La Nuova Bussola quotidiana 17 Ottobre 2017
Antonio Livi
Come tutti i cattolici sensibili ai problemi teologici e pastorali del tempo che stiamo vivendo, io ho esultato alla pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, che ritengo uno dei maggiori meriti ecclesiali del grande Pontefice san Giovanni Paolo II. Come il Catechismus ex decreto Concilii Tridentini ad parochos fu voluto dal Papa san Pio V per realizzare la riforma cattolica voluta dal Concilio di Trento, così questo moderno catechismo universale realizzato doveva servire a fornire al popolo cristiano a una ben precisa nozione della fede cattolica, al di là delle interpretazioni parziali (anche se ortodosse) e soprattutto contro le interpretazioni abusive (e quindi eterodosse) del Concilio Vaticano II.
Già prima che san Giovanni Paolo II prendesse quella storica decisione io mi occupavo dei problemi della catechesi sorti a seguito di quel “disorientamento pastorale” che si era verificato già nei decenni successivi alla conclusione del Vaticano II e che attualmente assume dimensioni innegabilmente drammatiche (cfr la mia Introduzione teologica al volume di D. Quinto, Disorientamento pastorale, Leonardo da Vinci, Roma 2016).
Molti catechismi nazionali (soprattutto quello noto come Catechismo Olandese) stavano provocando un disorientamento ancora maggiore. Collaborai con il filosofo e teologo salesiano Franco Amerio per recuperare le parti sempre attuali del Catechismo Romano, realizzato dopo il Concilio di Trento, e per rieditare, aggiornato e commentato, il suo Nuovo Catechismo antico (pubblicato nel 1971, con lo pseudonimo di Franco della Fiore, dalla Sei) con il nuovo titolo di La dottrina della fede: dogma, morale, spiritualità (Ares, Milano 1982).
Poi, una volta iniziati i lavori per la preparazione de Catechismo della Chiesa Cattolica, potei seguire la fatica del principale redattore italiano, l’amico don Sandro Maggiolini, che aveva ospitato i miei articoli sulla Rivista del Clero Italiano ed era divenuto Vescovo di Como. Infine, grande è stata la mia gioia quando il presidente del Pontifico consiglio per la nuova evangelizzazione, l’arcivescovo Rino Fisichella (con il quale ho avuto una proficua collaborazione accademica quando era il rettore dell’Università Lateranense e io ero membro del Senato accademico in quanto decano della facoltà di Filosofia) ha presentato un’edizione speciale del Catechismo della Chiesa Cattolica a venticinque anni dalla sua pubblicazione.
Gioia che poi è venuta meno quando ho appreso che tra i commentatori dell’edizione speciale figura quell’Enzo Bianchi al quale non riconosco alcuna competenza autenticamente teologica, mentre mi è purtroppo ben nota la sua militanza nelle file del progressismo riformista e antidogmatico. Ma ancora più preoccupante, ai fini del ri-orientamento del popolo cattolico alle fonti della fede, è la riduzione che papa Francesco – per come il suo discorso è stato riferito dai media – ha fatto del Catechismo della Chiesa Cattolica a documento storico di un mutamento dottrinale perennemente “in progress”.
Il Papa ha citato infatti, delle tante considerazioni fatte da san Giovanni Paolo II a proposito del valore orientativo del Catechismo della Chiesa Cattolica, soltanto quelle riguardanti i cambiamenti, come quando scriveva che «esso deve tener conto delle esplicitazioni della dottrina che nel corso dei tempi lo Spirito Santo ha suggerito alla Chiesa. E’ necessario inoltre che aiuti a illuminare con la luce della fede le situazioni nuove e i problemi che nel passato non erano ancora emersi» (Cost. ap. Fidei depositum, n. 3).
E’ chiaro che, parlando di insegnamenti della Chiesa che servono a «illuminare con la luce della fede le situazioni nuove e i problemi che nel passato non erano ancora emersi», papa Wojtyla si riferiva, non al nucleo fondamentale della dottrina della fede – che riguarda i misteri della Trinità e dell’Incarnazione, e quindi la funzione santificante dei Sacramenti – ma alle sue applicazioni alla vita del singolo fedele e della comunità cristiana. Queste applicazioni – morali, liturgiche e pastorali – sono logicamente relative ai mutamenti storici, e quindi sono soggette a riforme della teologia morale e del diritto canonico che mirano a sostituire norme del passato con altre più valide, o a introdurre una normativo del tutto nuova.
Invece, le verità dogmatiche sono di per sé irreformabili, ed è proprio per questo che la Chiesa le enuncia attraverso le cosiddette “definizioni” o “formule dogmatiche”, che non possono essere cambiate e tanto meno contraddette: e non per “conservatorismo”, ma per pura e semplice logica, perché non possono esserci valide ragioni per cambiare una verità che la Chiesa ha accertato una volta per sempre come rivelata da Dio (gradualmente) per mezzo dei Profeti e poi (definitivamente) per mezzo del Figlio. L’immutabilità del dogma è il principio logico che regge tutta la funzione magisteriale della Chiesa e in base ad essa si giustifica la stessa autorità del Papa come supremo Maestro della fede per tutti i cristiani.
Il Vaticano II lo ha confermato nella costituzione dogmatica Dei Verbum, e papa Paolo VI ha precisato (nell’enciclica Mysterium fidei, a proposito del termine “transustanziazione”) che perfino il linguaggio delle definizioni dogmatiche deve essere sempre mantenuto, perché ad esso è legato il significato e il senso della verità rivelata. Invece papa Bergoglio dice che il Catechismo della Chiesa Cattolica «costituisce uno strumento importante non solo perché presenta ai credenti l’insegnamento di sempre in modo da crescere nella comprensione della fede, ma anche e soprattutto perché intende avvicinare i nostri contemporanei, con le loro nuove e diverse problematiche, alla Chiesa, impegnata a presentare la fede come la risposta significativa per l’esistenza umana in questo particolare momento storico.
Non è sufficiente, quindi, trovare un linguaggio nuovo per dire la fede di sempre; è necessario e urgente che, dinanzi alle nuove sfide e prospettive che si aprono per l’umanità, la Chiesa possa esprimere le novità del Vangelo di Cristo che, pur racchiuse nella Parola di Dio, non sono ancora venute alla luce». E fa questo discorso per annunciare la sua decisone di correggere ciò che il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna sul tema della pena di morte.
Già Tommaso Scandroglio e altri sulla Nuova BQ ne hanno parlato, ma io voglio tornare sull’argomento, non per insistere ancora sul principio etico-politico della possibile liceità della pena di morte ma per raccomandare ai nostri lettori di non interpretare l’intervento del Papa come se egli avesse voluto ridimensionare la portata pastorale del Catechismo della Chiesa Cattolica, trasformando – in netta discontinuità con le indicazioni pastorali di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI – quello che doveva essere un punto di riferimento chiaro e inequivocabile della fede della Chiesa in un cantiere aperto di continui aggiornamenti e riforme.
Mi hanno chiesto: ma il Papa attuale può cambiare il Catechismo della Chiesa Cattolica? Rispondo: certamente lo può fare, se ritiene che sia utile alla Chiesa. Su questo, stando proprio a ciò che insegna la Chiesa circa i poteri del Papa, non c’è discussione. Se però qualcuno mi chiede se, in questo momento storico, sarebbe davvero utile alla Chiesa cambiare il Catechismo della Chiesa Cattolica, io rispondo che non mi sembra utile, anzi mi sembra proprio dannoso. Prima di continuare, premetto, a scanso di equivoci (che però ci saranno, perché non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire), che io non ho ovviamente nulla da obiettare riguardo alle decisioni che il Papa prenderà per modificare il testo del Catechismo della Chiesa Cattolica.
In materie del genere, i cambiamenti della catechesi ufficiale rientrano nel novero delle sue sovrane e insindacabili decisioni di governo; teologicamente parlando, sono «scelte prudenziali» del papa, che solo Dio può sapere se sono assolutamente giuste e necessarie, ossia se sono fatte con il dovuto amore per la Chiesa e la dovuta prudenza pastorale. Ma, date le odierne circostanze pastorali cui accennavo (il gravissimo e crescente disorientamento dottrinale tra i fedeli di ogni parte del mondo), ci si può (forse si deve) rivolgere all’opinione pubblica cattolica dicendo chiaramente che le eventuali modifiche del Catechismo della Chiesa Cattolica annunciate dal papa non cambiano la dottrina dogmatica e morale della Chiesa. Non la cambiano, né abolendo una delle verità già definite come divinamente rivelate (ciò infatti costituirebbe proprio un’impossibile eresia da parte del Papa), né sviluppandola in modo coerente ed omogeneo.
L’inserimento di una precisazione in merito all’assoluta esclusione della pena di morte dai codici penali degli stati di tutto il mondo non può essere considerata come un atto del magistero pontificio che in qualche modo si inserisca nel processo dottrinale che il domenicano spagnolo Francisco Marín Sola denominava giustamente «evolución homogénea del dogma católico». Riguarda piuttosto la prassi pastorale della Chiesa, e si inserisce in una strategia comunicativa che papa Francesco adotta fin dall’inizio del suo pontificato. Si tratta di una delle tante indicazioni morali (quella che gli americani chiamano “public ethics”) che il Papa rivolge alle istituzioni statuali e alle organizzazioni internazionali (Onu, Fao, Unesco, Ue) mostrando, da una parte, la piena condivisione delle loro stesse strategie politiche ed esprimendole con il linguaggio e le categorie ideologiche della “neue politische Theologie” (Johan Baptist Metz) e della “Weltethik” (Hans Küng).
Ora, se non mi permetto di criticare questa strategia pastorale del Papa, mi sento però in dovere di mettere i guardia i fedeli dal linguaggio ambiguo e dalle ragioni solo apparentemente teologiche che papa Francesco adotta per spiegare o per giustificare certe iniziative. A cominciare dal fatto di dire che tali direttive socio-politiche sono emanate in nome del Vangelo, derivano dal Vangelo, sono ispirate direttamente dallo Spirito Santo, tanto che opporsi ad esse è come rinnegare il fatto di essere cristiani.
Qui due cose vanno chiarite (non al Papa, che è il supremo maestro della fede e al quale io non devo insegnare nulla, ma ai miei lettori):
1) La prima è che il Vangelo è una cosa ben precisa: è la divina rivelazione, nelle sue forme storiche di trasmissione (la Tradizione e la Scrittura), e coincide con il dogma cattolico, come insegna solennemente il Vaticano II nella Dei Verbum; non si può quindi far ricorso a un Vangelo inventato, come fanno il cardinale Walter Kasper e tanti altri (ad esempio Enzo Bianchi) per conferire dignità di rivelazione pubblica alla loro privatissima opinione su Cristo (del quale si ostinano a negare la divinità, che pure è proclamata nel Credo) e sulla Madonna (alla quale negano il titolo di Madre di Dio, che pure è stato decretato dal Concilio di Efeso);
2) La seconda è che lo Spirito Santo è inviato da Gesù e dal Padre per ricordare ai fedeli ciò che Gesù ha insegnato e non a introdurre nel «depositum fidei» qualcosa di nuovo o di contrario a quello che Gesù ha detto.
Detto questo, è evidente che ingenera confusione parlare del Vangelo per escludere tassativamente la pena di morte come misura di giustizia prevista da un ordinamento giudiziario di uno Stato. Anzi, a ben vedere, i Vangeli contengono molti discorsi di Gesù nei quali Egli parla del potere civile e delle sue prerogative, anche giudiziarie, senza condannarne alcune come contrarie ai comandamenti di Dio. C’è poi un passo della Lettera ai Romani dove si legge. «I governanti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male» (13, 3-4).
Mi si obietterà: ma il Papa esige che il potere politico non si limiti alla giustizia e pratichi anche la misericordia. Ora, questo – come atto di magistero pontificio – può essere logico se si tratta in particolare dell’esercizio del potere temporale da parte della Santa Sede (lo Stato Pontificio prima, lo stato della Città del Vaticano oggi), la cui autorità, che è appunto il Papa, deve necessariamente attenersi alla morale evangelica oltre che alla morale naturale nello stabilire e nell’applicare le norme di diritto penale. In questo senso non desta meraviglia che papa Francesco dica: «Purtroppo, anche nello Stato Pontificio si è fatto ricorso a questo estremo e disumano rimedio, trascurando il primato della misericordia sulla giustizia», anche se non sembra rispettoso e caritatevole nei confronti dei Papi che l’hanno preceduto condannarli tutti senza appello per aver avuto «una mentalità più legalistica che cristiana», aggiungendo poi che «la preoccupazione di conservare integri i poteri e le ricchezze materiali aveva portato a sovrastimare il valore della legge, impedendo di andare in profondità nella comprensione del Vangelo».
Non è invece logico esigere che il potere politico non si limiti alla giustizia e pratichi anche la misericordia quando si tratta dell’esercizio del potere temporale da parte di uno Stato sovrano, la cui “laicità” la Chiesa, soprattutto dopo il Vaticano II, ha voluto riconoscere e rispettare. Uno Stato laico (cioè non confessionale e non governato dal Vaticano, nemmeno indirettamente) non ha il dovere costituzionale di esercitare la misericordia evangelica, perché questa misericordia è un dovere della coscienza dei singoli cristiani, come soggetti morali: e lo Stato non è un soggetto morale, ma è solo l’ordinamento giuridico con il quale la società civile organizza l’esercizio del potere legislativo, giudiziario ed esecutivo in vista del bene comune. E tale organizzazione ha come sola regola l’adeguazione alla legge morale naturale, in base alla quale hanno validità le leggi positive, finalizzate sempre al mantenimento delle condizioni essenziali per il bene comune (difesa dal nemico esterno, difesa dai nemici interni, concordia ed equità sociale).
Se talvolta lo Stato ritiene che tali obiettivi siano garantiti anche da misure di grazia (indulto, amnistia, annullamento o commutazione delle pene più pesanti), ciò non è la conseguenza dell’intervento di un’autorità religiosa, ad esempio la Santa Sede, ma si giustifica esclusivamente in base a ragioni di ordine filosofico-giuridico (vedi Vittorio Mathieu, Perché punire. Il collasso della giustizia penale, Liberlibri, Macerata 2008).
Anche in Italia il dicastero statale che deve occuparsi dell’amministrazione della giustizia è denominato “Ministero di Grazia e Giustizia”. Ora, nell’amministrare la giustizia, uno Stato laico può cambiare le proprie leggi, tramite riforme votate dal Parlamento o con l’intervento della Corte costituzionale, sulla spinta dell’opinione pubblica, ossia di una diversa mentalità comune che ritiene – è il caso della pena di morte – che la difesa della comunità nei confronti degli aggressori interni (assassini, stupratori, rivoltosi, mafiosi, terroristi eccetera) possa essere garantita anche senza l’istituto della pena di morte (vedi in proposito, il volume Giustizia e verità in democrazia, a cura di Giovanni Covino, Leonardo da Vinci, Roma 2017).
Ma questo nuovo “senso morale” rilevabile nell’opinione pubblica mondiale o di certe aree geopolitiche non è (formalmente almeno) il risultato di una nuova comprensione del Vangelo ma deriva dall’evoluzione della cultura illuministica che già nel Settecento, con il trattato Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, aveva criticato la tortura e l’eccessiva ricorso alla pena capitale. Insomma, l’abolizione della pena di morte non è richiesta dall’opinione pubblica in nome del Vangelo sic e simpliciter ma in nome di molti principi di giustizia distributiva che uniscono allo spirito del diritto romano anche il giusnaturalismo moderno e la filosofia politica di Rosmini e di Maritain.
Sorprende quindi che adesso sia proprio il Papa ad appellarsi, nei confronti dei poteri civili, non ai fondamenti del diritto naturale ma all’opinione pubblica (la “political correctness”), che può essere vista con simpatia dal magistero pontificio in questo specifico argomento ma non può essere invece assecondata in altri argomenti affini, come la legislazione permissiva sull’aborto, sull’eutanasia sul cosiddetto “suicidio assistito”.