Così l’avanzata dei terroristi islamici sta cacciando i pochi cristiani rimasti in Iraq Per la prima volta in sedici secoli nelle chiese di Mosul non si celebrano più Messe e per l’Iraq si fa sempre più reale lo spettro della divisione in tre Stati autonomi e in guerra tra loro
di Francesco Amicone
Da un mese a Mosul e in tutto l’Iraq occidentale non comanda un governo legittimo ma un terrorista, Abu Bakr al Baghdadi, alias “califfo Ibrahim”. Il suo dominio si estende per circa cinquecento chilometri, dalla provincia di Aleppo, nel nord della Siria, alla provincia di Diyala nell’Iraq occidentale. È una nuova nazione, fondata sul jihad, la guerra santa agli infedeli e ai musulmani apostati. L’hanno chiamata semplicemente “Stato islamico”, perché, come spiega il califfo, è lo Stato dei musulmani.
La legge è la sharia e viene applicata dai terroristi accorsi in Siria e in Iraq da ogni parte del globo per combattere il regime siriano e il governo iracheno. «L’annuncio del califfato è un dovere di tutti i musulmani», ha gridato sabato scorso un luogotenente del califfo Ibrahim in una importante moschea di Mosul, capoluogo della provincia di Ninive. L’imam ha esaltato i mujaheddin, i combattenti del jihad, invitandoli a compiere il loro «sforzo sulla via di Allah». Una scena così, a Mosul, fino a qualche mese fa era inimmaginabile. Da quando a governare sulla seconda città dell’Iraq sono i terroristi, però, la minaccia jihadista è talmente concreta da preoccupare seriamente gli abitanti della capitale Baghdad.
L’avanzata dei miliziani aderenti all’organizzazione che un tempo si faceva chiamare “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” (Isil o Isis) ha sorpreso il mondo. In due settimane, con la complicità dei sunniti locali (in rivolta contro le politiche discriminatorie del governo sciita), i terroristi hanno conquistato facilmente un territorio popolato da milioni di abitanti. Un’offensiva così celere non l’aveva prevista il premier Nouri al Maliki, e nemmeno l’esercito iracheno, che davanti alle milizie islamiste provenienti dalla Siria si è dato alla fuga. Forse non lo avevano previsto neppure gli stessi miliziani jihadisti, i quali, dopo i successi militari di giugno, contenuti soltanto dall’esercito curdo lungo il fiume Tigri, hanno annunciato la creazione dello Stato islamico e ordinato a tutti i musulmani di «giurare fedeltà al califfo Ibrahim e rifiutare la democrazia e altra spazzatura dall’Occidente».
Crocifissioni, rapimenti, torture
Su tutto il territorio controllato dagli islamisti tra la Siria e l’Iraq vige la sharia. Ad applicarla sono i terroristi. Proprio in base a queste regole, appena qualche ora dopo la proclamazione della nuova nazione, nove persone sono state crocifisse dai terroristi nella provincia di Aleppo. I nove facevano parte di formazioni ribelli che combattono contro Bashar al Assad, considerate però dal califfato troppo moderate. Gli otto uomini crocifissi in piazza a Deir Hafer e il nono ad Al Bab sono stati lasciati davanti agli occhi di tutta la cittadinanza per tre giorni come monito. Anche in Iraq i testimoni sopravvissuti hanno parlato di violenze simili, specialmente nei confronti dei cristiani e degli sciiti. «Trattano i sunniti meglio degli altri perché sono anche loro sunniti», ha detto un profugo curdo alla Bbc.
«Li lasciano immediatamente, una volta pagato il prezzo del taxi per tornare a casa. Agli sciiti che non riescono a scambiare con altri prigionieri, semplicemente, tagliano le teste». Hassan fa parte delle 50 mila persone scappate da Tikrit, Mosul e Tal Afar, per trovare rifugio temporaneo a Sinjar, una piccola città irachena sul confine siriano. «Prendono di mira tutti. Non hanno umanità», ha detto un altro fuggitivo alla Bbc. «L’Isil ha compilato un database per identificare coloro che lavorano per il governo o per le forze di sicurezza», ha spiegato Bashar al Kiki, presidente della provincia di Mosul, all’emittente televisiva. «Chi non ripudia la propria appartenenza e non abbraccia la religione del califfato viene ammazzato. Molta di questa gente è scomparsa da Mosul».
Come è sempre accaduto in Medio Oriente in tutti questi anni, a pagare il prezzo più alto dei conflitti religiosi interni all’islam sono ancora i cristiani. Quelli di Mosul ne sono un esempio eclatante. Nel 2003 in città c’erano circa 35 mila cristiani. Il numero è diminuito drasticamente fino a tremila. Dopo l’arrivo dei terroristi, per la prima volta in sedici secoli di storia, nelle chiese della città è impossibile celebrare Messa. Rimangono a Mosul solo poche decine di cristiani, quelli che non sono riusciti a fuggire. Gli altri hanno raggiunto a piedi piccoli villaggi non interessati dagli scontri armati, oppure si sono diretti a Baghdad e Erbil, nel territorio curdo, per scampare a rapimenti, decapitazioni, crocifissioni, torture e tutte le pratiche eseguite nel nome di Allah con cui si sono fatti conoscere al mondo l’“erede di Maometto” e i suoi seguaci.
Neppure i clamorosi successi hanno influito sullo stile violento dei terroristi dello Stato islamico. Non appena giunti a Mosul e issate le loro bandiere nere sugli edifici pubblici e religiosi del luogo, hanno riservato alla città irachena e ai suoi cristiani lo stesso trattamento toccato ad altri paesi e città assoggettati. La sede dell’arcidiocesi caldea è stata devastata e saccheggiata. Lo stesso è accaduto alla chiesa di Sant’Efrem e alla diocesi siro-ortodossa. I miliziani hanno abbattuto e decapitato anche una statua della Madonna della chiesa dell’Immacolata, ricostruita nel 1743 sul sito di uno dei più antichi luoghi di culto della città, la chiesa Al Tahira del VII secolo. I cristiani e gli altri non musulmani rimasti a Mosul devono ora dichiarare la loro sottomissione al califfo e versare il tributo umiliante , la jizya, per preservare la loro fede.
Secondo quanto dichiarato dall’alto commissario per i diritti umani in Iraq, Sallama al Khafaji, per mantenere la propria fede nel califfato la cifra da pagare sarebbe di almeno 250 dollari. Chi non paga va incontro a violenze, come quella denunciata dallo stesso alto commissario la settimana scorsa, quando tre terroristi dopo essere entrati nella casa di un cristiano di Mosul, non avendo ricevuto pagamento della tassa, hanno stuprato sua moglie e sua figlia. L’uomo si sarebbe poi suicidato. A questo si aggiunge il rapimento di due suore, altre due donne e un uomo dall’orfanotrofio Meskinta nel quartiere di Khazrag, nei pressi dell’arcivescovado caldeo.
L’arcivescovo di Mosul, Emil Shimoun Nona, intervistato il 4 luglio da “Aiuto alla Chiesa che soffre” (Acs), ha confessato di non sapere se i cristiani potranno mai tornare in città. «La mia diocesi non esiste più», ha detto il prelato. «Lo Stato islamico me l’ha portata via». Durante il Sinodo, i vescovi iracheni hanno cercato disperatamente risposte a una crisi che ha creato migliaia di profughi. «I rifugiati non rappresentano l’unica emergenza a cui dobbiamo far fronte», ha inoltre spiegato monsignor Nona. «L’avanzata dell’Isil ha acuito le tensioni tra sunniti e sciiti, aumentando il senso di insicurezza dei cristiani che ormai hanno perso fede in un loro futuro in questa terra».
Già durante la crisi del 2007, prima del “surge” guidato dal generale americano David Petraeus, i cristiani erano diventati il bersaglio delle lotte fra estremisti sunniti ed estremisti sciiti. Poi è arrivato il conflitto civile in Siria. Anche in questo caso i cristiani sono stati costretti a scappare. A Raqqa, città siriana da un anno nelle mani degli islamisti dello Stato islamico, i mujaheddin, dopo aver imposto la sharia a tutti gli abitanti, musulmani e cristiani, hanno distrutto croci, bruciato Bibbie e fissato il loro quartier generale all’interno di una chiesa. In quel caso gli islamisti hanno imposto ai cristiani un tributo umiliante pari a 13 grammi d’oro puro. Ai musulmani è stato vietato di fumare e ascoltare la musica. Chi non partecipa alla preghiera del venerdì o non porta il velo viene frustato in piazza.
«Ma l’Occidente pensa ai Mondiali»
In fuga da Mosul, dalle province orientali irachene, sono anche i preti e i vescovi, che hanno dovuto organizzare un sinodo d’emergenza nella capitale del Kurdistan iracheno, Erbil. A margine della riunione del 28 giugno, il patriarca caldeo Louis Raphaël Sako I ha spiegato alla fondazione pontificia Acs di aver «creato una commissione di cinque vescovi (tre presuli caldei più l’arcivescovo siro-cattolico e il vescovo siro-ortodosso di Mosul, ndr) appartenenti a diocesi delle aree colpite per organizzare e assicurare gli aiuti ai rifugiati». Sako non ha nascosto la propria delusione nei confronti dell’Occidente per quanto accade in Iraq: «Ci sono alcuni cristiani che ci sostengono – ha detto il Patriarca – ma per il resto si tratta soltanto di osservatori impassibili, più interessati a una partita di calcio che al dramma che si sta consumando in Iraq o in Siria».
Sako però si è detto anche contrario a un intervento armato americano, perché «gli Stati Uniti sono già stati qui e hanno commesso molti errori. E ora regna il caos, la confusione, l’anarchia». Quello che ora più teme Sako è la scomparsa dei cristiani dall’Iraq e dal Medio Oriente. Un pericolo sempre più concreto, secondo il Patriarca. «Stiamo perdendo la nostra comunità – ha detto – e tra dieci anni in Iraq potrebbero rimanere non più di 50 mila cristiani». Secondo il capo dei cattolici caldei iracheni «forse il nostro futuro sarà qui nel Kurdistan, ma vi sono anche molti fedeli che continuano a vivere a Baghdad».
L’unica salvezza per i cristiani iracheni delle province orientali per ora è proprio il Kurdistan, dove si è rifugiato anche il clero cattolico. I curdi, un tempo perseguitati dal regime di Saddam Hussein, oggi amministrano un ampio territorio di là del fiume Tigri, offrendo aiuto ai cristiani e proteggendo la regione grazie al loro esercito (peshmerga), che finora si è dimostrato molto più efficiente, e certamente più valoroso, di quello iracheno, resistendo alle pressioni e ai bombardamenti dei jihadisti. La rapida fuga dei soldati di Baghdad ha consentito ai peshmerga curdi di prendere il controllo di territori per anni contesi con il governo centrale e soprattutto di occupare la città petrolifera di Kirkuk, che oggi offre al governo di Erbil la possibilità concreta di creare una nazione completamente indipendente da Baghdad.
Un proposito ribadito a inizio di luglio da Massud Barzani. Il leader curdo alla Bbc ha chiarito che intende staccare la regione dall’Iraq per creare uno Stato prospero e ricco grazie al petrolio: «Da ora in poi – ha detto all’emittente britannica – non nasconderemo più che l’indipendenza è il nostro obiettivo. L’Iraq è già diviso ormai. Dovremmo restare nella tragica situazione che il paese sta vivendo? Non sono io che deciderò sull’indipendenza ma il popolo. Faremo un referendum, è questione di mesi».
Visti i fatti, è più che mai probabile, secondo gli osservatori, che l’Iraq si divida ufficialmente in tre parti: il nord in mano ai curdi, la parte occidentale in mano ai terroristi e ai sunniti e quella orientale agli sciiti. Ne è convinto anche il patriarca Sako, secondo cui forse «il paese manterrà un’unità simbolica, ma sarà di fatto diviso in tre zone economicamente e militarmente indipendenti». Ancora da capire è se in Iraq occidentale davvero prevarrà il califfato, oppure se avranno la meglio sui terroristi i militanti laici sunniti, un tempo sostenitori del regime di Saddam Hussein e del partito Baath, oggi temporaneamente alleati con i jihadisti.