Litterae Communionis Anno VII – n.12 Dicembre 1980
Cercate ogni giorno il volto dei santi… 14 dicembre Giovanni della Croce
di Germana Jannaccone
«Fede e amore ti condurranno, per vie sconosciute e misteriose, sino al nascondiglio di Dio».
Giovanni della Croce si è immerso, in forza di una specialissima vocazione divina, in un mondo terso e oscuro che per l’uomo d’oggi è ostico e sconosciuto.
L’uomo d’oggi è troppo disattento per poter ammirare convenientemente le confidenze di questo grande Poeta dell’amore e del dolore e per entrare nelle sue vedute, specialmente se queste fanno risaltare la grandezza sconfinata di Dio e la nostra pochezza.
Giovanni «si libra come un’aquila nella solitudine della sua esperienza di Dio e soltanto da lì si genera la sua egualmente solitaria opera d’arte» (Balthasar). Eppure ciò che lui vive è semplicemente ciò che viene predicato nella Chiesa, presupposto dalla Chiesa. L’intera sua vita, la sua opera è trapassata da una inesorabile frantumazione di ogni verità che non sia Dio.
La sua novità è la descrizione dell’esperienza di Dio: perché Dio può comunicarsi anche in forma misteriosa e inconsapevole, senza che l’anima se ne avveda. Giovanni è un’anima assorta in una grande vicenda interiore, contemplativo per carisma e per temperamento.
Più di una volta lo si è chiamato il Dottore del «nulla», ma non c’è titolo più sbagliato per lui che è il Dottore «dell’Amore», dove l’amore va inteso in tutta la sua più terribile e profonda esigenza. Ed è comunque vero che il rigore con cui si dedica a questo solo esercizio gli conferisce una fisionomia inconfondibile.
«Verità è che dobbiamo stare a quanto ci ha insegnato Cristo, e che il resto è niente». Ciò che conta, per Giovanni, è il giocare tutta la vita per Dio, puntando sulla sola carta della fede, e chi sente la vita come rischio non può non provare una acuta affinità con le inquietudini del Santo. «Ma cosa mai va cercando? Cosa crede sia servire Dio… se non vivere con fede oscura e vera, con speranza certa e con carità?» (Lett. a Giovanna de Pedraza).
Vita e personalità
Nasce a Fontiveros, villaggio di Avila, nel 1542, da modesta famiglia. Terra di Castiglia, terra di santi che invita alla preghiera. E nelle poesie il paesaggio ha l’aspetto di una esperienza personale. Non è mai qualcosa che lui ha semplicemente visto bensì qualcosa in cui si è imbattuto, come un’avventura, come un incontro.
Il padre muore presto e la madre, Catalina Alvarez, resta con tre figli piccoli per i quali andrà a chiedere aiuto di porta in porta. Giovanni tenta vari mestieri senza rivelare alcuna particolare capacità. La sua adolescenza ha per ambiente un orfanotrofio, la sua giovinezza l’Ospedale di Medina del Campo, addetto agli infermi cronici presso i quali ha modo di esercitare una generosità enorme.
E’ una giovinezza, la sua, fatta di stenti, di povertà, di lotta quotidiana dura e umiliante. Quando dovrà spiegare cosa intende per «povertà spirituale», la definirà situazione del mendicante di Dio, del pellegrino che ha percorso lunghe strade senza accumulare nulla, vivendo alla giornata, distribuendo istante per istante l’elemosina che riceve.
Dai 17 ai 21 anni frequenta un corso di lettere umaniste nel Collegio dei Gesuiti dove matura la vocazione religiosa. Nel 1563 entra nel Carmelo di Medina, prende l’abito col nome di Giovanni di S. Mattia e va a Salamanca per compiere gli studi teologici.
Celebre l’Università di Salamanca di quel tempo, e il giovane frate è pienamente all’altezza di quegli studi profondi e severi. Nel 1567 è ordinato sacerdote, un anno dopo incontra Teresa d’Avila e dà inizio, a Durvelo, alla Riforma dei Carmeli, così detti dell’Antica Osservanza, insieme ad altri due religiosi: cambia il nome di religione in Giovanni della Croce.
La Riforma teresiana scatena una violenta campagna denigratoria da parte dei carmelitani che non accettavano la nuova impostazione (saranno detti «Calzati» in contrapposizione agli «Scalzi» riformati).
Giovanni è la vittima di questa persecuzione: catturato segretamente viene incarcerato per 9 mesi, nel Convento di Toledo. Fugge dal carcere in modo avventuroso e si rifugia in Andalusia. Riprende la vita di riformatore, di educatore e di superiore. Nel 1591 (Teresa è già morta), al Capitolo generale degli Scalzi riformati, si oppone fermamente al Padre Doria e questa opposizione gli frutta la rimozione da ogni carica nell’Ordine. Così, dopo 22 anni di riforma, è ridotto in solitudine.
Ammalatosi, sceglie di ritirarsi nel Carmelo di Ubeda perché il Priore, per vecchi rancori, gli è ostile. Muore il 14 dicembre 1591, a 49 anni, dopo una malattia breve ma dolorosa. Il corpo sarà traslato nel Convento di Segovia, dopo 2 anni.
Nel 1926 Pio XI lo ha proclamato dottore della Chiesa universale, confermando ciò che di fatto Giovanni era già per tante persone seriamente impegnate nella ricerca del mistero di Dio e dell’uomo. Recentemente il card. Koenig ha affermato che «non sono pochi gli uomini del nostro tempo che vedono nell’opera di S. Giovanni della Croce una concezione della fede capace di illuminare la più profonda esperienza dell’uomo contemporaneo».
Il capolavoro di Giovanni della Croce sono le poesie. Tra di esse spicca il Trittico: le 8 strofe che intitola una volta «La Salita al Monte Carmelo» e successivamente «La notte oscura», il «Cantico Spirituale» (la più lunga: 40 strofe), la «Fiamma viva d’Amore». Questi tre poemi furono da lui stesso commentati, su richiesta di altri, per tentare di comunicare l’esperienza della sua vita di fede che aveva cercato di esprimere poeticamente.
Altre poesie, pure assai belle, non sono state commentate. Il Santo è considerato il vertice della lirica spagnola, anche se, rinunciando all’estetica, tenta di esprimere il mistero di Dio e il mistero dell’uomo afferrato dall’amore di Dio. Proprio di Giovanni della Croce è la descrizione dell’esperienza di Dio. Esiste un’esperienza di Dio propria di ogni cristiano che vive il suo battesimo; quella di Giovanni della Croce è esperienza più intima e più profonda.
Il termine «esperienza» non deve intendersi in senso soggettivistico. Non c’è esperienza più oggettiva. Ne è una conferma il costante riferimento alla Sacra Scrittura: «Non voglio asserire nulla da me stesso, costruendo solo su ciò che ho sperimentato … Mi voglio fondare sui passi della Scrittura che confermano e illuminano ciò che dico, e in tutto mi sottometto incondizionatamente al giudizio della Chiesa».
Quindi la S. Scrittura e la Santa Madre Chiesa, con i suoi teologi, soprattutto Tommaso d’Aquino. Alla luce di questo concetto di esperienza possiamo capire perché Giovanni della Croce si è servito della poesia: era l’unico modo per dire qualche cosa del Mistero che gli era dato di vivere.
La stupenda avventura
Tentiamo di leggere insieme qualche cosa del grande Trittico, a partire da due strofe della «Salita-Notte». Il poema parte da una coscienza di vuoto e di solitudine, nella quale l’anima avverte di non possedere veramente una pienezza di vita propria e intuisce che la soluzione va trovata nella persona di Cristo. Il messaggio centrale è quello di Dio sottratto ad ogni brama di appropriazione, ma insieme accessibile, a chi lo cerchi.
In una tenebrosa notte arso d’amore e ansioso oh! avventura stupenda fuggivo inosservato lasciando la mia casa [addormentata.
… Non c’era alcuno nel notturno
[incanto
e non avevo guida soltanto luce secreta il cuore mi
[bruciava
luce e guida, l’amore!
Giovanni vuole vivere, per questo cerca appassionatamente Dio, disposto a tutto pur di trovarlo e di conoscerlo. E poiché Dio è aldilà di ogni immaginazione e sentimento, è deciso a percorrere la sola via possibile, quella della fede. Con i simboli della notte, tenta di esprimerla e di indicarla.
E’ l’avventura dell’amore nell’oscurità della fede che si lascia dietro tutto per approdare nel mondo divino e assoluto, che senza la minima nostalgia rinuncia a qualsiasi bene che non sia quello cui anela. Non è isolamento il suo, è la certezza che Dio solo basta e questa certezza diventa una sfida a se stesso e al mondo.
Giovanni vuole un avvenimento totalitario, e lietamente sacrifica i frammenti lungo il cammino. Il mezzo cui si attacca per uscire dall’ignoranza, dalla solitudine di una non-vita non è lo studio ma l’impegno radicale della esigenza. Egli, infatti, si muove sempre nel concreto, nella realtà.
La «stupenda avventura» della «fuga da casa» esprime il salto che la fede esige per spogliarsi di ogni «finita» figura, da qualsiasi certezza umana, per piccola che sia; è l’invito a lasciarsi plasmare dal lungo lavorio di Dio per sbarazzarci dei nostri progetti, lavoro che richiede una capacità quasi incredibile di patire e di aspettare.
Giovanni ama la poesia e la letteratura: ed entra al Carmelo dove non sarà facilitato ad approfondire la cultura. Ama gli studi di teologia: e si ritira a Durvelo senza libri né compagni con cui parlare di scienze sacre. Ama la solitudine: e si sobbarca responsabilità a non finire.
Tutto questo non gli costa, non può costargli. E’ sobrietà, non penitenza. E, infatti, Giovanni della Croce non si indurisce mai: «L’anima innamorata è un’anima dolce, mansueta, umile e paziente». Non ha detto Gesù: «Chi perderà la sua vita per me, la salverà»?
Il Santo ha guadagnato tutto e non ha perduto niente, ha semplicemente imitato Cristo, ha seguito la «vita apostolica» che crocefigge noi al mondo e il mondo a noi. Nel commento in prosa scrive che «la notte» è unicamente la vita dell’uomo evangelico sulla terra, perché i sensi dell’uomo non possono afferrare Dio e, d’altra parte, l’intelletto può pensare solo con l’aiuto dei sensi. La conoscenza chiara di Dio non appartiene alla nostra vita terrena: bisogna quindi morire o non possedere questa conoscenza.
Ma la fede ci può guidare verso cose «che non abbiamo mai veduto né compreso»: la fede, pura esperienza oscura, diventa albore che corre verso la liberazione della luce trinitaria. Il poema della «Notte» fu scritto dal Santo dopo la prigionia di Toledo. Il ricordo della sua fuga avventurosa gli serve da simbolo: per fuggire dal carcere si era fatto, con le strisce di stoffa del materasso, una corda che si rivelò troppo corta.
Sospeso sui bastioni mentre si calava dalla finestra, fu costretto a saltare sul muro di cinta, a un passo dall’abisso roccioso che precipita sul fiume Tago. Non può dimenticare quella notte che ha tanta somiglianza con il rischio del salto di fede! E non è strano quindi che i verbi più usati nelle sue poesie e nella prosa siano «appoggiarsi» e «aggrapparsi».
«Per arrivare a sapere il Tutto, non affannarti e non sapere niente. Per arrivare a ciò che non hai, devi giungere fin là dove non sei niente». Perché, chi ha paura di rischiare così «non incontrerà mai Dio». Il fondamento di una vita cristiana, infatti, è il «costante desiderio di imitare Cristo». Nella terza strofa il tema dell’amore, come sola luce e guida della fede, è più insistente. Ciò che sorregge l’oscurità della fede colmandola di certezza è l’amore.
Giovanni non concepisce neanche per un istante la fede senza l’amore: un amore che resta imperturbabile contro tutto, anche contro Dio che lo prende sul serio e lo saggia al fuoco; un amore che è realmente la Presenza di Cristo. «Tanta più fede si ha, tanto più si possiede Dio» e «chi rinuncia alle cose trova la gioia in ognuna di esse come se fossero sue … e le possiede in tutta libertà».
Il poema della «Notte» descrive così il lungo travaglio di una paurosa avventura dell’anima al termine del quale si acquisisce una somma e regale libertà di fronte ad ogni suggestione terrestre, uno stato di eminente emancipazione dagli incanti delle cose visibili e periture. Il Santo non disdegna le cose! Le guarda in modo diverso, mentre già intravvede il chiarore dell’alba.
Il possesso di tutto
Il «Cantico spirituale» è un grido erompente di amore e i più autorizzati a interpretarlo sono i grandi innamorati di Dio. Giovanni apre luci nuove e divine sul mistero di Gesù, sulla potenza trasformativa dei misteri della sua vita, fino a giungere a comprenderlo e ad amarlo come la Bellezza assoluta. La notte diventa «festa» d’amore, incontro folgorante dell’amore divino con l’amore umano.
O fede, fonte cristallina!
se i tuoi occhi per un momento
per un momento solo
davanti ai miei… aprissi!
Nel mio Amato ho i monti
le valli solitarie e ombrose,
le isole, i fiumi maestosi…
… è notte melodiosa
musica misteriosa____solitudine sonora,
la cena che conforta e innamora.
L’attrazione magnetica esercitata da Cristo sulla personalità religiosa e umana del Santo è espressa pienamente: «Se i tuoi occhi…». Stupendo quel «se», così teneramente inerme nel suo dirsi e pieno di nostalgia che ci obbliga a non poter separare la poesia del Santo dalla sua santità!
Egli rievoca il mistero cristiano, la creazione cosmica, l’esperienza individuale concentrando tutto nella figura dell’Amato. Giovanni è al punto d’incontro della relazione vera tra il finito e l’infinito, rifiutando di attenuare la contingenza e insieme di determinare Dio attraverso il finito.
Giovanni usa parole e simboli nel tentativo di indicare le misteriose vie della Sapienza e del suo amoroso segreto di comunione con l’uomo. Com’è inesauribile Cristo!». E’ tutto: il Salvatore, il Liberatore, il Trasformatore. Giovanni, dopo essersi immerso nella notte, celebra la segreta e incomprensibile iniziativa divina dell’Incarnazione e Redenzione. Dio attraverso il finito.
Se la carne, da se stessa, non può dare Dio, nello stesso tempo — nella carne — si scopre la Presenza che trascende, l’orma, il sigillo di Dio. «La creazione reca l’impronta della bellezza di Dio … e l’anima riconosce gli effetti mediante le loro cause e non le cause mediante gli effetti». Il Santo contempla, dunque, la bellezza del mondo perché ha conosciuto — nella notte della fede — la bellezza di Dio e non avrebbe mai potuto capire la bellezza del creato se non avesse prima saputo la Bellezza sorgiva originaria.
La comunione con Dio, sul presupposto di una misericordia che tende la mano e si comunica, è la rifusione dell’uomo concreto, storico, peccatore. E’ la «verità» della vita del Santo, raggiunta a prezzo di una viva morte di croce di tutto ciò che è solo apparenza di uomo, di un abbandono che è fede e amore. Per questo «è più prezioso al cospetto del Signore e di maggiore utilità per la Chiesa, un briciolo di puro amore che tutte le altre opere messe insieme».
Il puro amore è aurora di una vita nuova, in cui il vecchio è stato dissolto e bruciato. L’immagine evangelica del Buon Pastore va qui rievocata: si pone sulle spalle la pecorella che è sua e si rallegra di averla finalmente liberata e riscattata. Nell’attività incessante della nuova vita, Giovanni si consuma d’amore rinnovando la promessa dell’Angelo alla Vergine: lo Spirito Santo scenderà su di Te e la potenza dell’Altissimo ti proteggerà con la sua ombra.
Abbandonato totalmente al Suo creatore, lasciato ogni appoggio umano può finalmente gridare: «Miei sono i cieli e mia è la terra; mie sono le genti, i giusti sono miei e miei i peccatori; gli Angeli sono miei e la Madre di Dio e tutte le cose sono mie; e Dio stesso è mio e per me, perché Cristo è mio e tutto per me».
Il respiro di Dio
La «Fiamma viva d’amore» è composta di sole quattro strofe, ma è la più traboccante di luce e di fuoco. Si respira un clima di vertiginoso lirismo e di immediatezza descrittiva.
Oh fiamma viva d’amore
che lieve trafiggi il cuore
… rompi la tela al dolce incontro
con le soavi, delicate dita!
Oh come mite
Tu ti risvegli nel mio grembo o Dio … il tuo respiro quanto è saporoso eco di gloria…
e di splendore.
Una poesia così, nasce dall’essere stati trapassati dal fuoco dello Spirito Santo, aldilà del dolore e della gioia, della vita e della morte. La bruciatura stessa che ha prodotto la felicità, si può guarire, ma guarisce bruciando più profondamente.
La «fiamma» esprime la preghiera appassionata, il giubilo del cuore. Il Santo si appoggia a pochissimi simboli che però non riescono ad appagarlo. Sente centuplicate la sua potenza di vivere, la sua capacità di amare e di conoscere come stato ormai abituale di vita.
Si addentra nei misteri di Dio, nella esplorazione più rara delle sue perfezioni che vengono partecipate in una misura precedentemente sconosciuta, esperimenta Dio come mansuetudine, soavità, tenerezza infinita. In termini evangelici, è la situazione del figliol prodigo che recupera fino in fondo la condizione filiale che aveva perduto.
Una delle immagini più felici per significare la presenza vivente di Dio, è certamente quella del respiro di Dio, del suo divino destarsi nel centro del cuore, risvegliando insieme ogni cosa e la creazione intera. Qui l’anima può restituire Dio a Dio: «Egli è diventato suo possesso, può regalarlo e comunicarlo a chiunque voglia. E così ella lo dona al suo amato, a questo stesso Dio che si è donato a lei».
Ma è il Santo, nel commento all’ultima strofa, che ci insegna un grande atto di umile rinuncia: «Di questa spirazione piena di beni e di gloria e di delicato amore di Dio, io non vorrei parlare perché davvero non sono in grado di farlo».
La santissima umanità di Cristo
Dalla contemplazione dell’amore crocefisso, Giovanni della Croce arriva all’Amore inerme di Betlemme, alla Sapienza divenuta piccolezza, al Dio fatto Bambino. La culla e la croce sono i due misteri predominanti nella sua opera scritta. Il Verbo, nella sua condizione di umiliazione, diventa oggetto, come bambino, di stupore estatico.
Il Santo vi scorge lo spogliamento da ogni potenza propria, l’incapacità del bambino anche solo ad esprimersi e comprende che questa povertà, la più profonda, è il modo e il presupposto di ogni abbandono. Giovanni della Croce è come soggiogato dal mistero della nascita. Cristo regna, non solo dalla croce, ma regna pure come bambino indifeso che scaturisce dall’eterna infanzia di Dio e diventa possibilità di eterna infanzia per l’uomo: speranza.
Nelle Romanze sull’Incarnazione e in quella sulla Nascita è espresso il vertice del mistero nella sua rivelazione agli uomini. Ricordiamo l’entusiasmo che Giovanni della Croce provava nel rappresentare il mistero del Natale nei conventi. «A fra’ Giovanni piace celebrare con solennità le feste, soprattutto il Natale. Fa la processione della Notte Santa per i corridoi; processione lenta, in cui si alternano le nenie pastorali cantate dai religiosi», scrive un suo contemporaneo.
Allorché giunge il tempo stabilito
in cui Egli nascere deve
il Signore, come sposo,
esce dal suo talamo
abbracciato alla sua sposa
che tiene tra le braccia.
La dolcissima sua Madre
lo adagia sul presepio
in mezzo ad alcuni animali,
gli uomini lieti, canti innalzano,
gli angeli la loro melodia,
Dio però, nel suo presepe, piange.
Stupefatta è sua madre per lo
scambio dei gioielli:
pianto umano scorge in Dio,
nell’uomo gioia piena,
di cui l’uno e l’altro alieno
per natura esser soleva.
Le tre scene della Romanza sulla «Nascita» sono una più bella dell’altra. Nella prima, il Verbo entra trionfalmente nel mondo portato tra le braccia di sua Madre che lo depone in un presepio. Poi la sposa, gli angeli e gli uomini festeggiano le nozze con canti, mentre lo sposo-Dio adagiato nel presepio piange.
Infine Maria che sta lì, stupita nel contemplare il contrasto e intravvedendo il mistero dello scambio di gioielli tra gli sposi: Cristo-sposo, fattosi uomo, ci dà la letizia mentre l’umanità-sposa gli offre i propri dolori e le proprie lacrime. Quello che Giovanni della Croce propone sta nella Chiesa come un paradigma, e che sta come una poesia, perché non c’è prosa che possa contenere la sua esperienza.
Ma poiché il Santo ha semplicemente vissuto nella sequela di Cristo, non è forse vero che, anche la Parola di Dio fatta carne, è assolutamente intraducibile dal momento che in essa abita la pienezza della divinità? La sua festa, che la liturgia celebra nell’imminenza del Natale, ci stimoli a spalancare occhi e cuore su quell’avvenimento che è la risposta ad ogni nostra attesa.
BIBLIOGRAFIA
G. d. C: Opere, ed. Carmelit. Sc, Roma 1967.
Bruno di G. M.: Vita di G. d. C.
Stein E.: Scientia Crucis – Studio su G.d.C,
Milano 1960. Karol Wojtyla: La fede secondo G.d.C,
Herder – Roma 1979. Urbina F.: La persona humana en G. d. C, Madrid 1956.