Si prevedono pochi cambiamenti sostanziali mentre la corruzione dilaga fra i membri. Gli slogan di Hu Jintao sembrano parole vuote. La repressione di dissidenti, media e personalità religiose, unica strada per creare una situazione “di gioia e armonia”.
di Bernardo Cervellera
Pochi altri cambiamenti sostanziali sono in vista, anche se si parla di una completa ristrutturazione del Politburo, in cui potrebbe entrare il 52enne Li Keqiang, segretario del Liaoning, da molti visto come il prescelto di Hu Jintao alla propria successione fra 5 anni.
L’imminente Congresso dovrebbe far emergere la vittoria o almeno il consolidamento del potere di Hu Jintao sulla cosiddetta “cricca di Shanghai”, legata all’ex presidente Jiang Zemin. Questa ha subito una sconfitta con l’arresto di Chen Liangyu, segretario della città, accusato per una serie di scandali finanziari. Al Congresso si prevede che Chen Liangyu sia espulso dal Partito e poi processato.
Hu è riuscito a piazzare molti suoi uomini come segretari in varie province, ma il Politburo ha ancora alcuni membri della cricca di Shanghai – come Jia Qinglin e Li Changchun che difficilmente possono essere eliminati. L’ipotesi più probabile è che le due fazioni trovino un modus vivendi, senza danneggiarsi a vicenda.
Successione e corruzione
L’episodio di Chen Liangyu – uno delle migliaia di casi di corruzione dei membri del Pcc – e la lotta fra le fazioni sta spingendo il Partito a trovare nuovi modi per nominare i membri del Comitato centrale, aprendo a una specie di “democrazia interna”, dove almeno una parte dei membri sia eletta da tutti i delegati del Congresso.
Una struttura formale per l’accesso alle cariche potrebbe scremare gli elementi più corrotti e risolvere i problemi di successione all’interno del partito. Finora, esso ha assistito sempre a tentativi di successione “ereditaria” e veri e propri “colpi di stato”: Hua Guofeng, erede designato di Mao, scalzato da Deng Xiaoping; Zhao Ziyang scalzato da Li Peng (col benestare di Deng); Jiang Zemin, designato da Deng, come lo stesso Hu Jintao (fin dal 1992).
La democrazia interna non è però garanzia per una democrazia popolare. Hu Jintao ha già espresso con chiarezza molte volte che la democrazia occidentale non è adatta alla Cina e che “la supremazia del Pcc” è fuori discussione. Eppure – come proposto tante volte dai think-tank del Partito – una democrazia alla base permetterebbe denunce e controlli efficaci su quella che è la piaga maggiore del Pcc: la corruzione. Il volume di tangenti, furti, manipolazioni, uso illecito di denaro pubblico si aggira sui 70 miliardi di euro (circa il 4% del Prodotto interno lordo o il 10% delle spese governative; dati del 2004) ed è un fenomeno in crescita.
Di fronte a questo stigma dell’oligarchia comunista – con il suo strascico di ingiustizie verso contadini, operai, poveri, pensionati, risparmiatori – la leadership continua a predicare “servizio e altruismo”, mentre al Congresso si pensa di varare un’ennesima Commissione anti-corruzione.
Ma nessuno crede che il Partito abbia la forza (o la volontà) di controllare se stesso o punire se stesso. Nel 2006, su 33 mila casi di corruzione ufficialmente denunciati, sono stati arrestati solo 1600 funzionari; più dell’80% dei condannati è riuscito ad evitare la pena. Molti giudici hanno confessato che le sentenze “devono ubbidire alle direttive del Pcc” e non alla giustizia.
Del resto, i motivi per cui crescono le iscrizioni al Partito sono proprio il fatto che ai membri viene dato un pacchetto di benefit da cui è escluso il resto della popolazione: un lavoro stabile, pensione, facili possibilità di viaggiare, un appartamento moderno e soprattutto una protezione legale e sociale se per caso hai dei guai con la giustizia.
Un solo esempio: da quasi due anni il governo ha ordinato ai membri del Partito di non investire nelle miniere di carbone, minacciando pene e la chiusura degli impianti in caso di incidenti mortali. La fame di energia del Paese spinge gli imprenditori a far lavorare i minatori per 12-14 ore al giorno, in gallerie spesso senza alcuna sicurezza. Il risultato è la morte ogni anno di almeno 20 mila minatori. Ebbene nel 2006, il 95% dei funzionari del Partito implicati nelle proprietà di miniere crollate, sono stati prosciolti.
La società a servizio del Partito
Questi semplici dati mostrano una cruda realtà: il Pcc, invece di essere l’avanguardia della società, è divenuto l’oppressore; i membri del Partito sono divenuti un’oligarchia che usa l’economia per mantenere il potere politico e usa quest’ultimo per accrescere i suoi benefici economici.
Da questo circolo vizioso – ma economicamente remunerativo – resta esclusa la maggioranza della popolazione: almeno 600 milioni di contadini hanno salari fino a un decimo di quelli delle città, nessuna pensione o struttura sanitaria; nelle privatizzazioni delle industrie, che hanno arricchito molti membri del Partito, pensionati e disoccupati rimangono senza alcun aiuto; oltre 300 milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà.
Un indicatore di quanto governo e Partito siano incuranti della situazione della popolazione viene dai dati sulla sicurezza sociale. Per scuole, sanità, pensioni, sussidi il governo cinese spende meno del 12% del Prodotto interno lordo, mentre Paesi sviluppati usano fino al 50% di esso.
Alle piaghe sociali vanno aggiunte quelle ambientali. L’aria della Cina è la più inquinata al mondo e l’acqua potabile manca a metà della popolazione cinese; il 75% dei fiumi e laghi sono inquinati; una coltre di smog copre perenne le città, provocando a decine di migliaia di persone malattie e morti per problemi respiratori. Tutto questo è dovuto a uno sfruttamento senza limiti del territorio, una mancanza di rispetto per l’ambiente e le leggi, una industrializzazione violenta anche di molte aree rurali.
La risposta della popolazione a questo fiume di ingiustizia continua ad essere quella della rivolta.
Secondo Zhou Yongkang, ministro della Pubblica sicurezza, le proteste di massa sono in aumento nel paese: nel 1994 erano 10 mila; nel 2004 sono state oltre 74 mila. Nel 2005 sono avvenute in Cina oltre 87 mila proteste pubbliche. Ogni giorno il Paese registra fra le 120 e le 230 proteste, in prevalenza nelle zone rurali, dove avvengono espropri di terre a favore di capi villaggi e segretari del Partito che vendono le terre a imprese edilizie o industriali. Nel 2006 le proteste sono diminuite, ma esse hanno assunto un carattere più violento, con la polizia che ha sparato contro i manifestanti.
Armonia e repressione
Per coprire l’abisso fra il paradiso del Partito e l’inferno della società, Hu Jintao ha coniato alcuni slogan: quello della “società armoniosa”, a cui tutti devono contribuire e da cui tutti dovrebbero ricavare un equo benessere; dello “sviluppo scientifico” con cui si sottolinea che il profitto e l’industrializzazione devono andare di pari passo con la cura per l’ambiente e un rapporto equilibrato fra città e campagne. Per il prossimo Congresso si pensa addirittura di inserire i due slogan nella costituzione del Partito, accanto ai contributi di Mao, di Deng Xiaoping e di Jiang Zemin. Il problema, messo in luce anche da accademici cinesi, è che il governo deve ancora dimostrare che questi non sono puri slogan, una specie di fumo negli occhi per addormentare le masse.
Ad accrescere questa impressione è anche la spietata campagna di arresti lanciata dalla leadership contro attivisti per i diritti umani, avvocati difensori di contadini, capi religiosi, gruppi di proteste. Tutto questo risponde proprio al voler creare un “ambiente gioioso e armonico” prima del Congresso, eliminando gli elementi di “disarmonia”. Anche i media devono cancellare tutto ciò che stona con questa retorica.
Una nuova legge pubblicata lo scorso anno vieta ai media di pubblicare notizie su “situazioni di emergenza” prima delle dichiarazioni dei responsabili locali, con multe da 50 a 100 mila yuan (5-10 mila euro) per i trasgressori. Vi rientrano notizie come esplosioni nelle miniere, disastri ambientali, pericoli per la salute pubblica e persino gli scontri tra contadini e polizia. La nuova normativa riguarda anche la stampa estera, compresa quella di Hong Kong.
A questo va aggiunto il controllo sul web, i blog, le censure preventive sui provider internazionali e gli oscuramenti di molti siti che parlano di democrazia, diritti umani, libertà religiosa, Taiwan, ecc.
Da questo punto di vista, si comprende perché i media di Pechino, in occasione di questo Congresso, definito “il più aperto nella storia del Partito”, non fanno altro che osannare tutti i grandi risultati ottenuti in questi 58 anni di dominio incontrastato del Pcc.
Per evitare possibili sfide a questa “repressione armonica”, Hu Jintao si è assicurato l’appoggio dell’esercito. Dal 2004, da quando è succeduto a Jiang Zemin come presidente della Commissione militare, egli ha aumentato il budget per le spese militari, potenziato le ricerche spaziali e promosso decine di ufficiali al rango di generale per i posti chiave. Il risultato è che l’esercito “aderisce alla leadership assoluta del Pcc” e rimane “uno strumento nelle mani del Partito”.
Non vi è nemmeno timore che la “repressione armonica” sia scossa da pressioni esterne. Poche settimane prima del Congresso, Hu Jintao ha messo in chiaro che qualunque cambiamento all’interno del Politburo non cambierà la politica delle “porte aperte” agli investimenti e agli affari con gli imprenditori internazionali. Egli ha anche promesso una maggiore “integrazione nella globalizzazione mondiale”. Naturalmente una globalizzazione economica, non dei diritti umani.
(A.C. Valdera)