La Nuova Bussola quotidiana 9 Dicembre 2024
L’esercito jihadista HTS conquista Damasco senza incontrare resistenza: ministri e funzionari di Assad già collaborano con i nuovi padroni. Una svolta repentina condotta sotto la regia di Ankara, con l’appoggio degli Stati Uniti e la compiacenza di Israele.
di Gianandrea Gaiani
Se le milizie di Hayat Tahrir al-Sham (HTS) che nelle prime ore dell’8 dicembre sono entrate a Damasco in concomitanza con la fuga del presidente Bashar Assad, sono i “liberatori” della Siria, allora non è errato definire quanto accaduto in questi giorni nella nazione araba una sorta di “25 aprile”. Ieri mattina era infatti impossibile trovare un solo “baathista” (esponente del Partito Baath del regime degli Assad) a Damasco, persino tra i ministri del governo.
Mohammed Ghazi al-Jalali, con alle spalle una lunga carriera ministeriale al fianco di Bashar Assad e dal settembre scorso nominato primo ministro, ha affermato ieri di aver concordato con il leader di HTS, il jihadista-salafita Abu Mohammed al-Jolani e di aver concordato con lui sull’importanza di mantenere le istituzioni statali. Al-Jolani ha dichiarato che il premier al-Jalali sarebbe rimasto in carica per garantire la transizione dei poteri in Siria.
Anche il ministro del Turismo, Mohammad Rami Martini, che dal 2014 ricopre incarichi di governo ed era stato colpito dalle sanzioni della UE contro il regime, ha esortato i dipendenti a tornare al lavoro e a proteggere le strutture pubbliche, salutando un «nuovo giorno» per il popolo siriano. Martini ha affermato che «questa è la volontà del popolo, e la volontà del popolo deve prevalere».
Se teniamo conto che le forze militari siriane non hanno quasi mai opposto resistenza ai ribelli preferendo sempre ritirarsi, che anche la TV di Stato ha subito intervistato un capo dei ribelli e la redazione del quotidiano di regime al-Watan ha chiesto scusa ai lettori per le bugie che aveva dovuto raccontare, più che di rovesciamento del regime potremmo parlare di transizione pilotata dei poteri.
Mentre i ribelli penetravano nell’ambasciata italiana da poco riaperta a Damasco (dove pare abbiano solo preso tre auto) e saccheggiavano quella iraniana strappando i manifesti di Qassem Soleimani, ex comandante della forza Quds e di Hassan Nasrallah, negli apparati di governo siriani era impossibile trovare uomini ancora fedeli al presidente Assad.
Ribelli ed esponenti degli apparati di sicurezza siriani si sono incontrati per evitare ulteriori scontri e vittime e garantire una transazione pacifica del potere evitando spargimenti di sangue.
Il “25 aprile” siriano vede molti ex baathisti riciclarsi, o almeno cercare di farlo, nel nuovo regime i cui contorni sono al momento indefiniti ma che non è difficile immaginare risentiranno dell’influenza turca che, dopo aver cooptato molti dirigenti siriani, potrebbe oggi offrire ampie garanzie a tutti i protagonisti coinvolti nella crisi.
Come appare ormai chiaro, la Turchia ha preparato il terreno all’offensiva dei ribelli infiltrando progressivamente i centri nevralgici del potere governativo e militare siriano, come dimostra l’assenza di resistenza dopo i primi giorni di guerra (nonostante il decreto di Bashar Assad che aumentava del 50 per cento le retribuzioni dei militari in servizio attivo) oltre all’adesione al “nuovo corso” di molti funzionari e interi apparati dello Stato.
Se da un lato mancano ancora elementi sufficienti a compiere analisi esaustive, dall’altro quanto accaduto in Siria tra il 27 novembre e l’8 dicembre ricorda i fatti dell’Afghanistan nell’estate 2021, quando le milizie talebane avanzarono repentinamente in tutta il territorio nazionale mentre i reparti dell’esercito e i governatori regionali si consegnavano agli insorti. Solo in seguito emerse che dopo gli accordi di Doha e l’inizio del ritiro statunitense e degli altri alleati occidentali emissari talebani ben supportati, anche finanziariamente, dall’intelligence pakistana si assicurarono l’appoggio di tutte le autorità civili e militari.
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, dopo avere per giorni tenuto le sue carte coperte, aveva detto il 6 dicembre che la Turchia si augura che “la marcia” in Siria delle forze di opposizione al governo di Bashar al Assad «continui senza problemi o incidenti con l’obiettivo ovviamente di arrivare a Damasco, dopo Idlib, Hama e Homs. Abbiamo lanciato un appello ad Assad invitandolo a determinare insieme il futuro della Siria ma sfortunatamente non abbiamo ricevuto una risposta positiva».
Dopo le dichiarazioni dei ribelli, è stato ieri il ministro degli Esteri turco ad annunciare la caduta del regime di Assad. Il ministro Hakan è stato con ogni probabilità il vero artefice di tutta l’operazione che ha portato alla fuga di Assad evitando un bagno di sangue che molti avrebbero potuto attendersi.
Fidan, che è stato alla testa dell’intelligence di Ankara, il Millî İstihbarat Teşkilatı, dal 2010 al 2023, ha detto ieri che «il governo siriano è collassato e il controllo del Paese è passato di mano», spiegando che Ankara «è in contatto con i ribelli per garantire la sicurezza» all’interno della Siria.
Del resto fin dall’inizio dell’offensiva dei ribelli, il 27 novembre, è apparso chiaro che solo il supporto diretto turco poteva rendere possibile questa offensiva partita dalla provincia di Idlib, che confina solo con la Turchia. Ankara ha tutto l’interesse ad ampliare la penetrazione nelle terre arabe che appartennero all’Impero Ottomano cacciando i curdi dai suoi confini e rimpatriando 3 milioni di profughi siriani; ma per farlo deve scalzare l’influenza sciita e iraniana in Siria. Obiettivo che vede la convergenza di interessi da parte di Israele, di certo oggi non un alleato della Turchia, ma che vede di buon occhio i pasdaran iraniani lasciare la Siria, utilizzata per rifornire di armi e addestrare le milizie Hezbollah.
Per cautelarsi dai ribelli jihadisti ieri le truppe israeliane hanno assunto il controllo della fascia smilitarizzata di confine a est del Golan e del versante siriano del Monte Hermon.
Nella messa a punto del piano per rovesciare Assad, la Turchia ha potuto godere con ogni probabilità di un ampio supporto statunitense: l’amministrazione Biden è interessata non solo ad attuare ogni forma di destabilizzazione idonea a complicare la vita a Donald Trump ma anche a liquidare un grande alleato di Mosca e Teheran quale Bashar Assad. Non a caso sembra che i ribelli dispongano di diverse armi occidentali provenienti dagli stock forniti all’Ucraina, inclusi diversi droni impiegati nei rari scontri contro le forze di Assad.
Non mancano però le incognite. I ribelli sono jihadisti che si dichiarano ex-qaedisti ma al loro interno vi sono tutte le milizie cecene, arabe, uzbeke, uigure che composero la legione islamica internazionale di al-Qaeda e poi dello Stato Islamico.
L’ Amministrazione Biden nei giorni scorsi aveva autorizzato raid aerei contro milizie sciite e le truppe governative siriane nell’area di Deir Ezzor ma potrebbe essere difficile per Washington mantenere le basi in Siria e i circa mille militari che le presidiano con un governo guidato da HTS, che risulta un movimento terroristico per USA e Unione Europea. Donald Trump del resto, nel suo primo mandato presidenziale, aveva espresso la volontà di ritirare le truppe dalla Siria, decisione oggi favorita anche dal ritiro imposto da Baghdad di tutte le truppe USA dall’Iraq entro settembre 2025
Il ritiro degli Stati Uniti, a tutti gli effetti una forza occupante la cui presenza viola il diritto internazionale, esporrebbe ulteriormente i curdi alle offensive di Ankara e delle milizie a lei fedeli che in questi giorni stanno avanzando in tutto il Rojava (Kurdistan siriano). La Turchia ha ammonito nuovamente gli Stati Uniti a chiudere i rapporti militari con i curdi siriani, considerati terroristi da Ankara alla stregua del PKK iracheno.
Non ci sarebbe quindi da stupirsi se i curdi dovessero pagare ancora una volta il prezzo dei bruschi scossoni geopolitici in Medio Oriente. I turchi stanno bombardando i posti di confine che le truppe siriane in ritirata hanno ceduto alle forze curde nella provincia nord-orientale siriana di Hasakah, da Qamishli fino ad Abu Rasin. In quell’area sono presenti anche forze russe, basate ad Al- Mabaqir, che hanno pattugliato l’area aiutando la ritirata delle forze siriane.
Anche in base a queste informazioni, e alle strette relazioni tra Russia e Turchia, appare difficile credere che Mosca sia stata colta di sorpresa dagli eventi siriani e apre all’ipotesi che il futuro assetto della Siria previsto da Erdogan non implichi il ritiro delle basi russe di Tartus e Latakya.
Se la Turchia emerge come il vero vincitore della lunga e sanguinosa guerra siriana, non c’è dubbio che Ankara debba fare i conti con l’incognita della deriva che potrebbe prendere HTS e tutta la galassia delle milizie jihadiste che hanno rovesciato Assad e che molti, in Europa come negli Stati Uniti, si affannano a definire, non senza sprezzo del ridicolo, “ex terroristi” o “jihadisti moderati”.
Come è già accaduto in passato, chiunque aizzi le insurrezioni jihadiste rischia poi di incontrare molte difficoltà a controllarle e solo col tempo sarà possibile valutare se i nuovi apparenti padroni della Siria saranno in grado di assicurarne l’unità e la stabilità. Mentre l’Europa si distingue come spesso accade per la sua assenza, l’Italia, unica nazione occidentale ad aver riaperto l’ambasciata a Damasco, vede oggi ancor più giustificato il timore che dalla Siria possano muovere nuove ondate migratorie.
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