Intervista a Valentí Miserachs Grau, presidente del Pontificio Istituto di musica sacra
Monsignor Miserachs Grau, musicista spagnolo, è Presidente del Pontificio Istituto di Musica Sacra dal 1995, nonché Canonico e Maestro di cappella della Basilica di Santa Maria Maggiore di Roma. Miserachs, nato nella località catalana di Sant Martí de Sesgueioles ha composto più di 2.000 opere. Tra le onorificenze conferitegli figurano la Encomienda de Alfonso X el Sabio e la croce “Pro piis meritis” dell’Ordine di Malta. ZENIT lo ha intervistato nella sede del Pontificio Istituto di Musica Sacra per comprendere cosa sia successo al canto gregoriano e come sia possibile recuperarlo.
In una giornata dedicata al canto gregoriano, che si è svolta in Vaticano, il suo appello al recupero di questa forma liturgica è stato molto apprezzato. Significa che esiste un consenso per procedere in questa direzione?
A mio avviso significa che vi è un’opinione generalizzata che esprime l’esigenza di recuperare l’uso del latino e del canto gregoriano, che è un canto proprio della Chiesa. Il canto gregoriano è stato abbandonato e lasciato ai concerti e ai compact disc, mentre il suo ruolo precipuo era ed è nella liturgia.
Non le sembra giusto che nel contesto del XXI secolo la musica della Chiesa non sia solo quella del canto gregoriano?
Io credo che i nuovi generi musicali, nella gran parte dei casi, non hanno saputo o non hanno potuto affermarsi come tradizione irrinunciabile della Chiesa, procurando così un impoverimento generale. A me risulta incomprensibile il fatto che, soprattutto nei Paesi latini, negli ultimi quarant’anni siano stati messi da parte sia l’uso del latino sia il canto gregoriano. Il latino e il canto gregoriano, pur parte integrante della tradizione, sono stati tagliati fuori.
È come se avessero tagliato via le radici, ora che si parla tanto di radici. Con l’abbandono del canto gregoriano si sono create le condizioni per il proliferare di nuovi prodotti musicali che molte volte non hanno la qualità tecnica sufficiente. Quando ce l’hanno possono ben stare accanto al canto gregoriano, perché no?
Perché non viene valorizzata la capacità dei fedeli di imparare le melodie in latino?
Si è pensato che erano incapaci di farlo, ma questo è falso. La gente prima sapeva cantare in latino i canti fondamentali, mentre oggi sembra che ci si stia impegnando per disimparare ciò che già si conosceva. Ovviamente non è possibile riproporre l’intero repertorio che consta di 5.000 brani. In materia di canto liturgico il popolo non può essere l’unico protagonista: è necessario rispettare l’ordine delle cose in cui i fedeli cantano ciò che devono cantare e il resto spetta alla “schola”, al cantore, al salmista ed chiaramente al celebrante.
Per rilanciare il canto gregoriano in assemblea, si può iniziare ricordando il “Padre Nostro”, il “Kyrie”, il “Sanctus” e “l’Agnus Dei”. I fedeli, se vengono invitati e gli si dà lo spartito, con qualche esercitazione sono perfettamente in grado di seguire e cantare le melodie gregoriane semplici, anche se fosse la prima volta che le sentono. Così come si impara a cantare il repertorio gregoriano è possibile imparare i canti nelle lingue correnti, ovviamente quelli che siano degni di essere affiancati al repertorio gregoriano.
Secondo lei viene dedicata sufficiente attenzione alla musica sacra nella Chiesa?
No. Peraltro da molto tempo si sta insistendo su questo punto. Il nostro Istituto fa il suo lavoro, ma è un’istituzione accademica, non normativa e non ha competenza in questo senso. Occorrerebbe la supervisione diretta di un ente del Vaticano sulla musica sacra; è una necessità. Giovanni Paolo II ha ricordato che l’aspetto musicale delle celebrazioni liturgiche non può lasciare spazio ad imporovvisazione o al libero arbitrio delle singole persone, ma deve affidarsi ad una direzione concertata e al rispetto delle norme. Siamo in attesa di indicazioni ufficiali e questo compete alla Chiesa di Roma, alla Santa Sede.