Il Foglio 2 giugno 2006
Caravaggio, l’ortodossia, l’islam e l’iconoclastia.
Una lezione cardinale
Testo della lezione che l’arcivescovo di Vienna, il cardinale Christoph Schönborn, ha tenuto al Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali che si è tenuto a Rocca di Papa dal 31 maggio al 2 giugno 2006
Christoph Schönborn
(traduzione Elia Rigolio)
Oltre trent’anni fa in merito a queste parole degli angeli annotavo nel mio libro “L’icona di Cristo”: “Questa promessa di ritorno dello stesso Gesù, allo stesso modo, questa promessa affida alla chiesa l’incarico di mantenere vivo il ricordo del suo santo volto, del volto di colui il quale, da quel momento, intercede per noi presso il suo Padre e il nostro Padre. Questa promessa la incita a professare la sua fede nella venuta ultima del Signore. Ebbene, l’icona è questa professione.
E’ la via intermedia, per così dire, tra l’incarnazione e l’escatologia, perché professa la verità di entrambe. Professando a un tempo l’identità di Gesù di Nazareth, il Verbo fatto carne, e quella del suo Signore, che tornerà a giudicare i vivi e i morti, l’icona trova la sua collocazione naturale nel cuore della professione di fede della chiesa. E’ come un suo riassunto”.
L’icona di Cristo: per molti cristiani, la tradizione orientale delle icone, dei metodi di pittura, della sua spiritualità, è diventata punto di unione e di incontro. L’icona è quasi onnipresente nella chiesa, orientale e occidentale. La sua lingua, la sua simbologia, il suo splendore sembrano davvero toccare i cuori di molti nostri contemporanei.
Spesso ci siamo domandati perché, ai nostri giorni, l’arte delle icone abbia potuto acquisire questo status di espressione privilegiata della fede cristiana. Può esserci un aspetto di “moda” (che alcuni ortodossi rimproverano ai cristiani dell’occidente, perché hanno l’impressione che la loro tradizione orientale venga “utilizzata” abusivamente dagli occidentali). Penso che ci sia qualcosa di più profondo.
Il “sensus fidei” riconosce nella tradizione orientale delle icone una sorta di espressione “canonica” della nostra fede, un’espressione che va oltre le mode e i mutamenti culturali del linguaggio artistico cristiano. L’icona non è atemporale, vive variazioni di stile, di scuole, di “colorazioni culturali”, non è statica e immobile, come spesso le è stato rimproverato.
Ma qual è allora il segreto della sua attrattiva, quale la chiave di comprensione del suo mistero, e quale la ragione della sua grande stabilità espressiva? Penso che la ragione ultima sia il mistero di Cristo stesso, Verbo fatto carne, Dio fatto uomo, divenuto “circoscrivibile”, come piace dire ai santi difensori delle immagini, san Teodoro Studita e san Niceforo.
Al di là di tutte le influenze culturali, dei legami con le tradizioni iconografiche precristiane, delle variazioni artistiche, c’è una base comune, una sorgente unica dell’arte dell’icona: il mistero del santo volto di Gesù Cristo. C’è questo volto unico, c’è questo Gesù che gli apostoli hanno conosciuto, con cui hanno mangiato e bevuto, che hanno visto trasfigurato e schernito, raggiante di gloria divina sul monte Tabor e flagellato e incoronato di spine.
E’ questo volto unico, di Gesù, figlio di Maria, figlio di Dio, che si è scolpito nella memoria di Pietro. E’ lo sguardo di colui che Pietro aveva appena rinnegato, e che lo guardava in un modo che nulla al mondo ha potuto cancellare dalla memoria e dal cuore di Pietro. Questo Gesù è il fondamento dell’Icona, della sua fedeltà (di cui alcuni fanno una caratterizzazione, o meglio una caricatura, basata sull’immobilismo), della sua attrattiva immutata.
L’icona attira perché è l’icona del Cristo. E’ perché noi vogliamo vedere il Cristo, che l’icona ci parla. E’ perché i fedeli (e spesso persino i non credenti) possono dire, guardando un’icona di Cristo: “E’ Gesù!” che l’icona parla a loro. Non è tanto la qualità artistica, per quanto questa sia importante e da non trascurare, perché è vera mediazione per l’incontro con Cristo, non è quindi tanto l’altezza dell’opera d’arte che conta, ma la forza della presenza di Cristo stesso a essere importante nell’arte dell’icona. Non mi addentro qui nel dibattito sull’estetica delle icone, sull’aspetto propriamente artistico. Per questo ci sono ottimi e dotti studi.
Attiro la vostra attenzione su di un fatto stupefacente, che mi aveva colpito quando studiavo la letteratura dell’VIII e IX secolo sulla controversia iconoclasta, la grande lotta pro, o contro, le immagini sacre nel cristianesimo. In tutta la letteratura in merito, non ho trovato traccia di una disquisizione estetica. La questione della bellezza delle immagini sacre non ha praticamente alcuna importanza.
Quantomeno, io non l’ho rilevata. (cfr il mio libro “L’icona di Cristo. Fondamenti teologici”, Paoline, Cinisello Balsamo 1988). Come si spiega? Ne ho data una prima spiegazione in “L’icona di Cristo”: “Questa assenza di considerazioni estetiche si spiega, ci sembra, col fatto che, da una parte e dall’altra, non si è mai trattato di mettere in dubbio la legittimità dell’arte in quanto tale. Il dibattito [sull’iconoclastia] si reggeva esclusivamente sull’estensione dell’arte al di là del campo profano, nel campo sacro”. Gli iconoclasti ammettevano l’arte, come l’islam, ma questa doveva limitarsi strettamente al campo profano.
L’iconoclastia era, in un certo senso, una secolarizzazione radicale dell’arte, una desacralizzazione dell’attività artistica ridotta a puro ornamento, a decoro della vita profana. Ma dietro questo rifiuto di un qualsivoglia carattere sacro dell’arte, c’è qualcosa di più della secolarizzazione dell’attività artistica. C’è una certa concezione di quanto è “cristiano” e quindi di quanto è mistero di Cristo.
E’ significativo, da questo punto di vista, constatare che tutto il dibattito per giustificare l’arte cristiana, le immagini sacre di Cristo e dei suoi santi, è ruotato intorno al mistero di Cristo. Sono rimasto colpito, studiando la controversia sulle immagini, dalla chiarezza con cui i difensori delle immagini hanno visto in questo dibattito non tanto una questione estetica, ma soprattutto cristologica.
I padri del II consiglio di Nicea (787) ne erano ben coscienti. Per loro, affermare la legittimità dell’icona di Cristo significava apporre un sigillo sulla professione della sua divinità (Nicea I) e della sua umanità divina (Calcedonia). La chiesa ortodossa celebra la vittoria definitiva dei difensori delle immagini nell’843 in una celebrazione liturgica la prima domenica di Quaresima di ogni anno come il “trionfo dell’ortodossia”. L’icona di Cristo come riassunto della fede cristiana! Può sembrare esagerato. Guardando più da vicino non lo è per nulla. Permettetemi di dire brevemente perché, e di farlo in due fasi.
Un nuovo sguardo
Alla fine dei miei studi sui fondamenti teologici dell’icona di Cristo, sono pervenuto a questa conclusione: “C’è una correlazione tra la visione del mistero divino-umano di Cristo e la concezione dell’arte. In realtà, l’incarnazione non ha solo trasformato la conoscenza di Dio, ha anche modificato lo sguardo dell’uomo sul mondo, su se stesso e sulle sue attività nel mondo. Da allora, l’attività creativa degli artisti non poteva non essere toccata, trasformata dall’attrattiva del mistero dell’incarnazione.
Se Cristo è venuto per rinnovare l’uomo tutto, per ricrearlo secondo questa immagine di cui lui stesso era modello, non era forse necessario che lo sguardo, la sensibilità, la creatività degli artisti venissero, essi stessi, ricreati a immagine di colui “per mezzo di cui tutto è stato creato”?
Visto alla luce di questo giorno, lo sforzo di relegare l’arte nel “profano” non può non sembrare una crisi profonda della visione teocentrica del mondo e dell’uomo” (op. cit.). Esiste una possibilità di verificare questa tesi, che è di crescente attualità: il rapporto dell’islam con l’arte sacra. Non sono assolutamente uno specialista di questa materia, ma mi baso su studi competenti.
Se l’islam rifiuta, in genere, l’immagine antropomorfa e lascia spazio solo agli ornamenti e soprattutto alla scrittura, questo non è in primis il risultato di una teoria artistica ed estetica, ma piuttosto la conseguenza diretta della sua visione del Dio unico, che non trova alcuna somiglianza in questo mondo, che niente può rappresentare, raffigurare e nemmeno, in un certo senso, simbolizzare.
Mi ha colpito, durante il mio viaggio in Iran (2001), l’insistenza con cui mi hanno spiegato che non dovevo parlare dell’uomo come immagine di Dio. Ciò che per la fede giudaico-cristiana è un’evidenza, confermata intensamente dal mistero dell’incarnazione, ovvero che l’uomo è veramente “ad imaginem et similitudinem” del suo creatore, viene rifiutato fermamente dall’islam. Dio è unico e senza simili: la Surat al-Tahwid (Cor. CXII), che tutti i musulmani pronunciano ogni giorno, dice: “Dì: è Dio, l’Uno, l’Unico. Non ha generato, non è stato generato. Non ha pari” (più esattamente “non ha equivalenti”). Non c’è dunque alcuna rappresentazione di Dio nel mondo.
L’aniconismo dell’islam non è in primo luogo una teoria estetica. E’ una conseguenza della religione islamica, per cui esiste un Dio che niente può rappresentare. Solo la luce, nella moschea, il nikràb, sarebbe, secondo i sapienti, un’evocazione metaforica del divino. E la luce è appunto priva di forma e figura (cfr. Assadhulla h Souren Melikien Chirrani, “L’Islam, le Verbe et l’image”, in F. Boes pflug – N. Lossky [ed.] “Nicée II. 787-1987 Douze siècles d’images religieuses”, Paris 1987, 89-117).
E’ diverso per la fede cristiana. Poiché il Creatore parla attraverso la sua creatura, le tracce del divino sono “leggibili”, certo non senza difficoltà, ma realmente. E’ soprattutto l’uomo, vero luogotenente di Dio nella sua creazione, fatto a immagine di Dio. La sua opera parla di Lui, soprattutto l’uomo. Il divieto delle immagini nell’antica alleanza ha un senso più pedagogico che ontologico. Poiché il cuore dell’uomo è una fabbrica di idoli, era necessario estirpare tutte le tentazioni di idolatria. Ma fondamentalmente, Dio si fa conoscere attraverso le sue opere. E’ la porta d’ingresso dell’arte sacra.
Il mistero divino-umano di Cristo approfondisce questo ordine della creazione, gli dà la statura definitiva. C’è davvero un volto umano, “l’icona del Dio visibile” (Col 1, 15). Poiché il Verbo si è fatto carne, poiché il Cristo, dalla condizione divina, è passato alla condizione di schiavo e ha fatto sua la Sua umanità concreta, le realtà umane, le cose di questo mondo sono diventate luogo della sua presenza, capaci di essere sua espressione, sua traccia, suo linguaggio.
Per me, le tele del Caravaggio sono una manifestazione eccezionalmente densa di questo fondamento “divino-umano” dell’arte che si è sviluppato sul suolo cristiano. La “Madonna dei pellegrini” di Sant’Agostino a Roma ne è per me un esempio sorprendente. I pellegrini inginocchiati, a piedi nudi (e pieni di polvere) davanti a questa matrona con un bambino già troppo grande per essere tenuto tra le braccia di sua madre: tutto respira un realismo “carnale” (come direbbe Charles Péguy) che potrebbe scioccare (e che ha scioccato) perché sembra mancare del senso e della dimensione del sacro.
E però è proprio questo realismo dell’incarnazione che permette di avvicinarsi al Santo, a Cristo e a sua Madre in questo modo, tanto vicino alla terra. La fede cristiana nell’incarnazione rappresenta la fonte di un’arte che si tuffa con tanta attenzione sulle cose della terra.
Oso pensare che il grande sviluppo dell’arte, sacra e profana, in terra cristiana si ispiri (senza negare altre fonti) innanzitutto a questo sì inaudito alla terra, che è l’incarnazione del Figlio di Dio. Questo sì al concreto, alla materia, al mondo visibile sta alla base di questa creatività esplosiva sperimentata dall’arte occidentale. Ammetto volentieri che questa tesi merita un approfondimento che i nostri gruppi di lavoro potranno abbozzare.
Cristo è la Bellezza
Oso andare ancora un po’ più in là. Noi conosciamo l’insegnamento classico sui “trascendentali”, il vero, il buono, il bello. Tutti questi attributi non sono esterni a Dio. Sono Dio stesso. Egli è la Verità e il Bene, egli è Amore, egli è Bellezza. Verità e Bontà, amore e Bellezza sono, come dicono gli scolastici, convertibili e coincidenti con l’Essere stesso di Dio. Ogni cosa bella creata partecipa della bellezza infinita dell’essere di Dio.
Se questo è vero, bisogna fare un altro passo ancora e dire che il Verbo, facendosi carne, ha per così dire “incarnato” la bontà e l’amore, la verità e la bellezza infinite di Dio. Cristo è “il più bello tra i figli dell’uomo”, non per le sue qualità estetiche particolari, ma perché egli è la bellezza incarnata di Dio. Tutto il suo essere è amore e verità, bontà e bellezza. Se quindi è vero che Cristo può dire di se stesso: “Io sono la Via, la Verità e la Vita” può altresì dire: “Io sono la Bellezza”.
Cristo può dire di se stesso ciò che solo Dio può dire: “Io sono”. L’Essere, il Vero e il Bene sono, secondo i termini degli scolastici, “convertibili”. Se Cristo è la Verità e la Bontà, è anche ciò che è loro splendore: la Bellezza: Splendor Veritatis, Splendor Boni. Per riassumere questo secondo passo della nostra piccola riflessione direi, modificando un’espressione di sant’Ireneo, che diceva: “Cristo, nella sua incarnazione, ha portato con sé tutte le cose belle. E’ lui la misura della Bellezza, è lui che porta, con la sua venuta, un nuovo sguardo sulla bellezza. E’, per così dire, “il canone della Bellezza”. Non ha solo ristabilito la bellezza originale della creazione, perduta e profanata a causa del peccato e del male; egli ha portato, nella sua stessa persona, la fonte di ogni bellezza.
Da lui si spandono nel mondo le acque vive della bellezza. E tutte le bellezze del mondo, che siano bellezze della natura, della virtù o dell’arte, sono irraggiamento della sua Bellezza. “Tu sei il più bello tra gli uomini”; queste parole del salmo reale, lette come un annuncio di Cristo, non vogliono dire che Gesù sarebbe, secondo criteri prestabiliti da un’estetica mondana, il modello più perfetto della bellezza. “Tu sei sorgente di ogni bellezza umana”. In te ci è rivelato cos’è la bellezza, e da te noi riceviamo lo sguardo per vederla, i criteri per discernerla e la forza per imitarla e spanderla.
Ci conduce sul cammino della sua Bellezza
Dobbiamo quindi guardare, contemplare Cristo, sorgente della Bellezza divina, reso accessibile dalla sua incarnazione. Oso proporvi una convinzione che è un’intuizione che credo si verifichi in mille modi: “Dov’è Cristo, lì c’è la bellezza”. Dove i cuori, gli spiriti, le vite si aprono a Cristo, lì gli argini della bellezza si aprono e riversano come flutti vivificanti su un mondo avvilito dal peccato, sfigurato dalle brutture del male.
Da 2000 anni tutto questo accade, e penso che tutto il senso del nostro ritrovo preparatorio all’incontro della Pentecoste abbia questo senso: guardare come i semi di bellezza seminati da Cristo crescono e portano frutto. Dovremo innanzitutto dedicarci a quello che è il più bel frutto della Bellezza di Cristo: la santità. Non ci sono prove più forti della verità e della bontà divino-umane di Cristo di questa via lattea, questa nube luminosa degli innumerevoli santi che Cristo ha condotto a seguire il suo cammino.
Non c’è niente di più bello al mondo della santità. Dei santi si può dire quello che la Lettera agli Ebrei dice di Cristo: sono come “irradiazione della sua gloria” (Eb 1, 3). Penso che basti dirlo per arrendersi all’evidenza. A più riprese il cardinale Ratzinger, grande amico e conoscitore della tradizione francescana, ha attirato l’attenzione su questo fatto impressionante: il Poverello d’Assisi, cercando semplicemente di seguire il Cristo povero e umiliato, ha causato non solo la nascita di un grande movimento spirituale nella chiesa. Egli ha anche dato il la a una scia luminosa di bellezza artistica.
Giotto, Cimabue, per citare solo due nomi, rappresentano una vera esplosione della creatività artistica che costituisce, ancora ai giorni nostri, il più grande tesoro artistico d’Europa e, oso dire, del mondo. Cristo, suscitando col suo Spirito tanta santità, è anche fonte viva di tanta bellezza artistica. Come chiudere gli occhi davanti a quest’evidenza? Nel suo testo “Fratello del Nostro Dio” sul santo frate Alberto, Karol Wojtyla, il venerato Papa Giovanni Paolo II, parla di “quest’altra bellezza, quella della misericordia”.
Come non vedere questa evidenza: Cristo ha donato al mondo “quest’altra bellezza, quella della misericordia”. Cosa sarebbe il nostro mondo senza la realtà della misericordia? Poiché noi tutti ne viviamo, consapevolmente o inconsapevolmente, rischiamo di non vedere più in che misura la bellezza della misericordia risplende nel nostro mondo di durezza e disumanità, a partire da quel focolare inestinguibile che è il cuore di Gesù.
Basti qui, per il seguito dei nostri lavori, aver indicato queste tre vie luminose della bellezza di Cristo: la santità, l’arte che vi è ispirata e la misericordia che essa irradia. Per concludere vi propongo innanzitutto un testo di sant’Agostino, che così commenta il Salmo 44, versetto 3: “Tu sei bello, il più bello tra i figli degli uomini”.
Ci sono altri passaggi che potremmo citare, soprattutto il forte testo col commento di sant’Agostino alla prima lettera di san Giovanni, quando parla dei due testi biblici apparentemente contraddittori, il Salmo 45, che abbiamo appena citato, e il quarto Canto del Servo che era “senza bellezza né splendore per attirare i nostri sguardi, senza un’aspetto seducente, oggetto di disprezzo e abbandonato dagli uomini, uomo di dolore…” (Is 53, 2-3).
Il Papa li ha commentati in modo mirabile in un messaggio al Meeting di Rimini nel 2002. Ci sarebbero tanti altri testi dei Padri sul contrasto tra questi due oracoli profetici, ci basti qui citare quello delle “Enarrationes in Psalmo 44” di sant’Agostino: “Anche allora, se vorrai considerare la misericordia che ha fatto che s’incarnasse, egli è bello”.