Il cadaverino e la politica

crocifisso_rimozioneIl Foglio Editoriale del 28/10 /2003

La rimozione dei simboli religiosi? Bisogna pensarci bene. Bisogna pensarci

A proposito di Crocifisso, i lettori del Foglio hanno la fortuna di essere ben informati sulla rimozione legale dei simboli religiosi e sul rapporto tra questo gesto estremo di secolarizzazione e la politica. Tra agosto e settembre avevamo diffusamente raccontato l’epopea di Roy Moore, il giudice dell’Alabama che si è battuto, perdendo naturalmente, contro la rimozione di una stele dei dieci comandamenti da lui stesso insediata nella rotonda del Palazzo di giustizia di Montgomery.

E’ la solita cagnara di un demagogo del Sud americano o un problema serio? Optammo per la seconda diagnosi, collegammo la battaglia del decalogo con grandi questioni costituzionali della democrazia americana e con la disputa sulle radici giudaico cristiane da menzionare oppure no nel trattato costituzionale europeo.

Martedì scorso abbiamo pubblicato un documento fantastico: la ricostruzione firmata da un professore che scrive chiaro, nel giornale neoconservatore Weekly Standard, di quella frasetta, “under God”, che molti cittadini degli Stati Uniti vogliono togliere o accettano sia tolta dalla filastrocca recitata a scuola in segno di lealtà alla patria unita, alla libertà e alla giustizia (sul “Pledge of Allegiance”, la filastrocca con una lunga storia, deciderà a giugno la Corte Suprema, e sarà una bomba).

L’Aquila è una città lontana da Montgomery e da Washington, e ogni problema ha caratteristiche sue proprie, ma la sostanza delle domande che nascono dai fatti è la stessa. Nel mondo secolarizzato, in cui è norma la separazione di Chiesa e Stato, può lo spazio pubblico ospitare testimonianze esterne di una fede religiosa? I simboli religiosi in luogo pubblico negano la diversità delle fedi in nome di una fede particolare che appartiene a una identità nazionale portata dalla storia? E questa possibilità o impossibilità di arredare un’aula scolastica con un Crocifisso o di menzionare Dio in atti pubblici, una volta stabilita, che cosa implica, che cosa comporta?

Si sono ascoltate varie risposte. Filippo Facci, in una lettera che pubblichiamo, dà la risposta realista: il diritto registra i mutamenti della società, la religione è ormai totalmente roba privata, parliamo d’altro. Il leader musulmano Adel Smith, che manda i suoi figli a scuola con una sura coranica cucita nella giacchetta e ha fatto ricorso contro il “cadaverino” e ha ottenuto soddisfazione provvisoria dal tribunale dell’Aquila, dice di battersi contro una discriminazione religiosa.

Altri musulmani come Hamza Piccardo dicono: vogliamo il diritto al velo islamico per le nostre bambine e per questo comprendiamo e giustifichiamo l’ostensione di altri simboli religiosi a scuola. Il rabbino capo degli ebrei romani, Riccardo Di Segni, è scettico e propende per la parete vuota di simboli. Poi ci sono quelli che la buttano in storia o in geografia e divagano. Divagazioni interessanti che ospitiamo nella pagina delle nostre opinioni, su tolleranza e intolleranza, sulla religione come fattore di unità (lo dice la parola stessa) o di divisione (lo dicono le guerre di religione, mai così attuali), e anche sul concetto geografico di occidente, nozione minuscola ma significativa.

Parola grossa, bisogna ammetterlo

La nostra divagazione, che poi all’ingrosso sarebbe la linea del giornale (parola grossa, bisogna ammetterlo) è questa. Il mondo occidentale si vuole o si pretende sempre più buono, ed è di fatto sempre più irreligioso. Il tramonto delle ideologie del Novecento è il suggello di una grande Antideologia: diritti universali eguali, corti penali internazionali e governi mondiali al posto della politica di potenza, via libera al desiderio individuale e al selfinterest garantiti dalla scienza avalutativa, diritto al figlio biondo e con gli occhi azzurri, diritto a non morire mai e a non ammalarsi, diritto alla pace e pazienza per i popoli che non hanno pace, diritto alla mobilità universale dei migrantes sostenuto dai solidali e dagli imprenditori in cerca di manodopera, diritto alla democrazia e pazienza per chi non ce l’ha, diritto al delitto in nome della classe sconvolta dalle riforme del mercato del lavoro, diritto alla disobbedienza, diritto al sesso in coppie di fatto protette da una legge che però non deve fare da testimone ad atti privati sempre più sconfinatamente liberi, diritto a matrimoni senza senso conclusi da divorzi lampo, diritto ad aborti senza problemi, diritto a figli buoni per qualsiasi tipo di coppia concepiti in qualsiasi tipo di provetta, diritto alla clonazione della specie eccetera. Il diritto alla vita lo trascuriamo un po’, come sussurra nel buio Fratello Embrione, perché in fondo non si tratta di un nostro diritto, non si tratta della nostra vita.

Può darsi che questo sia un progresso. Perché no? Avrà una faccia truce o grottesca, per alcuni bigotti, ma è un indirizzo di liberazione dall’oscurantismo, un percorso illuminato. Non lo si può escludere, sia detto senza troppa ironia. Siamo figli, nipoti e bisnipoti di grandi ideali, sanzionati da grandi enciclopedie e filosofie e ghigliottine.

Ora che gli ideali tendono a diventare fatti, ora che il progetto diabolico e divino di Faust trionfa nell’orgoglio, ora che non ascoltiamo più le vecchie fole della religione e confiniamo in un privato sempre meno visibile la rivelazione e i suoi libri, ora è venuta l’ora di porci una domanda che non c’entra niente con il bigottismo, che possiamo farci anche se accettiamo un mondo in cui al dovere e all’obbedienza si sostituiscono il diritto e la disobbedienza: va bene così? ne siamo contenti? abbiamo fatto di tutto per capire le conseguenze delle nostre azioni e soprattutto dei nostri ideali?

Ecco, il punto è questo. Può essere che la politica sia pura convenzione umana, e che si giustifichi da sola per il fine utilitario che incarna (la sicurezza, la convivenza, la pace). Il generale Washington e i presidenti Jefferson e Lincoln, nonostante la loro deferenza verso la norma che esige “un muro di separazione tra Chiesa e Stato”, non la pensavano così.

Pensavano che la libertà e la giustizia, e per Lincoln la rinascita americana della libertà e della giustizia affermata con il sangue di una gloriosa guerra civile per abolire la schiavitù e costruire diritti eguali per tutti, devono fondarsi su qualcosa che trascende la convenzione umana, una convenzione delle convenzioni, un atto di fede prima della ragione, su un Creatore o Dio che esprime la legge di natura e rende autoevidenti valori impossibili da giustificare con le sole leggi, valori alla base di tutte le leggi e di tutti i comportamenti convenzionali.

Erano protestanti, questi padri americani, e under that God, sotto quel Dio, misero la loro nazione, la loro rivoluzione, la loro guerra alla schiavitù e altri ammennicoli che hanno prodotto il modello liberale moderno. Per noi che non possiamo non dirci cristiani, e poi siamo cattolici anche se atei, quel Dio che giustifica una certa idea della persona è il Cristo, il Crocifisso: per alcuni lo è sul piano della cultura e della storia, per altri nel terreno profondo della fede personale collettivamente affermata in una chiesa.

Eccoci così di nuovo al rapporto tra la rimozione dei simboli religiosi dallo spazio pubblico e la politica. Il modello liberale è in crisi, sia nella religiosa America sia nella vecchia e irreligiosa e sapiente Europa. Qualcosa non va e andrebbe ripensato. Non è una scoperta di oggi. Il terrorismo islamico parla anche di questo.

Una politica senza una qualche base simbolica e religiosa forse è possibile, forse è un casino. A parte i dilemmi giuridici e i sofismi sul sincretismo multiculturale, che in questo caso non contano molto, bisogna pensarci bene prima di staccare il Crocifisso, rimuovere la stele, cancellare la formula under God. Pensarci bene forse è bigotto, troppo valutativo.

Diciamo che bisogna pensarci.