di Piero Sinatti
Il centenario di uno scrittore è un’occasione per tornare sul suo destino e la sua opera. Se si tratta di Varlam Shalamov, l’autore dei Racconti della Kolymà, ricordarlo è ancor più necessario per la singolare tragicità del destino, per la “fortuna”, solo postuma in patria, di un’opera letteraria intimamente legata a uno dei più sconvolgenti capitoli della storia russa.
E’ un’immensa regione dell’estremo nord siberiano in cui Stalin volle istituire un sistema economico-penale (il Dal’stroj, estensione del Gulag) per sfruttarne le materie prime (oro, soprattutto), basato sulla manodopera dei prigionieri là deportati, che vi svolgono un lavoro coatto all’insegna di un fordismo feroce, arcaico e antieconomico (si veda il racconto La carriola): in territori disabitati, inospitali, con il gelo che scende a 50-60 gradi sotto zero.
Le autorità, arbitrarie e corrotte, soggette a “purghe” ricorrenti e cruente, governano uno-due milioni di prigionieri: di diritto comune (bytoviki), “socialmente vicini” e meglio trattati perchè “riforgiabili”. Malavitosi o “ladri in legge” o blatnye, laidi lumpen, temuti animali predatori del campo; all’ultimo livello ci sono i krd, i “controrivoluzionari”, i “politici”, i “nemici del popolo” da annientare.
Shalamov – condannato per la prima volta a tre anni di lager nel 1929, come trotskista – vi è vissuto dopo altre due condanne per oltre tre lustri (dal 1937 al 1953), tra esseri umani dalle pulsioni e linguaggi elementari e violenti. Un mondo dominato da disperazione e malvagità. Ognuno per sé, è la regola. Là, si è picchiati a morte”, fucilati in massa, “si muore come le mosche”, ci si tradisce e vende per un tozzo di pane. Si uccide e ruba. Ci si mutila. Si diviene relitti umani, dochodjagi, senza peso. Ci si nutre, in fughe insensate nella taiga, di carne umana.
E’ il mondo dell'”ineffabile”. “Quello che ho visto io un uomo non lo deve sapere né vedere” – scrive. Kolyma, è per lui – al pari di Hiroshima e Auschwitz – un’ipostasi del XX secolo.
Dalla Kolyma, si salva. Aiutato dal caso, da una fortissima fibra fisica e morale, dalla poesia, “mezzo di resistenza” e unica luce in interminabili anni bui.
Per rappresentare il “Crematorio Bianco” Shalamov ha scelto la misura cechoviana del racconto breve, evitando fiction e memorialismo. Il racconto, per lui, è “un “documento fregiato di emozione”, la cui cifra è la “laconicità”. Le frasi sono “brevi come il respiro” o “secche e muscolari come uno schiaffo”, “simboliche e pregnanti”.
Grande innovatore, Shalamov rompe con la tradizione realistica e umanistica della letteratura russa. Il male è metafisico, non sociale, né storico. Egli si richiama al lirismo (Tjutchev, Pasternak), alla profezia (il Vangelo e Dostoevskij), al surrealismo e simbolismo (Gogol’, Belyj).
Lirismo e simbolismo si misurano con la natura della Kolyma, grande protagonista dei Racconti e dei versi. La solennità cupa della taiga, il biancore delle nevi, gli alberi nani che preannunciano il disgelo, gli animali, i fiori selvatici, le bacche, le acque che per pochi mesi si sprigionano dal ghiaccio.
A differenza di Solzhenitsyn (che egli non ama, né apprezza), Shalamov non vuole fare storia, né educare, né combattere il comunismo. Le esperienze – dice – non educano. La storia si ripete. Vuole essere “il cronista della propria anima, niente di più”. Ricordare e raccontare.
Ma anche lanciare anche un monito più profondo sul guasto morale prodotto dal mondo del Gulag: “la corruzione del mente e del cuore, quando di giorno in giorno l’enorme maggioranza delle persone si persuade in modo sempre più netto che si può vivere senza, carne, senza zucchero, senza vestiti, ma anche senza onore, senza coscienza, senza amore, senza dovere” (lettera a Pasternak dell’8 gennaio 1956, la sottolineatura è nostra).
La Russia post-sovietica con il fondo di amoralità e criminalità generalizzate che ha accompagnato le trasformazioni economiche degli anni Novanta è una prova di quanto a fondo abbia lavorato “la corruzione della mente e del cuore”, che Shalamov ha messo in luce nei suoi Racconti.
I Racconti della Kolyma sono circa 150, scritti tra il 1953 (con l’incoraggiamento decisivo dell’adorato Pasternak) e i primi anni Settanta, quando sopraggiungono sordità, cecità e psicosi da ex-kolymiano. Muore il 12 gennaio 1982, in un ospedale psichiatrico dove tre giorni prima l’hanno trasferito, da un ospizio.
In patria, da vivo, ha visto pubblicate le poesie. Mai i Racconti, circolati solo nel samizdat. Lo costringono a ripudiarli pubblicamente quando escono in Occidente in ordine sparso su riviste dell’emigrazione.
In Russia i Racconti si pubblicano alla fine degli anni Ottanta, con la glasnost’. Nei secondi Anni Novanta escono in quattro volumi le Opere scelte. Su Shalamov, ormai consacrato in Russia tra i “grandi”, si scrivono da allora saggi accademici. Un convegno internazionale ne celebra in questi giorni il centenario, mentre va in onda sul canale tv Rossija un seriale sulla sua vita: Il testamento di Lenin, scritto da Jurij Arabov, il noto sceneggiatore di Aleksandr Sokurov.
In Italia, ventitre anni dopo la prima breve raccolta shalamoviana curata da chi scrive, Einaudi ha pubblicato nel 1999 (traduzione di Sergio Rapetti) la più bella e completa edizione occidentale dei Racconti, curata da Irina Sirotinskaja e Anna Raffetto (curatrice anche dell’autobiografia shalamoviana La quarta Vologda , apparsa da Adelphi nel 2001).
Prima di uscire, l’edizione einaudiana è divenuta un caso editoriale, dopo la decisione dell’editore di non pubblicare la prefazione, in forma di un dialogo tra Gustaw Herling – il grande scrittore polacco scomparso -, la russista Anna Raffetto e il sottoscritto. Non era piaciuta la critica di Herling, e nostra, alla sordità dell’ intelligentsija italiana (tra cui Primo Levi) sui temi del Gulag e di Shalamov. Così, più che dei Racconti, si parlò della censura einaudiana.
Il centenario ci fa riproporre il narratore e poeta di Vologda. Con l’augurio, pieno di pessimismo, che lo si legga, finalmente.