Giuliano Mignini
La recente vicenda del processo cosiddetto “Berlusconi – Mills” e di tutto lo strascico, di polemiche e di iniziative legislative che ne è seguito, ripropone il problema dei rapporti tra classe politica (prevalentemente, ma non esclusivamente, di “centro – destra”) e mondo giudiziario.
Il pm, investito da un violento attacco dei vertici socialisti, chiese il trasferimento a Trapani, dove, in seguito a indagini su traffici illeciti della mafia, subì nel 1985, un attentato a Pizzolungo, che costò la vita alla signora Barbara Asta ed ai suoi due gemelli che, al momento dell’esplosione, si trovavano all’interno dell’auto sorpassata da quella ove si trovava il Dr. Palermo.
Quando si parla del rapporto “Giustizia – Classe politica”, ci si trova di fronte ad una sorta di intrico inestricabile, ad un problema che appare insolubile, perché sembrano quotidianamente arricchirsi i fattori che sono di ostacolo alla sua soluzione.
C’è un termine che esprime il concetto di una realtà problematica in cui aumentano e divengono irreversibili i fattori di contraddizione, che si alimentano a vicenda: il cosiddetto circolo vizioso, da cui, in ipotesi, non si esce più, perché i due capi della figura tendono, con il proprio movimento e la propria spinta, a perpetuare il circolo che non si rompe e da cui non si fuoriesce.
Nel nostro problema, chi sono i due capi del “circolo” ? La risposta è semplice: da un lato, ci sono i magistrati e i loro raggruppamenti di tipo “sindacale”, cioè l’A.N.M. e i gruppi che la compongono, nonché l’organo di autogoverno della Magistratura, cioè il C.S.M., dall’altro, gli appartenenti alla “classe politica”, che esprimono il potere legislativo e quello esecutivo (cioè il primo e il secondo potere che precedono il “terzo”, cioè l’Ordine giudiziario), che, in teoria, interpretano e danno voce, istituzionalmente, a quel “popolo”, in nome del quale viene amministrata la Giustizia.
Sempre nello stesso ambito, vi è, poi, quella categoria professionale che esprime nel processo il protagonista diverso dal magistrato, sia esso giudice che pubblico ministero, cioè il difensore. Tale categoria professionale si trova oggi, purtroppo, è innegabile la constatazione, in una forte contrapposizione dialettica nei confronti dell’Ordine giudiziario e il fatto che una parte non trascurabile dei parlamentari e, spesso, anche degli uomini di governo, appartenga contemporaneamente anche alla categoria forense (altro dato innegabile) contribuisce in modo tutt’altro che trascurabile, all’innegabile convergenza di posizioni tra “politici” e “avvocati” e all’isolamento dei magistrati.
Quando, poi, accade che un avvocato e parlamentare sia anche, come nel caso dell’on. Niccolò Ghedini, il difensore del Presidente del Consiglio (naturalmente nella stessa coalizione politica), l’anomalia raggiunge il suo culmine.
Una concreta espressione di “circolo vizioso” (per citare solo un esempio non recente e clamoroso) si è verificata quando, all’inizio del 2002, il Guardasigilli On. Roberto Castelli, nell’ambito delle riforme che la nuova maggioranza politica, affermatasi con le elezioni politiche del 2001. intendeva realizzare, presentò un disegno di legge sulla riforma dell’Ordinamento giudiziario.
Tale disegno appariva sostanzialmente privo di soluzioni tali da determinare una legittima preoccupazione in ordine ai profili essenziali dell’indipendenza della magistratura e dell’efficienza dell’apparato giudiziario (previsione di una “separazione di funzioni” solo sotto il profilo dell’incompatibilità distrettuale, previsione di un’unica ipotesi di concorso per esami solo per una quota dei posti disponibili per l’esercizio delle funzioni di legittimità e codificazione degli illeciti disciplinari sulla base della consolidata giurisprudenza formatasi in materia) e comunque era incontestabilmente più equilibrato e ragionevole delle “soluzioni” che si sarebbero poi affermate.
La presentazione del testo fu seguita da un proficuo confronto tra il Ministro Castelli e il Presidente dell’A.N.M., Antonio Patrono, di Magistratura indipendente, scelto dopo il “veto” posto dagli altri gruppi a Mario Cicala, anch’egli di M.I., ritenuto troppo vicino alla nuova maggioranza politica e, per questo, fatto oggetto di un pesante e ingiustificato attacco, rivoltogli da Armando Spataro, attuale Procuratore Aggiunto di Milano, schierato con il gruppo dei “Movimenti”, cioè con quelli che vengono un po’ impropriamente presentati come i “verdi” dell’A.N.M..
Il Ministro, all’esito degli incontri, assunse l’impegno formale di modificare il testo presentato, andando incontro a quanto auspicato da Patrono. Ciononostante, il Comitato Direttivo dell’A.N.M. ritenne di dovere comunque proclamare lo “sciopero”nel giugno dello stesso anno. Antonio Patrono, ritenuta profondamente errata, inopportuna e dannosa l’iniziativa e ingiustificato l’atteggiamento dell’A.N.M. nei confronti del Ministro Castelli, ritenne di dover rassegnare le dimissioni dalla carica di Presidente dell’Associazione e questo spinse, poi, il gruppo di Magistratura Indipendente a uscire dalla giunta centrale dell’Associazione stessa.
Il testo approvato (già rinviato alle Camere dal Presidente Ciampi) e poi sostanzialmente congelato dalla maggioranza di centro – sinistra, prevedeva la sostanziale separazione definitiva delle carriere, norme farraginose in materia di progressione di funzioni e di trasferimenti di sede e l’obbligatorietà dell’azione disciplinare con prevedibile paralisi della Procura generale della Corte di Cassazione e il conseguente allungamento dei tempi dinanzi alla Sezione disciplinare del C.S.M., oltre alla burocratica gerarchizzazione delle Procure e alla discutibilissima concentrazione dell’azione penale sul solo Procuratore capo.
Tirare le somme è facile: che l’A.N.M. abbia dato prova di atteggiamento pregiudizialmente ostile alla nuova maggioranza politica e, in particolare, al Ministro Castelli (atteggiamento poi confermato e corroborato in seguito ad altre iniziative legislative, come, tra le altre, il cosiddetto Decreto “Salva Previti”) è difficile contestarlo, ma non è parimenti contestabile che sia stata “partorita” una riforma a dispetto della Magistratura e dell’A.N.M. e, anche se è comprensibile l’irritazione del Ministro, non è ammissibile un atteggiamento di ripicca e di dispetto nell’elaborazione di un testo legislativo che deve regolare una materia tanto importante.
Queste erano però quasi “bazzecole”, oggi il clima è insopportabile e intollerabile.
In ogni caso, ecco il circolo vizioso. La chiusura e il preconcetto dell’uno ha alimentato il dispetto dell’altro. Il guaio, però, è che da tutto questo, non ha tratto giovamento, nella fattispecie, né il Ministro né tantomeno la Magistratura. Hanno perso entrambi, anche se è il Ministro che può illudersi di aver vinto solo perché, piaccia o non piaccia ai magistrati, queste riforme la classe politica è intenzionata a farle, contro di loro. Si tratta, però, di una magra consolazione, purtroppo, perché da una Giustizia che non funziona e che, con riforme finalizzate ad obbiettivi “politici”, di natura diversa da quella dell’efficienza del sistema, funzionerà sempre di meno, avremo da perdere tutti, soprattutto i cittadini.
Ciò, naturalmente, alimenterà il circolo vizioso, perché bisognerà pure dar la colpa a qualcuno del fallimento di una delle tante riforme fallite e il capro espiatorio sarà, ovviamente, la Magistratura, che, a sua volta, avrà “buoni” motivi per sentirsi delegittimata e “perseguitata” dal potere politico.
Bisogna, a questo punto, approfondire l’atteggiamento dei due “contendenti”, cominciando dalla Magistratura.
Lungo sarebbe il discorso circa il processo storico che ha condotto a configurare la magistratura italiana, o almeno una sua parte tutt’altro che trascurabile, nei termini in cui essa oggi si presenta.
Sintetizzando al massimo, si può dire che essa ha attraversato le seguenti tappe (vds. Sul gramscismo, “Cristianità, Umberto Bringhelli, “La teoria dell’azione comunista in Italia: il “marxismo – leninismo – gramscismo”, 30.07.2001) che possono così sintetizzarsi, ponendosi nell’ottica del vecchio PCI.
In mondi ricchi di storia, di articolazione e stratificazione sociale e culturale, la conquista del solo potere politico non basta e men che meno è possibile mirarvi attraverso tecniche golpistiche e/o insurrezionali che riescono solo in società caratterizzate da un’accentuata centralizzazione del potere.
Occorre allora pazientemente conquistare la società dal di dentro: se in Russia la Rivoluzione «dall’alto» – dal Palazzo alla società civile – era stata possibile, anzi era l’unica possibile, «altrove» la Rivoluzione deve procedere «dal basso», anche accettando sul piano politico un lungo periodo di «guerra di posizione».
Gramsci, riecheggiando tematiche tipiche di un certo pensiero che potremmo definire reazionario, distingue tra «società politica» («paese legale», il Palazzo, i luoghi del potere politico-burocratico-amministrativo), e «società civile» («paese reale», corpi sociali intermedi, i luoghi dell’autorità e delle gerarchie spontanee o naturali).
Nell’ottica gramsciana, si deve conquistare l’egemonia su quest’ultima per essere in condizione di cogliere finalmente il potere politico come un frutto maturo, senza dover poi temere alcun sussulto reattivo: ed intanto, altro vantaggio di questa strategia, la Rivoluzione è già in corso nel profondo della vita sociale, e la successiva conquista anche del potere politico serve a proteggerla nelle sue realizzazioni, a consolidarle e ad accelerarne il processo.
La scelta insurrezionale, dunque, persino nell’immediato dopoguerra, per il PCI, diventa una subordinata eventuale, e non per ragioni di principio o etiche, bandite per definizione, ma perché giudicata inadeguata alla realtà italiana, e cioè perdente.
L’egemonia di cui parla Gramsci non si caratterizza come direzione esplicita ovvero come infiltrazione: la sua essenza è l’influenza, la penetrazione «radioattiva» nella società per informarne la mentalità, il costume, la cultura, senza che tale processo sia stato minimamente contrastato dai partiti centristi e in particolare dalla DC.
Ma è anche modalità di condizionamento dei centri di decisione e delle polarità di potere attraverso la sapiente creazione di un clima ostile, ovvero favorevole a determinati orientamenti: il partito, moderno principe che organizza i suoi intellettuali organici, cioè coloro che preparano la giustificazione ai suoi gesti, si trasforma in gigantesco agente d’influenza, senza tuttavia trascurare il compito di conquistare, là dove è possibile, le «casematte del potere borghese».
La vicenda che caratterizza due importanti ambiti sociali in Italia, quello giudiziario e quello dell’insegnamento, è tipica di questa modalità di conquista del potere “dal basso”.
Nel primo, quello giudiziario, tipico è il coordinamento tra l’opera di infiltrazione (facile perché alla Magistratura si accede per concorso e quindi non è necessario conquistarsi un consenso) e la conquista dell’egemonia sul potere giudiziario: ordine senza vertice gerarchico e quindi luogo ideale di sperimentazione di un potere di fatto, di direzione o orientamento piuttosto che di dominio, a prescindere da qualsiasi titolarità formale ed istituzionale di un posto di comando.
Senza che sia necessaria una qualsivoglia disposizione espressa, e spesso seguendo l’esempio di «avanguardie» costituite da veri e propri infiltrati, la magistratura italiana si allinea periodicamente a determinati orientamenti: lassisti quando si tratta di «spezzare l’apparato repressivo dello Stato» o di proteggere i «socialmente e politicamente vicini»; duri e “giustizialisti” (come si usa dire, impiegando un’orribile e impropria voce lessicale), quando si tratta di colpire i «nemici dell’ordine e della legalità» progressisti e i «fascisti», ovvero quando si tratta di abbattere «legalmente» un potere costituito avversato
Altrettanto tipico, se non di più, è il processo di conquista dell’egemonia sui centri di elaborazione e diffusione dell’istruzione, dell’ educazione, dell’informazione e della cultura popolare: dall’asilo all’Università, dai mass media ad ogni forma di spettacolo, massime quello cinematografico. Mentre i sedicenti anticomunisti governano, da titolari dei ministeri competenti e si dedicano al piccolo cabotaggio clientelistico, il PCI orienta sempre di più e sempre meglio questi pedagoghi di massa. Né vengono trascurati, dallo sforzo di egemonizzarli, i poteri economici e sindacali, e nemmeno quello ecclesiastico, cioè quello della Chiesa-soggetto sociale, opinion-maker.
Lo stesso potere formale, in altre parole la partecipazione ai governi tra il 1944 ed il 1947, viene sfruttato – nella consapevolezza che non è un punto di arrivo, ma di partenza, e che non è ancora definitivamente conquistato, mancando la premessa dell’egemonia – per «ottenere il controllo sui servizi segreti e sui “ministeri di forza”, secondo il gergo bolscevico, cioè i ministeri dell’Interno, della Difesa e della Giustizia. Durante la sua permanenza al governo (…) il PCI riuscì ad avere solo quello della Giustizia, ma ebbe comunque un ministero importante come le Finanze e posizioni chiave nei ministeri degli Esteri e della Guerra».
La partecipazione ai governi di unità nazionale, anche dopo il 1947, non viene dunque concepita come il fine ultimo dell’azione rivoluzionaria, allo stesso modo in cui la democrazia formale viene vista fin dall’inizio come «un mezzo per avviare la prima fase di transizione ad un sistema di tipo sovietico, anche se i tempi di questo passaggio non erano definiti».
Questo lavoro produce i suoi effetti all’interno del PCI e nell’intera società italiana, che viene culturalmente trasformata nel suo ethos e nel suo modo di pensare. La Rivoluzione culturale modernizzatrice proclamata da Gramsci contro il senso comune nazionale si compie. L’egemonia è una realtà, l’Italia cambia la sua anima.
Certo quel che davvero rimane del lavorìo pluridecennale del PCI secondo la traccia gramsciana, esito cui sarà molto difficile e penoso rimediare, anche dopo la progressiva “riduzione” e l’abbassamento di profilo dello stesso PCI, spappolatosi in una componente “democratica” ed in altre più o meno “movimentistiche” e divenuto ormai, nella sua componente maggioritaria, un “partito radicale di massa” (sintetizzando, si passa da “Vladimir Lenin” a…”Vladimir Luxuria”), è lo sfiguramento dell’identità nazionale, lo sradicamento dalle nostre tradizioni cristiane, la secolarizzazione, detta modernizzazione – che oggi è in voga nella forma del «pensiero debole», giustificazione teorica di un’amoralità relativistica che nega la verità e la stessa idea di poterne parlare, insomma una sorta di «radicalismo di massa» proposto come conquista di cui vantarsi e che è invece la vera causa della disperazione e dello squilibrio sociale e personale che affliggono oggi più che mai il nostro popolo.
Nella Magistratura associata vi è una realtà a cui occorre guardare, almeno nel suo momento genetico, se si vuol comprendere, almeno nelle sue grandi linee, il processo che si è testè descritto: Magistratura democratica.
Nel 1964 da Terzo Potere si staccò un’ala “progressista” che dette luogo a “Magistratura Democratica”. La pluralità di liste non rappresentava di per sé una novità, dato che già per l’elezione di alcuni precedenti C.D.C. erano state presentate liste contrapposte. Nel 1964, tuttavia, le liste facevano capo a gruppi che si erano dati una propria struttura e che aveva una propria ed autonoma visione dei problemi ordinamentali e della magistratura in genere che intendevano trasportare nella gestione dell’Associazione.
Le liste presentate erano Terzo Potere, Magistratura Indipendente, l’articolato gruppo rappresentativo dei magistrati “conservatori”, sostenitori dell’apoliticità della giurisdizione e Magistratura Democratica ed ottennero, in questo primo confronto con il sistema proporzionale, rispettivamente 1589, 1269 e 729 voti .
All’esito di questo confronto elettorale, il 20 dicembre 1964 il C.D.C. (Comitato direttivo Centrale dell’ANM) elesse una giunta di maggioranza “di centro-sinistra”, presieduta da Mario Berutti in cui erano rappresentate Terzo Potere e Magistratura Democratica.
Fu questa giunta a promuovere il XII congresso, che si tenne a Gardone nel settembre 1965. Questo congresso rappresentò la prima vera occasione di confronto aperto degli orientamenti culturali dell’associazione: i temi in dibattito furono quelli della valenza politica dell’attività giudiziaria e della collocazione del giudice nell’ambito della società.
E’ importante sottolineare un punto, che spesso viene dimenticato, ma probabilmente neppure conosciuto, dal “fronte antigiustizialista”: quando, nel 1965, a Gardone, Magistratura democratica enunciò le sue tesi sulla politicità della giurisdizione, si affidò, per la relazione congressuale, non a un cattedrattico della schiera dei “giuristi democratici”, di osservanza comunista, ma al professor Giuseppe Maranini, editorialista de “Il Corriere della Sera”, fondatore di “Alleanza costituzionale”, gruppo di pressione per il sistema maggioritario e inventore del termine “partitocrazia”, il maggior politologo liberale di quegli anni. Proprio così.
Il professore intitolò la relazione: Funzione giurisdizionale e indirizzo politico e vi sostenne che “al singolo giudice e alla magistratura nel suo complesso” appartiene una “funzione di indirizzo politico”.
La tesi di Maranini, e di Magistratura democratica, si armonizza con il pensiero -liberale- corrente negli Stati uniti d’America, alla stregua del quale “il giudice va considerato un attore politico” ( v. Guarnieri, Magistratura e politica in Italia, Il Mulino, 1992, p. 37).
E’ ovvio che chi ritenga, come la Destra, che il giudice non sia un organo politico, non può ispirarsi a siffatto pensiero liberale.
Tanto meno si può seguire la più compiuta elaborazione delle dottrine della Sinistra pubblicati da Laterza nel 1973) con la teorizzazione dell’uso alternativo del diritto. Magistratura democratica e il mondo politico-accademico della Sinistra proponevano di utilizzare il diritto vigente per restituire “alla classe operaia la capacità creativa della storia”, prendendo (i giudici) coscienza “della natura politica della funzione giudiziaria”.
Con buona pace di Berlusconi, quindi, liberali, Magistratura democratica e sinistra sono, guardando alla genesi culturale della seconda, tutti d’accordo sulla concezione politica della giurisdizione e dunque del giudice.
Tutto ciò ha un significato preciso: se la giurisdizione è politica, il potere politico deve controllare la giurisdizione. Ma il discorso, fondato sulle stesse premesse, può anche capovolgersi nella prospettiva inversa, ma convergente: la giurisdizione deve controllare la politica.
Romano Ricciotti, nel volume : “ Sotto quelle toghe. La radice delle correnti nella magistratura”, Edizioni Settecolori, 2007, scrive in proposito: “ Negli anni successivi (al ’68), Magistratura democratica attenuò, fin quasi ad abolire, i propositi di rivoluzione giudiziaria e in particolare la richiesta di una riforma tendente a esercitare un sull’amministrazione della giustizia e sui giudici.
Ma lo stendardo abbandonato fu raccolto dallo schieramento di centro – destra, prima e dopo la vittoria nelle elezioni politiche del 2001. Il pensiero unico liberale, ispirato da dottrine correnti negli Stati Uniti d’America, postula che, siccome la giurisdizione è una funzione politica, essa deve essere sottoposta a controllo politico” (vds. op. cit., p. 103).
Alla radice del drammatico scontro tra poteri dello Stato sembra esservi, quindi, un punto di partenza culturale comune, quale può ritrovarsi nel pensiero e negli scritti del fondatore di “Alleanza costituzionale”.
Tirando le somme, l’orientamento della corrente di “sinistra” della Magistratura, cioè di Magistratura Democratica, che ha finito col condizionare il “comune sentire” del magistrato aderente all’ANM o del magistrato tout court, è stato quello, dapprima, di “aprire” la Magistratura a tutte le istanze e le influenze della società civile negli anni sessanta e settanta, utilizzandola in quella “rivoluzione dal basso” con la quale gli “intellettuali” in toga hanno acquisito una posizione egemone nella cultura e nella società, per poi passare gradatamente e progressivamente alla “gestione” del potere così acquisito sulla società civile di cui la “corporazione giudiziaria” ha cercato di bloccare tendenze sfavorevoli, imponendo un capovolgimento dell’originaria impostazione e promuovendo una “rivoluzione dall’alto”, in una prospettiva di chiusura e di separatezza nei confronti del corpo sociale e di contemporanea, persistente tentazione di condizionare la politica.
E’ vero che è sufficiente che un uomo politico di un certo rilievo venga inquisito, perché scatti automaticamente il processo politico e mediatico all’”inquisitore” in toga, cui si attribuiscono immediatamente intenti di strumentalizzazione politica della giurisdizione, ma è anche vero che appare innegabile, per scendere al concreto, l’accanimento giudiziario che Berlusconi e la sua struttura imprenditoriale ha subito dal 1993-1994 in poi e questo a prescindere dal merito delle accuse e dal fatto che credo di non sbagliare se affermo che dei numerosi processi intentati al Cavaliere, non uno si è concluso con una formula assolutoria ampia (salva l’ipotesi del reato di falso in bilancio sostanzialmente e appositamente depenalizzato ad hoc dal legislatore), ma tutti si sono conclusi o per prescrizione o per l’ipotesi dubitativa di cui al secondo comma dell’art. 530 c.p.p. o addirittura per amnistia.
Non è, peraltro, questo il solo caso di “strabismo giudiziario” che ha caratterizzato il nostro paese: anche e forse soprattutto le indagini sul terrorismo specie quello “stragista”, si sono caratterizzate per un’unica direzione impressa alle indagini, con i tristi “risultati” che sono sotto gli occhi di tutti, anche se in questo caso, le responsabilità vanno equamente condivise tra magistrati, organi di Polizia giudiziaria deputati alle indagini, settori dei servizi di sicurezza e, ovviamente, uomini di governo.
Del resto, partendo dalle premesse culturali sopra descritte, è facile formarsi dei pregiudizi che incidono inevitabilmente sull’attività d’indagine, rendendola unidirezionale e non, come dovrebbe essere, aperta a tutte le ipotesi.
Guardando ora all’altro versante del “circolo vizioso”, cioè quello della “classe politica”, l’atteggiamento della stessa verso la “Giustizia”, si può sintetizzare come segue:
1) Fase della (apparente) “neutralità”. Dalla fine della guerra sino, grosso modo, alla metà degli anni ’60, la classe politica centrista che ha governato l’Italia dopo la breve parentesi “ciellenistica”, ha un atteggiamento sostanzialmente neutrale verso la magistratura e i problemi della giustizia. Vi è una sorta di “comunanza culturale” e di educazione tra politici e magistrati che, salvo eccezioni, mantengono un profilo “basso” e “rispettoso” della categoria dei politici che non si sentono “minacciati” dall’azione giudiziaria.
2) Con l’ingresso dei socialisti nella maggioranza di governo, vengono poste le premesse per i successivi passaggi ad atteggiamenti via via più ostili. Mentre, infatti, i comunisti, legati alla tradizione gramsciano – leninista – staliniana, hanno un atteggiamento pragmatistico e realistico verso gli apparati statuali (giustizia ed istruzione) da infiltrare e da utilizzare come grimaldelli istituzionali, i socialisti rappresentano l’anima “anarcoide”, verbosa, “sessantottesca”, velleitaria e irrealistica della sinistra italiana (e non) che guarda agli apparati statuali come strumenti di clientelismo ma osteggia più o meno apertamente quegli apparati più o meno autoritativi e privi di agibilità clientelare, come la magistratura e le forze armate e di polizia.
Il terrorismo e la sudditanza del PSI demartiniano e manciniano verso il PCI frenano, però, le tendenze antigiudiziarie del PSI, che si collega idealmente al Partito Radicale e a gruppi della sinistra extraparlamentare di tipo “spontaneista – movimentista”, come “Lotta Continua” e “Potere Operaio”, come area di potenziale e crescente ostilità verso la funzione giudiziaria. Questa situazione permane per tutti gli anni ’70, condizionata com’è dal fenomeno terroristico che non consente eccessive “fughe in avanti” nella guerra alla funzione giudiziaria e nella “normalizzazione” della magistratura.
Dal 1968 si originano due linee culturali e politiche della sinistra: quella di tipo “gramsciano – lenin – stalinista” (PCI, Movimento Studentesco) e quella “libertario – spontaneista – movimentista” (Lotta Continua, Potere Operaio, Organizzazioni più o meno legate al trotzkismo come i Gruppi Comunisti Rivoluzionari ed Avanguardia Operaia), quella che, finito il 1968, dismessi i panni “proletari” e alleatasi con gli “estremisti liberali” del Partito Radicale e con il PSI, darà vita, negli anni successivi, ad una specie di “68 dei borghesi e dei colletti bianchi”, prima di confluire nel berlusconismo e, poi, in Forza Italia e nel Pdl.
Non a caso, tanto per citare solo uno dei numerosi esponenti di Forza Italia, provenienti significativamente dall’estrema sinistra, l’Onorevole Gaetano Pecorella, legale di Berlusconi e “padre” della legge sull’inappellabilità delle sentenze, oltre che autorevolissimo esponente della “nomenklatura” antigiudiziaria, del “partito antigiudici”, proviene dalle fila di Potere Operaio (altra formazione affine a Lotta Continua), poi di Democrazia Proletaria ed è stato, addirittura, esponente di “Soccorso rosso militante”, prima dell’immancabile approdo nel PSI, preludio all’ingresso in Forza Italia.
3) Con gli anni ’80 lo scenario è finalmente pronto. Il PSI si è svincolato dalla sudditanza al PCI, ha conquistato la propria “autonomia” con Bettino Craxi, mentre il terrorismo, pur presente, conosce un evidente riflusso. Occorre l’innesco che è costituito prima dal caso “Palermo”, poi dal caso “Tortora”. Il potere politico passa all’attacco della giustizia e il punto più alto della svolta è il Referendum sulla responsabilità civile dei magistrati del 1988, riforma rimasta sostanzialmente inattuata perché inattuabile, pena la vanificazione della funzione giudiziaria.
Il Referendum apre, però, la strada ad un sistematico linciaggio dell’Ordine giudiziario e se le azioni civili non vengono sostanzialmente intentate perché la legge è inattuabile, il segnale che viene dato all’opinione pubblica è evidente: via libera agli esposti, alle pressioni, alle minacce, alle accuse calunniose, alle invettive di chi si sente autorizzato a piegare il magistrato alle sue pretese.
4) Gli anni ’90 sono gli anni dello scontro violento. Iniziano con la stagione di “Manipulite”, che colpisce un fenomeno e un regime di corruzione indiscutibile. Forse colpisce solo settorialmente, come può spesso accadere. Forse ciò accade per una colpevole parzialità degli inquirenti, orientati a colpire tutti meno il PCI, forse ciò deriva anche dalla maggiore “strutturazione organizzativa” del vecchio PCI, divenuto “PDS”, che lo rende meno permeabile alle indagini giudiziarie rispetto agli altri partiti e in particolare ai socialisti che si portano dietro il fardello della Seconda Internazionale, gli estremismi verbali, i velleitarismi, ma insieme la friabilità organizzativa della struttura e quella psicologica dei dirigenti.
Forse vi sono entrambe le cause. Fatto sta che le indagini azzerano il vecchio “centro-sinistra” e lasciano intatti gli eredi del vecchio PCI. MSI e Lega appaiono all’orizzonte: in teoria dovrebbero essere estranei a spiriti di rivalsa e a rancori antigiudiziari, perché (a parte fenomeni marginali) “Manipulite” non li ha toccati. E’ vero che le indagini sul terrorismo hanno colpito uomini di destra che sono risultati poi innocenti, ma l’atteggiamento del vecchio MSI era di sostanziale rispetto verso la funzione giudiziaria e verso l’autorità.
Il problema, però, è che da soli, Lega e MSI, non possono farcela. Nel vuoto a destra, lasciato dalla DC, crollata in seguito alle inchieste e incapace di occupare lo spazio alternativo alla sinistra, in alleanza con la destra, si inserisce il Cavaliere, diretto erede del “craxismo” e di tutto il fardello del craxismo, con il nuovo partito che si presenta come l’erede della DC, ma è in realtà l’erede del PSI di Craxi, di correnti liberali più o meno spinte e di Lotta Continua. Vince le elezioni. Si scatena un’evidente offensiva giudiziaria in cui, come al solito, sono presenti gli elementi della “parzialità” e della “strumentalità”, ma anche elementi oggettivi che sono comunque emersi dalle indagini. Gli anni ’90 si fermano alla lotta.
5) Il Terzo Millennio si apre con il governo, cosiddetto di “centro – destra”, con una timida fase di apertura e dialogo con la magistratura (fase oggettivamente stroncata dall’ANM con l’emarginazione di esponenti che avrebbero saputo e potuto dialogare con la maggioranza di governo e ottenere riforme certamente più accettabili o meno inaccettabili di quelle poi approvate, come Mario Cicala e gli scioperi del 2002), per giungere poi ad una forsennata aggressione e delegittimazione contro l’Ordine giudiziario che non ha precedenti nella storia italiana, con tutte le componenti del PDL (insieme a quella compatta lobby trasversale degli Avvocati, il Partito “forense” che dimentica che, quando si fa politica, si debbono fare gli interessi di tutti e che guarda alla Giustizia con l’ottica dell’avvocato penalista), unite in una pervicace e sistematica politica di “normalizzazione”della magistratura.
L’ultimo esempio è l’incredibile reazione dell’on. Berlusconi alla notizia dell’arresto del Presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco per gravi reati di corruzione. Completamente a digiuno degli atti processuali, il Cavaliere, invece di mostrare cautela e prudenza, ha operato il solito, ossessivo transfert di responsabilità sui magistrati, affermando che era venuto il momento di riformare ab imis fundamentis non la “politica”, finita sotto accusa, ma la giustizia. In modo tale, aggiungo io, perché la reazione sarebbe altrimenti incomprensibile, che simili iniziative giudiziarie, aprioristicamente considerate inique ed arbitrarie, non si ripetano più. C’è ben poco da aggiungere…
Quello che più colpisce nelle linee di riforma, parzialmente attuate o annunciate, è lo scollegamento, in certi casi, la contraddizione conclamata tra la “diagnosi” e le “terapie”. Si lamentano le lungaggini procedurali e si aumentano gli adempimenti formali del processo, si potenziano i rischi di possibili nullità, si condiziona l’esercizio dell’azione penale al previo avviso all’indagato, dandogli la possibilità di chiedere indagini e allungare così i tempi del procedimento – processo; si dà vita ad una sorta di processo preliminare, nell’udienza preliminare, con ulteriore possibilità di accertamenti, che può concludersi in quella sede o aprire le porte al processo vero e proprio, in cui la necessità di sentire in contraddittorio i testi le cui dichiarazioni rese nelle indagini non contano se non per eventuali contestazioni, dilata ancora di più i tempi del processo (che oggi sono sensibilmente più lunghi di quelli del vecchio codice “fascista”).
Si denunziano quindi i tempi lunghi del processo, ma, contraddittoriamente, se ne moltiplicano gli adempimenti e, colmo dell’assurdità, si riducono drasticamente i termini prescrizionali che andavano bene al legislatore “fascista”, in un’epoca in cui la vita media era sensibilmente più ridotta e i tempi del processo erano singolarmente più contenuti, perché molto minori erano gli adempimenti formali.
E’ come se si moltiplicassero le soste di un treno ma se ne dimezzassero i tempi consentiti di percorrenza e il conducente si vedesse rifiutato il pagamento dello stipendio perché doveva fare il miracolo di accorciare i tempi di percorrenza, pur dovendosi fermare ad ogni stazioncina.
Quello che colpisce è la generalizzazione e l’indeterminatezza delle accuse rivolte alla magistratura che non hanno paragone nell’atteggiamento assunto verso altre aree che magari operano continuamente e quotidianamente a fianco dei magistrati, nell’ambito delle indagini, come i vari corpi di Polizia, ma che non subiscono mai l’autentico linciaggio patito dai magistrati.
E che si tratti di accuse strumentali, finalizzate alla delegittimazione di un’intera istituzione, lo dimostra questa semplice constatazione: cioè il fatto che, a fronte dei mali, delle inefficienze, delle parzialità, reali o presunte, che si addebitano ai magistrati, nessuno dei “rimedi” invocati è idoneo a correggerli e a sostenere la funzione giudiziaria. In generale, secondo un’ottica di puro e astratto formalismo, i mali lamentati cesserebbero di esserlo, solo perché “legittimati” da leggi che asseconderebbero le condotte lamentate.
I magistrati sono politicizzati? Bene, invece di contrastare questa tendenza che si attribuisce “generosamente” a un’intera categoria, qual è il rimedio ? L’elezione popolare dei magistrati, ad esempio, del Pubblico Ministero o dei capi delle Procure o di altre categorie di magistrati. Così, la “politicizzazione” diverrebbe sistema e i magistrati sarebbero espressione di una maggioranza politica a cui evidentemente dovrebbero rispondere. Nello stesso senso vanno le tendenze volte ad aumentare la componente “laica” e di nomina parlamentare dei membri del CSM.
E l’obbligatorietà dell’azione penale, diretta espressione del principio costituzionale di eguaglianza ? Questo è il principio. Nei fatti, però, per tutta una serie di ragioni, i pubblici ministeri non riescono, di fatto, si ripete, a garantire questo principio, perché non ce la fanno materialmente a perseguire immediatamente tutti i crescenti reati che una società ormai priva di punti di riferimento e di valori, autenticamente “spappolata” e ridotta a struttura informe, alimenta giorno per giorno.
Qualcosa di simile accade per le forze dell’ordine, incessantemente impegnate contro la crescente criminalità: quante richieste d’immediato intervento dei cittadini vengono disattese per l’impossibilità di intervenire sempre e dovunque ? Ma per le forze dell’ordine, si tiene conto della realtà e si manifesta (e giustamente) comprensione e si cerca, spesso invano, di intervenire potenziandone gli strumenti e le strutture.
Per i magistrati no. Per loro c’è un pregiudizio negativo. Se non perseguono tutti i reati e immediatamente, è perché sono neghittosi e indolenti. Chi propala tali calunnie, sa benissimo che non è così, ma l’importante è calunniare e qualcosa di falso resterà. Goebbels insegna.
E allora ? Bisogna abolire il principio e legalizzare la discrezionalità dell’azione penale. Questa sarebbe la soluzione.
Invece di ispirarsi alla regola aurea dell’”agere contra” e invece di salvaguardare il principio, cercando di renderlo effettivo, si legalizza la prassi.
E’ un po’ come avveniva nelle polemiche sugli aborti clandestini: si prescinde completamente dalla sostanza e si guarda con un’ottica puramente formalistica. Se ci sono gli aborti clandestini, il problema non sono gli aborti, ma la clandestinità. Basterà legalizzarli gli aborti e tutto sarà risolto: il nascituro sarà “legalmente” soppresso e quell’atto non costituirà più un delitto. Semplice no….certo, per il nascituro quello che conta è la sostanza, non la forma: essere soppresso legalmente o clandestinamente non fa differenza, ma la sua “opinione” non conta, com’è noto.
I Pubblici Ministeri sono aprioristicamente orientati ad affermare la colpevolezza degli indagati e non rispettano la norma che impone loro ogni accertamento anche a favore degli indagati ? Benissimo, il principio va buttato a mare e va legalizzata la prassi illegittima che, in quanto legalizzata, cessa di essere illegale. E allora: ecco la separazione delle carriere, con un PM progressivamente privato del rapporto con la giurisdizione e ridotto, via via, ad un superpoliziotto – funzionario da cui non ci si attende più un atteggiamento di indipendenza e di rigorosa imparzialità.
Ma il colmo lo si tocca con l’insostenibile riduzione delle risorse: tanto per fare un esempio, le spese vive per i consumi intermedi (acqua, luce, gas, fax, armadietti, benzina), destinate alla Giustizia, subiranno una falcidia del 22% nel 2009, del 30% nel 2010 e addirittura del 40% nel 2011. E si tratta di spese già dimezzate nel quinquennio berlusconiano e passate dai 202 milioni del 2002 ai 107 milioni del 2006 ! Passando, tanto per citare un altro esempio, al personale amministrativo, indispensabile al lavoro dei magistrati, vi è una scopertura media del 14 %, che si ridurrà ulteriormente del 10 %…
E’ qui che… cade l’”asino”. Se si destinassero alla Giustizia le risorse adeguate, si potrebbe avere il coraggio di impartire lezioni di produttività e di efficienza ai magistrati, ma in questa situazione, il minimo che possano fare i politici è tacere, per decenza, solo questo.
C’è qualcosa che non torna nell’atteggiamento dei politici a cui sembra interessare soprattutto di indebolire l’Ordine giudiziario, ostacolare le indagini e impedire l’accertamento delle responsabilità, salvo quando si ha a che fare coi “proletari” del Terzo Millennio, pregiudicati ed extracomunitari, non con gli eredi “borghesi” del ’68.
Circolo chiuso, quindi e come avviene in Italia, si passa disinvoltamente da un estremo all’altro: dall’ottica “antipolitica” e “forcaiola” del 1992 -.1993 a quella antigiudiziaria del presente.
Quando ci si trova di fronte ad un fenomeno del genere, l’unica soluzione è rompere questa tragica impasse e fare tutti un passo indietro.
I magistrati dovranno sì denunciare la drastica riduzione delle risorse dedicate alla Giustizia e il complesso di “intoccabilità” così presente e diffuso in Italia, specie a livello di politici, ma dovranno ispirare la loro azione ad una assoluta imparzialità e isolare e perseguire disciplinarmente e penalmente coloro che violano un canone di comportamento ineludibile per un magistrato.
I politici dovranno chiedersi se un settore così delicato e importante della funzione statuale debba essere così negletto e privato delle risorse fondamentali per funzionare e, soprattutto, se sia giusto che di questo debbano essere incolpati i magistrati che ne sono le prime vittime perché i compiti di apprestare i mezzi perché la Giustizia funzioni spettano al potere legislativo ed esecutivo.
E soprattutto, se compito del politico non debba essere quello, nobilissimo, di farsi carico di tutti e di promuovere il bene comune, senza esclusione di persone o di categorie, bene comune che non necessariamente sempre coincide con quello personale del politico e che non prescinde ma presuppone l’integrità morale di quest’ultimo.
Un passo indietro tutti e un maggior senso del bene comune.