comunisti non avevano compreso che la partecipazione al governo non può essere efficace se non viene sostenuta continuamente dalla lotta attiva delle masse e dalla loro continua vigilanza» (1).

È una prosa che ripropone il rapporto masse/istituzioni secondo il modello di conquista del Parlamento attuato in Cecoslovacchia. Analogamente il tanto esaltalo Piano del Lavoro per la ricostruzione economica nazionale (Giorgio Napolitano evoca come modello addirittura il New Deal, Keynes e Roosevelt), presentato con la benedizione di Togliatti al Congresso della Cgil a Genova il 2 ottobre 1949, è un «libro di sogni» redatto sulla falsariga dei Piani di una democrazia popolare dell’epoca.

È probabilmente quanto sarebbe stato approvato dal governo della sinistra stalinista in caso di vittoria del Fronte Popolare. Si tratta cioè di un «Piano Triennale» che, «elaborato con la partecipazione di valorosi tecnici di ogni ramo della produzione», prometteva agli italiani la quasi immediata piena occupazione utilizzando «milioni di lavoratori e i tecnici disoccupati», «tutte le materie prime disponibili e tutte le possibilità di lavoro esistenti in Italia», grazie a «nuove centrali idroelettriche, case, scuole, ospedali, acquedotti, fognature, strade, opere di bonifica, di irrigazione di terre».

Identificare oggi sul piano storico, come politica riformista, il Movimento dei Consigli di Gestione che animava quella operazione propagandistica richiede una certa spregiudicatezza. Allora anche il Movimento dei partigiani della Pace sarebbe da considerare un’iniziativa pacifista, non filosovietica né antiamericana.

Una specifica  «Weltanschauung»

La concezione comunista – antiriformista e antidemocratica – scaturiva da una specifica Weltanschauung: tutto ciò che era anticomunismo e antisovietismo appariva come un’entità a deriva fascista. Di qui la teorizzazione del fascismo come sempre attuale, incombente, vocazione innata della borghesia e del capitale nonché la tesi sempre sostenuta da Togliatti fino alla morte della inesistenza in Italia di uno «spazio socialdemocratico».

In Italia il Pci non praticava una politica di fatto socialdemocratica, ma allevava «idee assassine» secondo la lettura classista della storia, per cui gli avvenimenti e l’agire politico rispondono allo schema della lotta tra Vecchio e Nuovo, tra ciò che è destinato storicisticamente a prevalere e ciò che è destinato a dileguare.

Il Nuovo è anche l’Essere, mentre il Vecchio, ciò che si oppone al crescere del Nuovo e del Divenire, è comunque il Non-Essere, un mondo, un insieme di entità destinato a dissolversi e che serve solo a ritardare il Divenire. Per i comunisti la Storia è una ruota che va avanti anche attraverso tragedie individuali e, quindi, che cosa deve fare il rivoluzionario? Il rivoluzionario ha la missione di accelerare la ruota della Storia. Come?

Levando, sottraendo, annientando quanto può essere di ostacolo al moto salvifico della Storia. I comunisti hanno partecipato alla Resistenza avendo come modello la guerra di Spagna, e non hanno esitato a riproporne lo schema sanguinario nella «guerra civile» in seno ai partigiani e agli antifascisti. Pertanto nel dopoguerra – per anni – là dove erano «egemoni», come in Emilia, si sono comportati al pari del Ku-klux-klan in Alabama: non il «sangue dei vinti», ma (come ha ricordato in particolare Ermanno Gorrieri in Ritorno a Montefiorino) colpendo soprattutto non fascisti e antifascisti.

Infine c’è il terzo punto: il fatto che l’anticomunismo democratico sia stato spesso confuso con il fascismo e che in Italia studi pregevoli non hanno avuto diritto di accesso. Nel nostro Paese si tende ancora spesso – come osserva appunto Andreucci – a «unificare sotto un’unica cappa l’anticomunismo del Patto anti-Komintern e quello di Angelo Tasca, quello del senatore McCarthy e quello del mondo degli emigrati russi fra le due guerre».

Uno dei meriti di Andreucci è appunto quello di richiamare studi non secondari, verso i quali c’è stato un sostanziale embargo culturale. Contrapporre – come ha fatto per esempio in polemica con Andreucci anche la rivista dei «miglioristi» dei Ds, Le ragioni del socialismo di Emanuele Macaluso – nel campo delle analisi sociologiche sul comunismo ai non tradotti o ignorati Nathan Leites, Harold Lasswell e Bertram Wolfe come unica «letteratura scientifica» gli studi di Tarrow, Pizzorno e Farneti è estremamente limitativo e rivelatore della reticenza e dell’arretratezza dell’editoria italiana.

Proprio a proposito di queste opere (che risalgono all’epoca di Berlinguer, scritte nel 1979, nel 1981 e nel 1983), Gaetano Quagliariello parla di «vulgata funzionalista» nelle pagine iniziali di un suo recente saggio su Il Pci, il Pcfe le conseguenze del patto Molotov-Ribbentrop. Si tratta, secondo Quagliariello, di «interpretazioni di tipo funzionalista», in quanto rivolte ad «accreditare su di un piano di pretesa neutralità scientifica – sostenuta dall’utilizzo del metodo logico-deduttivo proprio della scienza politica – la supposta equiparazione del Partito comunista italiano ai partiti d’integrazione di massa della tradizione socialdemocratica».

In questa mancata apertura editoriale alla bibliografia richiamata da Andreucci vi è ancora l’eco del pregiudizio di stampo comunista contro il «pericolo» di contaminare la ricerca storica con quelle che la Commissione culturale del Pci nel dicembre 1957 definiva come «ideologie del neocapitalismo», «cultura borghese», «cultura anglosassone», «visione agnostica della realtà».

Una parte importante, anche se ancora minoritaria, degli storici italiani lamenta infatti come, dopo il crollo dell’impero comunista e l’apertura degli archivi degli Stati e dei partiti comunisti dell’Est europeo, in Italia ci si sia sostanzialmente opposti a una visione d’insieme del funzionamento del comunismo internazionale. È quanto aveva già denunciato da parte sua uno storico francese di sinistra, Mare Lazar, rilevando l’ostilità degli accademici italiani di sinistra di fronte al suo libro sul comunismo francese e italiano, Maisons rouges. Gli storici italiani, osservava Lazar, non amano che il Pci sia considerato nel quadro di una physionomìe d’ensemble, nel contesto cioè del movimento comunista.

La natura della «diversità»

A mezzo secolo dal crollo dello stalinismo, e a più di dieci anni dalla caduta dell’impero sovietico, la resa dei conti con il comunismo italiano – il nodo da sciogliere – riguarda appunto la natura della irriducibile «diversità» vantata dai comunisti italiani. Una «diversità» per certi aspetti ancora attuale. Come mai, per esempio, i gruppi dirigenti post-comunisti che hanno operato scelte che con il comunismo non hanno più nulla a che fare, rimangono tuttavia «uniti e compatti», e cioè non riescono ad accettare – addirittura fìsicamente una persona che non sia stata comunista come dirigente politico del loro partito posi comunista?

Tra gli studi sull’evoluzione dei partiti comunisti non edili in Italia c’è, in particolare, quello di Nikolaos Marantzidis. dell’Università di Salonicco, che, applicando i modelli traili dal saggio sul marketing di Hirschman, Repoase to decline in Firm. Organisation and States, ha descritto la fuoriuscita dal comunismo dei vari Partiti comunisti europei negli anni Novanta secondo la triade exit, voice, loyalty.

E cioè, prendendo il caso di un prodotto che entra in crisi sul mercato perché contestato dai consumatori, si esaminano le possibilità di reazione in tre modi: 1) cambiando nome (exit): 2) riproponendo il prodotto, però modificato, accollando così una parte delle critiche (voice); 3) tenendo duro e puntando allo zoccolo duro della fidelizzazione (loyalty). Su questa base si sono seguite l’evoluzione del mondo comunista, le sue diverse risposte ed evoluzioni.

Noi in Italia siamo l’unico caso in cui abbiamo sotto gli occhi tutte e tre i casi: l’exit di D’AIema e Fassino; il voice di Bertinotti: il loyalty di Cossutta e Diliberto, sempre però con gruppi dirigenti «blindali», impermeabili a ogni figura non educata nel Pci. Il problema della «diversità» in quanto «aristocrazia» della sinistra in particolare e della politica in generale – in che cosa consiste?

Secondo Togliatti sin dall’immediato dopoguerra, come ricorda Andreucci citando un discorso del «Migliore» sui rapporti con i socialisti, era basato sui «titoli nobiliari» che il Pci poteva ostentare per sottolineare una diversità intesa già allora come superiorità. Questi «titoli nobiliari», sotto Togliatti. erano in sostanza l’appartenenza al «movimento operaio internazionale», allo Stato maggiore della rivoluzione mondiale, all’essere avanguardia consapevole di una rivoluzione mondiale che, grazie al Pci. s’irradiava in Italia rendendola partecipe di un processo di emancipazione universale.

Con Berlinguer questa diversità/aristocraticità venne invece richiamala negli anni Settanta – insistendo sulla dimensione davvero rivoluzionaria dei comunisti per fuoriuscire dal capitalismo in Italia; è il richiamo non alla fedeltà all’Urss,  bensì al leninismo inteso come il modo di essere comunisti nella società capitalistica; una sorta di essere nel mondo, ma non del mondo: austerità contro consumismo.

Successivamente con l’esaurirsi della «spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre», dopo il colpo di Stato in Polonia. Berlinguer iniziò a prefigurare un orizzonte già postcomunista: la diversità/superiorità dell’homo comunista, definita mettendo la «questione morale» al posto del leninismo. Ma si tratta sempre di interpretazioni autoreferenziali. Questa «diversità» comunista, che indubbiamente c’è stata e ancora si fa sentire nell’autosufficienza dei vertici dei tre partiti postcomunisti. è però poco convincente spiegarla sul piano storico secondo le tesi dei diretti interessati, indicandola in una superiore onestà, cultura e bontà e comunque riciclando la lettura classista del Novecento inteso come teatro di scontro tra — da un lato – capitalismo reazionario a deriva fascista e dall’altro -movimento operaio e democratico a guida salvifica comunista prima e postcomunista dopo.

L’importanza dello studio di Andreucci risiede proprio nella capacità di affrontare il fenomeno del comunismo italiano, e della sua «diversità» nella società italiana, mettendolo a fuoco in modo comparato (che non significa ridurre la specificità) con gli altri partiti comunisti e soprattutto, ricostruendolo come profilo antropologico: dal suo immaginario collettivo (l’invenzione della tradizione leninista italiana, le utopie, il controllo dei sentimenti, i paradigmi manichei) alla sua ritualità quotidiana (l’iniziazione, il funerale, l’espulsione).

La lettura di Andreucci evidenzia l’arretratezza di tanta diffusa storiografia sul Pci, specificamente di quella saggistica che ha portato uno dei principali studiosi del comunismo mondiale come Robert Conquest ad additare l’Italia come l’ultimo rifugio della Stalinophilia. In effetti è difficile trovare altrove, nelle democrazie occidentali, il caso in cui sul primo quotidiano nazionale un autorevole accademico – Luciano Canfora – arrivi a sostenere che in Urss, tra il 1925 e il 1945, si sarebbe svolta «una guerra civile ininterrotta condotta con ferocia e senza esclusione di colpi», mettendo Stalin sullo stesso piano delle sue vittime e descrivendo «la democrazia come una lunga serie di sistemi repressivi».

Note:

1) Paolo Robotti – Giovanni Germanetto, Trent’anni di lotte dei comunisti italiani (1921-1951);. Edizioni  Cultura sociale. Roma 1952.