Vita e Pensiero n.3 maggio-giugno 2016
Sulla questione dell’utero in affitto si è aperta in Europa, specialmente in Francia, una discussione che pare accettare questa opzione come scelta di libertà, se non addirittura come pratica caritativa. Ma in realtà si crea una nuova forma di schiavitù del corpo femminile.
Lucetta Scaraffìa
L’aveva scritto Jacques Ellul ormai decenni fa: le novità tecno-scientifiche che vengono rifiutate per motivi etici al loro primo comparire vengono poi immancabilmente accettate cinque anni dopo. Così sta succedendo per l’utero in affitto, o in qualunque altro modo si voglia chiamare l’affidare la gravidanza a una donna che fornisce questo servizio a una coppia – etero o omosessuale – che poi alleverà il bambino come figlio. I casi inizialmente rari si stanno moltiplicando, il mercato si sta strutturando con agenzie specializzate che forniscono ogni servizio necessario.
Davanti a questo espandersi della questione, e alla conseguente tendenza dei sistemi giuridici di molti Paesi coinvolti anche solo marginalmente in questo commercio ad accettare il fatto compiuto per “il bene del bambino”, si è aperta in Europa un’ampia discussione. Ma solo in Europa, perché negli Stati Uniti la pratica è da qualche anno largamente prevista e tutelata, in un certo senso, dalla legge di molti Stati, e non sembra avere suscitato un così largo e vivace dibattito.
Questa differenza rispetto, ad esempio, alla Francia – il Paese europeo in cui il dibattito è stato più seriamente approfondito – si spiega in primo luogo con l’enfasi sulla libertà individuale caratteristica della tradizione americana. Una libertà che si è facilmente estesa a consentire alle donne quella che sembra essere semplicemente una ulteriore declinazione della libertà di disporre del proprio corpo.
Ma una differenza esiste anche rispetto a Paesi come il Canada o la Gran Bretagna – che ha cercato di risolvere il problema etico acconsentendo solo alla surrogazione gratuita – e come l’Italia, dove si calcola che i nati in questo modo (provenienti da altri Paesi) siano un centinaio all’anno, e dove in assenza di una legislazione permissiva sono i tribunali a sancirne di fatto la possibilità a forza di sentenze che si basano sul dovere di “proteggere il bambino” già nato.
Si tende spesso, almeno in Italia, a farne solo una questione di diritto – per il nostro codice la madre è colei che partorisce il figlio – per cui ci sarebbero ostacoli legali al riconoscimento della figura sia di madre surrogata sia di colei che crescerà il bambino. E alcuni vedono in questo ostacolo – e non hanno tutti i torti, naturalmente – il segno dell’invecchiamento e della conseguente rigidità del nostro codice. Ormai l’antico pregiudizio che la madre sia sempre certa, e che sia una sola e inoppugnabile, è caduto sotto i colpi della maternità ottenuta tramite ovulo di un’altra donna, e l’affitto dell’utero di una terza sarebbe solo un’altra modalità da prendere in considerazione.
Oppure si considera questa opzione solamente come una delle tante possibilità che le biotecnologie consentono, negandone ogni altro aspetto etico e psicologico. Se fosse così, chi si oppone sarebbe solamente il solito nemico del nuovo, timoroso di ogni passo avanti verso la libertà e la felicità dell’essere umano. L’affitto dell’utero rientrerebbe, così, in un nuovo spazio di libertà: per la donna, che affitta il suo corpo, libera di ottenere un po’ di soldi con una fatica in un certo senso modesta, e per coloro che, per i più svariati motivi, non possono o non vogliono procreare nel modo tradizionale.
Per alcune femministe sarebbe solo un ulteriore spazio di libertà, conseguenza inevitabile del percorso che – attraverso la legalizzazione dell’aborto, la diffusione degli anticoncezionali e la possibilità di rinuncia a occuparsi del neonato – ha portato le donne a recidere il legame considerato naturale con la maternità. Si ripete che ci sono donne che in questo modo si comprano una casa, salvano dalla rovina economica una famiglia, si garantiscono una vecchiaia sicura, o pagano gli studi dei figli. Ma non ci si accorge che così il corpo della donna torna a essere oggetto di sfruttamento per il bene degli altri: è una storia già sentita, e che si sperava fosse finita per sempre.
E invece le prostitute (in grandissima parte costrette, magari anche dalle famiglie) continuano a guadagnare umiliando il loro corpo, giovani donne affrontano gravi disagi di salute spesso irreversibili per produrre e vendere ovuli, in un certo senso prendendo il posto delle balie che una volta, prima del latte in polvere, rinunciavano ad allattare il loro figlio – che sarebbe cresciuto, se sopravviveva, come poteva – per nutrire quello di un ricco.
E’ in atto il tentativo di far sembrare normale o perfino positiva la gravidanza surrogata: sono state pubblicate sui settimanali di importanti quotidiani inchieste realizzate in Paesi poveri dove le donne affittano l’utero, come l’India, nelle quali queste madri surrogate apparivano eleganti, luminose, felici di avere la possibilità di guadagnare qualcosa e di vivere, almeno per il periodo della gravidanza, in ambienti puliti e sostenute da una dieta equilibrata.
Una specie di pubblicità nascosta, ai fini dell’approvazione di una legge a favore di questa pratica, che non andava a fondo dei disagi ai quali queste donne devono far fronte, come quello di vivere per mesi separate dalla loro famiglia (per evitare malattie al feto), prive della loro libertà. Gli intervistatori non facevano nulla per capire se la decisione era stata da loro presa liberamente, o se erano state in un certo senso “vendute” dalla famiglia, che con opportune pressioni aveva ottenuto il loro consenso.
Ma soprattutto nessuno di loro ha osato chiedere a queste donne gravide che rapporto avevano con il bambino che cresceva loro dentro, con quell’essere che poi avrebbe riconosciuto la loro voce in mezzo a migliaia di altre con un sussulto del cuore, che viveva al ritmo del battito del loro cuore: voce e ritmo che non avrebbe mai più ritrovato dopo la nascita. Il problema non è solo quello, evidente, dello sfruttamento di donne povere e deboli, della creazione di una nuova forma di schiavitù del corpo femminile. Il problema di fondo sussiste anche nei casi (fortemente improbabili, ma non impossibili) di donazione gratuita.
Un problema che si presenterà in modo più crudo quando – si dice fra non molti anni – sarà messa a punto la possibilità dell’utero artificiale. E riguarda la questione basilare, cioè il significato della maternità per la costruzione dell’identità femminile. Una questione che ci costringe a mettere il dito sulla vera piaga: l’emancipazione femminile è in forte misura avvenuta al costo della rinuncia, o almeno di un forte ridimensionamento, della maternità nella vita delle donne, tanto da fare di molte di loro “un uomo come un altro”.
L’utero in affitto ne accentua questa dimensione mascolinizzata, dal momento che riduce la gravidanza a un servizio materiale, una prestazione fisica, cancellando il suo aspetto costitutivo, cioè quello di profonda relazione umana che si costruisce fra una donna e il figlio con una intensità che non ha rivali. Si chiede a una donna di rimanere estranea a ciò che succede nel suo corpo, le si chiede di non ascoltarlo, di interrompere il dialogo con il bambino che porta in grembo, di rescindere il legame misterioso e forte che si crea durante la gravidanza. E, se l’umanità dell’essere si trova proprio nell’ascolto, nel dialogo, se la sensazione profonda di essere amati è la prima e più necessaria esperienza per un essere umano, che ne sarà di questi figli ordinati e fabbricati come un oggetto?
Il bambino non è più frutto di un incontro fra esseri umani, non si sviluppa all’interno di una relazione affettiva con la donna che lo porta in grembo, ma viene ordinato e fabbricato come se fosse un prodotto di mercato. Il desiderio (in questo caso di figlio) non basta, perché al centro di ogni desiderio c’è sempre la relazione con l’altro, che qui viene ridotta a prestazione su richiesta.
Molti a queste obiezioni rispondono che la realtà è meno poetica, che ci sono donne che non amano la creatura che cresce in loro, che abortiscono o la rifiutano appena nata: lo sappiamo tutti, come sappiamo che i bambini adottati non riconosceranno mai la voce che hanno sentito quando si formavano nell’utero, ma questo è un male al quale, con l’adozione, si cerca di porre rimedio. Molto diverso è creare volontariamente una situazione negativa, programmare un bambino che non potrà essere come gli altri perché la madre che l’ha portato si è sentita a lui estranea, e la madre che l’ha accolto non sarà da lui riconosciuta se non con fatica.
Bisogna confutare l’opinione sbagliata che affittare l’utero possa essere considerata una pratica caritativa, cioè che significa venire in aiuto a persone che desiderano un figlio e non possono averlo: si sa bene che, se questa pratica viene accettata come normale – e se quindi si può fabbricare un figlio a richiesta – non sarà possibile confinarla a pochi casi pietosi, ma vi potranno ricorrere donne che hanno troppi impegni, magari per non compromettere la loro carriera, donne in menopausa, oltre ovviamente alle coppie gay. Non si devono ridurre le donne a strumenti viventi, destinati a esaudire desideri degli altri.
Quel che resta del femminismo italiano si è spaccato sulla questione, producendo analisi di modesta portata ma di tenore differente. Perfino il mondo cattolico, nelle sue élite decisamente contrario alla gravidanza surrogata, vede qualche spaccatura al suo interno: per esempio, il Coordinamento teologhe, associazione femminista progressista, lascia aperta la porta anche alla possibilità della maternità surrogata. Ma intanto si creano inedite alleanze: una casa editrice cattolica, ad esempio, ha pubblicato il libro recentissimo di una delle femministe italiane più note, Luisa Muraro, l’anima del corpo. Contro l’utero in affitto. Le cui argomentazioni, tuttavia, si rivelano molto diverse da quelle avanzate dal mondo cattolico, perché si muovono all’interno di un’ottica strettamente femminista.
«Qui non si tratta di proibire, si tratta di non sbagliare», afferma la filosofa, che vede in questa pratica «un attacco demolitore della relazione materna», cioè di quella relazione che «ha dato un’impronta di civiltà alla convivenza umana». Muraro risponde alle femministe scese in campo a difesa della libera scelta ribadendo che qui invece si tratta «di subordinare la fecondità a un progetto di altri». Non accetta pertanto di equiparare l’affitto dell’utero alla battaglia di libertà capostipite di ogni rivolta femminista, quella per la legalizzazione dell’aborto.
Ma in complesso non c’è stato, in realtà, in Italia niente di paragonabile al livello del dibattito francese, guidato con mano ferma da una filosofa di primo piano come Sylviane Agacinski. Si assiste tuttavia a un rinnovamento sostanziale del dibattito politico, a un rimescolamento degli schieramenti – in Italia anche i grillini sembrano contrari a questa pratica – che non può non portare a un esame di coscienza sulle scelte del recente passato: come ha potuto un movimento che combatteva per la liberazione della donna contribuire alla nascita di una nuova forma di schiavitù femminile?
Si tratta di una questione ineludibile, che coinvolge nodi fondamentali, come la definizione dei diritti umani e soprattutto i limiti alla libertà di mercato.
Ci sono due caratteristiche di questa operazione che rivelano che si tratta, anche se gratuita, della fabbricazione di un prodotto e non di un legame umano profondo: il fatto che quasi sempre – praticamente non esistono eccezioni – l’ovulo utilizzato per il concepimento non è quello della madre surrogata e, naturalmente, neppure della madre che alleverà il bambino, ma di una terza donna che ha venduto i suoi ovuli. In questo modo, ci si assicura che il legame fra la gravida e il neonato sia meno stretto.
E in sostanza che la figura materna, tripartita (la donatrice di ovulo, quella che affitta l’utero, la donna che ha desiderato il figlio), perda la sua forza reale e simbolica. Inoltre, il contratto proposto alla donna che si offre come madre surrogata prima del concepimento prevede che, in caso di malattia o disabilità del feto, sia disposta ad abortire secondo l’intenzione del genitore che “acquista”.
Queste due clausole rendono evidente innanzitutto la sfiducia verso la donna surrogata, il sospetto per un suo possibile coinvolgimento personale che potrebbe interferire con le intenzioni di chi ha “ordinato” il figlio, e cancellano dal rapporto ogni traccia di umanità. Quell’umanità, quella generosità che sarebbe invece supposta essere alla base dell’affitto gratuito, se lo si vuole considerare un atto generoso per aiutare chi non può avere figli. È inutile mascherare questa operazione dietro parole che vorrebbero “umanizzarla”. Si tratta di una compravendita, si considera il figlio come un prodotto da scegliere e ordinare come a un supermercato, dimenticando volutamente ogni caratteristica umana di questo legame. Bisogna leggere questo problema anche alla luce del prossimo futuro, che può riservare la scoperta dell’utero artificiale: forse si stanno solo facendo le prove generali per una definitiva disumanizzazione.
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Lucetta Scaraffìa insegna Storia contemporanea presso l’Università “La Sapienza” di Roma, è editorialista de «L’Osservatore Romano», di cui cura l’inserto mensile “Donne, Chiesa, mondo” e collabora con varie testate. Si è specializzata in storia delle donne, con particolare attenzione alla religiosità femminile e ai rapporti fra la società occidentale e l’islam. Con Vita e Pensiero ha pubblicato La santa degli impossibili. Rita da Cascia tra devozione e atte contemporanea (2014) e curato il volume Donne, chiesa, teologia (2015).