di Giacomo Samek Lodovici
Secondo un’opinione diffusissima il cristiano è un represso, un frustrato, in definitiva un infelice, perché rinuncia alle migliori e più intense gratificazioni della vita, rinchiudendosi in una gabbia di divieti.
In effetti, Benedetto XVI ha insistito su questo tema molte volte e lo rimarcava già fin dalla messa di inizio del pontificato: «non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo – e troverete la vera vita».
Già allora il neo pontefice sottolineava la promessa evangelica, fatta a chi segue fedelmente Cristo, non solo di ricevere la vita eterna ma anche, «già ora, in questo tempo, cento volte tanto» (Mc 10, 30), pur insieme ad alcune sofferenze e nonostante, talvolta, le persecuzioni. Che il cristiano possa sperimentare sentimenti di felicità, o comunque di contentezza durevole, «intender [fino in fondo] non lo può chi non lo prova», come direbbe Dante; ma possiamo, sebbene solo in parte, provare a motivarlo. In realtà, molto dipende da come si vive il proprio esser cristiani.
C’è un modo legalista e frustrante di vivere il cristianesimo, quello di chi trascorre le sue giornate temendo di trasgredire dei doveri ed attento ad osservare norme; e c’è quello liberante di chi osserva – come è giusto – le norme, ma non le considera il fine della sua vita, perché quest’ultimo è piuttosto l’esercizio dell’amore a Dio ed al prossimo. Ora, se si agisce per amore ogni cosa diventa più lieve e, talvolta, diventa persino felicitante: lavorare per mero senso del dovere o solo per guadagnarmi da vivere può essere estremamente pesante, mentre farlo per amore di mia moglie e dei miei figli, e per amore di Dio se coltivo una vita interiore, è estremamente diverso.
È questo il vero senso della sentenza, tanto spesso travisata, di S. Agostino: «ama e fa’ ciò che vuoi». Infatti, se amo qualcuno, quando faccio/ometto qualcosa per lui, faccio/ometto quello che voglio, perché l’amore mi fa agire volentieri.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma basta notare che ci sono persone accasciate dal dolore provocato da alcune malattie, che, nondimeno, si sentono interiormente felici, o almeno contente, perché, per amore, in vista del bene di qualcuno offrono a Dio il loro dolore. Certo, la vita cristiana comporta anche delle rinunce, ma per raggiungere beni più profondi e durevoli, comporta un certo qual «perdere se stessi», ma per ritrovarsi più pienamente, come ha detto il Papa: «perdere qualcosa, anzi, se stessi per il vero Dio, il Dio dell’amore e della vita, è in realtà guadagnare, ritrovarsi più pienamente».
È l’espressione del paradosso dell’amore, il quale, proprio donando, arricchisce chi dona. I beni a cui rinuncia il cristiano appagano nell’immediato, ma, a lungo andare e – va sottolineato – non da subito, soddisfano sempre meno e lasciano sempre più assetati, come bere acqua salata; tanto è vero che, spesso, gli uomini finiscono per disdegnarli una volta che li hanno conseguiti e ne cercano altri, e poi altri ancora, procedendo così «di brama in brama», come diceva un filosofo (ma se ne potrebbero citare molti altri) non certo cattolico come Hobbes. La relazione (beninteso se sostanziata di amore) con Dio, invece, non delude mai.