di Lodovico Festa
Dopo la prima ondata manipulitista del 1992, dopo il Grande terrore del 1993 (l’anno del massiccio condizionamento dell’economia da parte del potere giudiziario, dei grandi suicidi e dell’agguato a Giulio Andreotti), nel 1994 la procura di Milano — d’intesa con altri settori della magistratura – abbatte in modo sistematico l’appena eletto governo Berlusconi: è in questa fase che si stringe un rapporto più stretto fra toghe militanti e vasti ambienti dell’‘establishment, nonché si consolida un legame di ferro con settori rilevanti della grande stampa.
«Esigenze mediatiche» che finiscono per trasformare parte del mondo dell’informazione in una sorta di piattaforma per linciaggi. Come di norma, la realtà è dialettica: l’aumento del peso del «diritto» nella vita delle società moderne è anche la via per contenere le invadenze di poteri politici e soprattutto economici particolarmente condizionanti (per non parlare del contrasto alle influenze di organizzazioni più propriamente criminali assai minacciose).
D’altro verso una certa effervescenza dei media è anche la forma in cui si esprime la crescente esigenza del più largo pubblico di essere aggiornato. Però gli abusi determinati dalla tendenza al circuito unificato mediatico-giudiziario, al di là dei pur rilevati aspetti positivi, sono evidenti nel mondo, e in Italia lo sono in modo ancora più clamoroso.
Intrecci sistematici
Sedici anni dopo l’uscita in Italia de Il circo mediatico-giudiziario il vicedirettore di Panorama Maurizio Tortorella, con un vivacissimo libro edito da Boroli (2011), La gogna, ha descritto la dinamica e il contesto mediatico di alcune inchieste giudiziarie (da quella su Giuseppe Rotelli a quelle su Antonio Saladino, Ottaviano Del Turco, Silvio Scaglia, Guido Bertolaso, Calogero Mannino): sono cronache della distruzione sistematica dell’immagine pubblica via stampa – e grazie all’iniziativa della pubblica accusa – di imputati che vengono poi perlopiù assolti o comunque marginalmente condannati. Nel secondo caso, essenzialmente per non smentire i pm: secondo la logica del cane che non mangia cane.
All’interno, dunque, delle tendenze internazionali analizzate dal citato avvocato francese, si sono create in Italia condizioni di intreccio tra amministrazione della giustizia e informazione, eccezionali per sistematicità e non di rado ferocia, che vanno considerate nella loro peculiarità.
È evidente come causa essenziale della nostra eccezionalità sia la configurazione stessa del sistema giudiziario: alla base di tutto, l’ipocrisia della inapplicabile obbligatorietà dell’azione penale prevista dalla Costituzione per fondare l’indipendenza dell’azione dell’accusa dall’indirizzo degli istituti espressione della sovranità popolare.
Definendo così un ordine giudiziario dove – caso quasi unico al mondo — la magistratura inquirente non è separata da quella giudicante, e determinando in tal modo un ordine dal potere di fatto smisurato, inevitabilmente corporativo, quasi incontrollabile e autoreferenziale.
Questo ordinamento fu varato nel quadro della guerra fredda grazie a compromessi tra democristiani e comunisti, pensati per equilibri istituzionali non utilizzabili per rese di conti politici (la logica di questo tipo di compromessi è ben spiegata da Luciano Violante nel suo Magistrati, Einaudi 2009), e ha funzionato (con contraddizioni, ma in qualche modo ha consentito di governare l’Italia per 45 anni) finché è stata mantenuta l’immunità parlamentare (certamente con un bilanciamento di poteri poco trasparente, però in grado di tenere insieme la Repubblica): tolta unilateralmente l’immunità, il sistema si è squilibrato in modo drammatico e nei vent’anni successivi a Mani pulite non si è riusciti a ricentrare i poteri dello Stato.
Questo è avvenuto perché, oltre al di per sé terrificante potere della magistratura inquirente (in più di un’area mossa da logiche politiche), si è sviluppata una parallela iniziativa dei media in grado di destabilizzare qualsiasi equilibrio di governo anche fondato su larghe maggioranze parlamentari.
Centrosinistra e centrodestra meritano giustamente di essere criticati, perché dal 1992 al 2011 non sono stati in grado di riformare in modo coerente e ragionevole la Costituzione a partire dall’ordinamento giudiziario: non è un’attenuante da poco da tenere presente, però, la durezza con cui settori della magistratura, in stretto collegamento con varie appendici mediatiche, hanno resistito al cambiamento.
È innanzitutto questa determinazione (per di più espressa con effetti disgregatori da un sistema quasi feudale come quello di certe procure, capace cioè di disarticolare il potere dello Stato ma non di sostituirlo) che ha portato al fallimento qualsiasi azione riformatrice in campo giudiziario, venisse da uomini del centrodestra come Alfredo Biondi o Roberto Castelli o Angelo Alfano, da grandi giuristi come il magistrato Filippo Mancuso, da politici di centro come Clemente Mastella o Antonio Maccanico, da esponenti della sinistra come Marco Boato, Giuliano Pisapia, Oliviero Diliberto.
Per ricostruire la logica di questo ventennale scacco alla politica da parte di settori fondamentali della magistratura integrati ai media «amici» bisogna riflettere su come sin dalle prime mosse del 1992 si costruisca un rapporto intenso tra toghe combattenti e ampi settori della stampa e della tv.
Allora si trattò innanzitutto di spirito di sopravvivenza da parte di direttori, redazioni ed editori sbandati che si misero a cavalcare acriticamente (per un certo periodo i titoli di giornali di destra, di centro e di sinistra furono uguali: c’era un pool di direttori, dal Giornale all’Unità, dal Corriere alla Repubblica, che ogni sera concordava «la linea» dei vari quotidiani) un’opinione pubblica ugualmente disorientata: una sorta di nuovo 8 settembre.
Già sin dall’inizio la prossimità tra certi pm e certi redattori giudiziari fu la base per il lancio di nuove star mediatiche tra i magistrati (che diverranno poi ministri, senatori o capipartito) e di brillanti carriere giornalistiche. E già dall’inizio l’intimidazione dei proprietari dei media fu largamente adoperata per garantire un sostegno «senza critiche» all’azione giudiziaria.
Redattori fiduciari
II salto però avviene nel 1994, quando l’establishment assiste compiaciuto al linciaggio per via giudiziaria del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, espresso dal voto popolare, ma considerato un invadente outsider.
È in quella occasione che «il frutto» del caso (quello che sancì il matrimonio tra certi settori della magistratura e certi settori dei media) diviene intesa organica tra poteri italiani: da quel momento in poi alcuni settori della magistratura intervengono in modo sistematico per difendere alcune proprietà dei media (i soci sgradevoli vengono puntualmente perseguiti, le manovre ostili agli editori «amici» vengono stroncate con determinazione, i soci editoriali simpatetici vengono protetti con cura) e insieme nei quotidiani si stabilizzano gli esperti di riferimento (solo alcuni uomini di diritto possono intervenire, e sempre in consonanza con le procure combattenti, i costituzionalisti sono selezionati secondo i legami col potere giudiziario) e nelle redazioni vi sono ormai referenti più o meno ufficiali delle varie procure: il redattore espressione di quel pm (chessò di quel pubblico ministero romano o napoletano), quello referente di una certa procura (persino di località tutto sommato defilate come L’Aquila o anche minori come Trani), l’uomo di fiducia di un certo tribunale (a partire da quelli «centrali»: Milano, Torino e così via).
Naturalmente non tutte le ciambelle riescono con il buco, e in una società nonostante tutto aperta come quella italiana (fosse solo grazie all’esistenza dell’Unione europea) non si riesce a piegare l’intera realtà a questo soffocante abbraccio di poteri. Emerge, innanzitutto, man mano una stampa di destra o di centrodestra autonoma che riesce a superare il clima di conformistica omogeneità della prima fase manipulitistica.
Anche se il diffuso sistema di collusione tra potere giudiziario e mediatico alla fine produce una stampa (e una televisione: basti pensare a Michele Santoro) in cui l’elemento scandalistico è quello più rilevante. E questa tendenza condiziona tutto il sistema dell’informazione aldilà delle preferenze politiche, producendo così la sostanziale irrilevanza di quel giornalismo d’analisi qualificata, moderato nello stile ancor più che nei contenuti, che nelle altre società occidentali è elemento fondamentale per il formarsi di un’opinione pubblica libera.
In una fase in cui il mondo politico è così debilitato tra crisi economica e influenze straniere, cercare di immaginare una via di uscita dal tunnel in cui il circuito (nonché circo) mediatico-giudiziario ha cacciato l’Italia non è esercizio semplice. Molte delle proposte che vanno per la maggiore, da quella di affidarsi alle tecnocrazie a quella di sperare in un ritorno di partiti primorepubblicani (non rendendosi conto che gli avanzi di questi ultimi non sono che nomenklature dalle scarse basi sociali e senza vera continuità storica con i soggetti che aldilà di tutto hanno fatto grande l’Italia nel Secondo dopoguerra), non offrono alcuna possibilità di modificare lo stato esistente delle cose: solo allargando le basi dello Stato si può superare la tenaglia mediatico-giudiziaria che blocca parte decisiva di un funzionamento moderno delle istituzioni democratiche.
Ma questo allargamento non è possibile né affidandosi a poteri neutri (o comunque extraparlamentari), che non possono avere sufficiente forza in una società aperta e liberaldemocratica, né dando spazio a soggetti politici sostanzialmente autoreferenziali e dunque inadeguati a fare i conti con una realtà particolarmente difficile da affrontare.
D’altra parte anche quella sorta di immediatezza non priva di tratti populistici con cui sia il leghismo sia il berlusconismo hanno rappresentato settori fondamentali della società italiana, pare giunta a un’impasse non facilmente superabile. Dallo stallo, peraltro, non si esce senza la forza di un popolo come quello italiano, che dalle sue stesse tradizioni deriva l’attenzione per la dignità della persona, cioè la base di ogni vera libertà, ma neanche senza una cultura all’altezza dei problemi in ballo.
Porsi il problema di uno Stato che non domini i suoi cittadini, ma sia al loro servizio, significa superare una lunga storia: anche nella fase repubblicana, senza dubbio la più liberale della vita nazionale, l’incombere della guerra civile virtuale (specchio di quella europea, sia pure negli ultimi cinquant’anni, nella sua fase «fredda») ha costretto a irreggimentare la democrazia all’interno di partiti iperstrutturati e centralistici (un po’ per l’eredità del partito fascista, un po’ per dover fare i conti con il modello leninista del Pci).
Si è detto, poi, richiamando il libro Il circo mediatico-giudiziario, come certe tendenze man mano divenute deprecabili rispondano anche a esigenze profonde e non disprezzabili di una società moderna.
Senza cultura non se ne esce
Anche queste brevi riflessioni spiegano come la forza e la libertà del popolo non possano non richiedere una solida elaborazione culturale per affrontare una storia pesante e l’ardua complessità di una società moderna. Di fatto, riformare l’ordinamento giudiziario non implica solo avanzare proposte legislative (queste sostanzialmente ci sono già: separazione delle carriere, separazione dalla corporazione delle funzioni disciplinari, regolamentazione liberale delle intercettazioni e della custodia cautelare, responsabilità civile dei magistrati), bensì anche costruire un consenso non acquisibile senza riflettere pure sul superamento dell’illegalità diffusa che caratterizza il funzionamento della nostra società (d’altra parte, trattare i cittadini da sudditi, come è tipico dei governi tecnici che si vantano di non dover essere votati, è la base per accumulare nuova illegalità).
Senza cultura non se ne esce. E forse neanche senza che anche a sinistra emerga un rapporto con «il popolo» in carne e ossa, uscendo da un mero confronto con nomenklature, estenuati establishment ed élite, movimenti radicali senza vere radici nella società.
Anche la parte «media» del circuito mediatico-giudiziario richiede una battaglia culturale incentrata soprattutto sul concetto di limite che è stato abolito dal prevalere di una politicizzazione sessantottesca (peggiore persine dell’antica pratica egemonica del movimento comunista) della professione del giornalista, non più artigiano della notizia in un sistema storicamente determinato (dalla proprietà, dalle esigenze di pluralismo, dai limiti dettati dalla privacy), ma funzionario di una missione radicale che deve svelare la vera verità, quella di cui è proprietario l’intellettuale non manipolato dal sistema (ma invece, magari, ben disponibile a lasciarsi guidare da pm ugualmente anti «certi» aspetti del sistema).
È accanto a questa battaglia culturale che si possono poi pensare interventi sistemici per un assetto più razionale del sistema dei media in Italia: a partire dalla televisione per arrivare a forme di distinzione tra editori puri e portatori di interessi complessi (in questo senso basterebbe governare gli ampi contributi che riguardano l’editoria per ottenere rapidi risultati).
Né sarebbe male riflettere su come le banche particolarmente aiutate in questa fase di crisi dovrebbero essere costrette ad abbandonare le proprietà di case editrici, consentendo così ai cittadini di poter contare su media meno compiacenti nell’analisi del mondo finanziario.