Articolo pubblicato su Tempin. 41
11-17 ottobre 2001
L’Italia è diventata terra d’elezione per l’immigrazione islamica. E oggi, su poco meno di 2 milioni di immigrati, almeno il 40% sono musulmani. Viaggio non politicamente corretto alla scoperta dell’islam italiano. E della sfida che, nolenti o volenti, la Shari’a lancia alla nostra società
L’Italia dei 100… minareti
Quanti sono oggi i musulmani in Italia? Le stime sono piuttosto incerte. Secondo i dati della Fondazione Migrantes e della Caritas di Roma aggiornati all’anno 2000 (sulla base dei permessi di soggiorno, aumentati del 19%, per comprendere i permessi in corso di registrazione e i minorenni), gli immigrati di religione islamica ammonterebbero a 543.849 su tutto il territorio nazionale, una cifra che rappresenta il 36,5% dell’intera popolazione di stranieri. Tuttavia questo dato non considera i clandestini e si fonda sull’ipotesi che gli immigrati presenti in Italia professino la religione dominante del proprio paese d’origine.
Altre fonti fanno ulteriormente levitare la presenza musulmana: il professor Andrea Pacini, responsabile scientifico del Laboratorio di ricerche e relazioni culturali della Fondazione Agnelli, parla di 600mila fedeli, la Direzione generale degli Affari dei Culti del Ministero dell’Interno di 650mila, mentre Mario Scialoja, già ambasciatore presso l’Arabia Saudita e oggi responsabile della Lega musulmana mondiale in Italia, pensa «che non siano meno di 1 milione e 200mila unità».
Inoltre, pur in assenza di statistiche esatte, dei 56mila figli d’immigrati che frequentano le scuole italiane, gli studenti islamici sarebbero oltre il 40% (da “Musulmani in Italia”, di Aldo Giannasi, del Pisai, Pontificio istituto di Studi Arabi e d’islamistica). Quel che è certo, è che in futuro il numero dei fedeli dell’islam appare destinato ad aumentare a ritmo vertiginoso (per un confronto, se nel 1992 era di 304mila unità, il Dossier statistico della Caritas di Roma 1999 registrava già 436.000 musulmani).
Come e quando Maometto sbarcò a Roma
L’islam italiano è stato una presenza assai modesta fino alla fine degli anni ’60. Nel 1966 si è costituito a Roma il Centro islamico culturale d’Italia (Cici), sostenuto dalle ambasciate degli Stati arabi e islamici accreditati presso la Santa Sede (attualmente è presieduto dal Principe Muhammad bin Nawaf bin Abdul Aziz, Ambasciatore del Custode delle due Sacre moschee in Italia, ossia del saudita Re Fahd), sotto l’ala protettrice dell’Arabia Saudita che ne ispira la linea ideologica e lo sovvenziona attraverso la Lega del Mondo Islamico (organizzazione con sede alla Mecca).
Il Cici, cui si deve la costruzione della Grande Moschea di Roma inaugurata nel 1995, rappresenta l’”islam degli Stati”, che guarda con scarsa simpatia all’islam della base, di tendenza militante e più legato al cosiddetto “islamismo” (ossia quel movimento di “revival islamico” che si distingue per una forte reazione contro l’occidentalizzazione e più facilmente può cadere nel radicalismo).
Al Cici si è aggiunta in un secondo momento l’Unione degli studenti musulmani d’Italia (Usmi), fondata nel 1971 a Perugia e poi diffusa in diverse città italiane. Quando nasce, l’Usmi ha stretti legami con la principale organizzazione islamista, quella dei Fratelli Musulmani, fondata in Egitto nel 1928 da Hasan al-Banna, e animata da una logica chiarissima: «L’islam è ideologia e fede, patria e nazionalità, religione e Stato, spirito e azione, libro e spada»; la Comunità dei credenti si fonda sulla Shari’a che viene custodita dagli ulema, i sapienti del Corano.
I Fratelli musulmani hanno avuto una svolta dal 1966, dopo la morte di Sayyd Qutb (il teorico della “barbarie”, la jahiliya, che va combattuta attraverso il Jihad, la guerra santa), rifiutando l’uso della violenza e trasformandosi in un movimento “tradizionalista” che in Occidente rivendica spazi islamizzati all’interno della società.
Dal 1990 l’eredità dell’Usmi è stata raccolta dall’Unione delle Comunità ed organizzazioni Islamiche in Italia (Ucoii, sito: www.islam-ucoii.it), nata per volontà di alcuni membri del Centro Islamico di Milano e Lombardia (figlio del primo centro islamico fondato a Milano all’inizio degli anni ’70, in via Anacreonte, oggi con sede a Lambrate, nella periferia est della capitale lombarda, sito: www.islam.it), e presieduto da Dachan Mohamed Nour, cittadino italiano, già esponente di spicco dei Fratelli Musulmani siriani.
Infine si segnala l’attività dell’Unione delle Comunità e delle Organizzazioni islamiche in Italia (Coreis, sito: www.coreis.it, un islam che ha la forma particolare di un sufismo ispirato alle dottrine esoteriche di Réné Guénon) del dottor Abd al Wahid Pallavicini che «si presenta pienamente compatibile con la società e con l’ordinamento giuridico italiano», con «il rifiuto d’ogni egemonia ideologica di matrice islamista», in buoni rapporti con l’Unione islamica in Occidente (Uio), la prima associazione islamica italiana (1947), sotto “patronato” libico.
Minoritaria invece è la presenza nel nostro paese dell’islam sciita, coordinato dall’Ambasciata della Repubblica islamica dell’Iran presso la Santa Sede. (Per un approfondimento sulla complessa e variegata realtà dell’islam italiano, si veda la recente “Enciclopedia delle religioni”, Elledici, maggio 2001, sezione islam curata da Pier Luigi Zoccatelli, ricercatore del Cesnur).
La Repubblica dei veri credenti
Il problema di questa massiccia diffusione islamica in Italia non viene soltanto dal radicalismo più integralista, che peraltro trova nel nostro paese un punto di riferimento in associazioni come l’Istituto culturale islamico di viale Jenner (www.sutulhq.net, per il momento l’unica parte leggibile del sito è la sezione in arabo), nato a Milano nel 1988 da una costola del Centro culturale islamico di Milano e Lombardia (accusato d’eccessivo moderatismo), con circa 5mila frequentatori.
Ma dalla più generale tendenza al rifiuto dell’integrazione nella cultura italiana delle correnti tradizionaliste: ciò significa la costituzione di gruppi separati, che affermano la propria alterità e vogliono renderla visibile, rivendicando quelli che ritengono essere i propri diritti davanti allo Stato, considerato comunque “miscredente”. È il caso dell’influente Ucoii, che controllerebbe il 90% delle 500 sale di preghiera diffuse sull’intero territorio nazionale, con una rete di circa 30 centri islamici e 80 moscheee.
Dalla bozza d’intesa con la Repubblica Italiana stilata all’inizio degli anni ’90, ecco cosa chiedono i suoi dirigenti all’Italia: «la celebrazione della preghiera congregazionale del venerdì, lo statuto delle guide del culto islamico, il riconoscimento delle due festività islamiche, il diritto all’assistenza religiosa nelle carceri, negli ospedali, nelle caserme, l’istruzione religiosa nella scuola pubblica da parte di insegnanti musulmani, il diritto di istituire scuole islamiche riconosciute e parificate, il diritto di dare effetti civili ai matrimoni islamici celebrati davanti a una guida del culto riconosciuta dallo stato, l’inviolabilità, l’inalienabilità e il divieto di cambiamento d’uso degli edifici di culto, il diritto di spazi cimiteriali islamici previsti nei piani regolatori, la deducibilità dei contributi versati alle comunità e all’Ucoii da parte di singoli musulmani e enti e soggetti di diritto privato, il diritto a percepire il contributo di legge (8 per mille) riconosciuto alle altre comunità… inoltre la concessione di una forma di par condicio religiosa affinché i musulmani possano godere di spazi informativi sulle testate radiotelevisive pubbliche».
In nome dei diritti umani
Si tratta di un elenco di richieste presentato «nel nome dei diritti umani». Giustissimo. Il fatto è che la Shari’a, rivendicata in Italia nel nome dei diritti dell’uomo, proprio con alcuni di questi diritti mal si concilia (peraltro la Shari’a riconosce la pienezza dei diritti ai soli musulmani e l’inferiorità giuridica di chi non è di religione islamica mentre, a suo tempo, l’Arabia Saudita rifiutò di firmare la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo perché l’articolo 18 riconosce la libertà di religione, incluso il diritto di cambiarla, peccato capitale secondo il Corano).
Nello specifico, non viene ammesso il diritto di una donna musulmana di sposare un non musulmano senza imporre che il marito ci converta all’islam, né si ammette che un musulmano possa convertirsi ad un’altra religione. Inoltre si chiede la possibilità di celebrare e sciogliere nuovi matrimoni senza effetto civile, in sintonia con la tradizione musulmano per cui il matrimonio è un atto di diritto privato. Ciò equivale ad ammettere la possibilità del ripudio e della poligamia, riconosciuti dal diritto islamico di famiglia.
È difficile negare gli effetti destabilizzanti di queste richieste, che avrebbero implicazioni in tutti gli ambiti della vita civile, dal lavoro all’istruzione, dalla sanità alla giustizia