Parla lo studioso Timothy Verdon: «I fili si sono persi ai primi dell’800 e dopo il Concilio abbiamo opere con la sola Crocifissione. Ci vorranno due o tre generazioni di artisti per recuperare il tempo perduto»
intervista a cura di Andrea Fagioli
Eppure, un tempo, quelli che meglio conoscevano la fede, dopo i preti, erano gli artisti tanto che uno studioso come Timothy Verdon parla di «Michelangelo teologo» oppure racconta di vescovi che nel Trecento, ma anche nel Seicento, non avevano bisogno di spiegare il senso del soggetto sacro che volevano rappresentato perché si potevano fidare che l’artista, cresciuto in un mondo ancora permeato dalla fede, non solo capiva, ma era lui stesso in grado di commentare il contenuto scritturistico e teologico del soggetto richiesto.
Le cose non stanno più così. E Verdon (che da oltre trent’anni vive in Italia e dal 1994 è sacerdote a Firenze dove dirige l’Ufficio diocesano per la catechesi attraverso l’arte) lo sa bene soprattutto ora che ha dato alle stampe il terzo manuale della serie L’arte cristiana in Italia, edito dalla San Paolo e dedicato, quest’ultimo, all’«Età moderna e contemporanea» (i due precedenti erano stati dedicati a «Origini e Medioevo » e al «Rinascimento»).
«Oggi a molti la cultura cristiana appare come un forziere di cui si è persa la chiave. Questi tre volumi vogliono essere spiega Verdon – una guida che permette ai lettori di muoversi attraverso la ricchezza e la bellezza della tradizione. Soprattutto questo terzo evidenzia gli sforzi compiuti a partire dal XVII secolo, e particolarmente negli ultimi cento anni, per tradurre in linguaggi visivi attuali l’enorme patrimonio simbolico di cui la cattolicità italiana è erede».
Uno sforzo di traduzione non semplice perché «il cristianesimo – spiega ancora Verdon – vive un rapporto paradossale con questa impenetrabilità della dimensione del sacro. L’evento centrale della nostra fede, il Dio ineffabile, ha voluto essere visto, toccato, conosciuto come noi esseri umani. Ha voluto farsi conoscere nel modo in cui noi siamo in grado di conoscere e cioè attraverso il corpo.
Per questo ogni momento della storia e ogni diversa cultura hanno espresso il sacro articolando un linguaggio nuovo, connaturato alla cultura del tempo, e la Chiesa Latina, al contrario di quella d’Oriente, non ha mai avuto un suo stile ufficiale: ha scelto una strada che a livello teologico è sembrata più consona al carattere stesso del Mistero dell’Incarnazione ».
Arte e sacro sono così andati d’accordo fino ai primi dell’Ottocento quando inizia quello che monsignor Verdon definisce il «peccato d’omissione della Chiesa, durato fino al Concilio Vaticano II: un secolo e mezzo in cui la Chiesa ha rinunciato alla sua gloriosa e coraggiosa tradizione di esplorazione del contemporaneo alla ricerca di linguaggi artistici capaci di comunicare la presenza di Dio».
Il dialogo è ripartito dopo il Concilio, «quando gli artisti contemporanei non hanno saputo resistere all’invito di Paolo VI, ma a quel punto non erano più abituati a pensare alle categorie della Chiesa, che a sua volta non era più abituata ad avere un rapporto con artisti veramente creativi.
L’esplosione di arte contemporanea su argomenti cristiani nell’immediato dopo Concilio era affascinante ed incoraggiante ma non ha risolto il problema perché gli artisti non hanno colto l’essenza della vita cristiana né l’evoluzione della Chiesa.
Questo è soprattutto evidente nell’ambito dell’architettura sacra. Basta entrare – dice Verdon – in una delle molte bruttissime chiese create nel trentennio dopo il Concilio per rendersi conto di infelici commistioni tra gli stili del passato e quelli contemporanei, dove prevalgono violenza e tragicità in opere di artisti volonterosi, ma non necessariamente vicini al pensiero della Chiesa, che hanno colto un clima tragico senza rendersi conto che la Chiesa anche quando vive la tragedia la vive nell’ottica della Resurrezione.
L’immagine più tipica degli anni Sessanta e Settanta è la crocifissione, rappresentata senza nemmeno l’ombra della Resurrezione. Il che significa che l’artista non ha colto l’interezza del messaggio. Un altro esempio sta nel fatto che in tempi di rivoluzione sessuale, dopo il Sessantotto ma anche prima, nessun artista è stato più capace di comunicare la bellezza, l’attrattiva della verginità, la purezza di Maria e di molti santi. Abbiamo Madonne che sembrano brave massaie, ma in cui non si coglie assolutamente la dedizione che purifica ed eleva.
Gli artisti adesso vanno aiutati a capire la fede con la prospettiva del lavoro da fare. La Chiesa in Italia – afferma Verdon – si sta adoperando seriamente per recuperare terreno. Anche gli artisti capiscono di non essere più in sintonia. È incoraggiante che siano direttamente la Santa Sede, la Conferenza episcopale italiana o le diocesi a volere ristabilire questi rapporti».