di Gian Paolo Salvini sj
Da anni anche in Italia si è diffuso un certo allarme per la progressiva scarsità di clero, sia secolare, cioè i sacerdoti diocesani, sia regolare, cioè i religiosi, anche se con ampie oscillazioni da regione a regione. Per rendersi meglio conto della situazione la Fondazione Giovanni Agnelli, laica ma attenta agli aspetti religiosi della società, ha compiuto un’interessante ricerca sul clero diocesano, d’intesa con la Conferenza Episcopale Italiana (Cei), recentemente pubblicata (1). Essa è stata curata dal sociologo Luca Diotallevi e dal demografo Stefano Molina.
L’accuratezza delle indagini statistiche sono state favorite dall’esistenza dell’Istituto Centrale per il Sostentamento del Clero (lcsc), che ha messo a disposizione la propria banca dati, ovviamente accurata, dovendosi in base ad essa corrispondere le remunerazioni mensili ai sacerdoti diocesani. Come è ormai evidente, l’influenza della religione nel nostro Paese è tutt’altro che tramontata e non sembra per ora affatto destinata a declinare. Non pochi piuttosto paventano un ritorno del clericalismo, dovuto all’ingerenza del clero nella vita civile, e di una eccessiva commistione tra il sacro e il profano, dovuta ai cosiddetti «laici devoti».
In Italia, del resto, gli studi di sociologia religiosa relativa al clero sono stati in passato piuttosto scarsi. In base ad essi però si era constatato che l’andamento della densità del clero non era necessariamente correlato, in modo stabile e negativo, con il processo di modernizzazione sociale. Oggetto dell’indagine è stato soltanto il clero diocesano (o secolare), non i religiosi.
Il primo è inserito in un preciso sistema di organizzazioni che gli consentono di svolgere il proprio ruolo, le parrocchie in particolare. Dal Concilio di Trento in poi parrocchia e clero diocesano sono realtà che sociologicamente si intrecciano e si sostengono reciprocamente in modo intenso. Il clero italiano è tuttora il più numeroso del mondo e, secondo i Curatori della ricerca, forse anche il più influente nel proprio Paese rispetto ad altri.
Uno sguardo al presente e al recente passato
I sacerdoti italiani all’inizio del 2003 erano 32.990(2), con un’età media di 60 anni, cioè piuttosto elevata, se confrontata, ad esempio, con quella della popolazione maschile italiana sopra i 25 anni, che era di 50 anni. II divario passa da 10 a 15 anni se confrontato con la popolazione maschile occupata. Il sacerdote è quindi un uomo maturo o un lavoratore che ha maturato una lunga esperienza.
Considerando le regioni (3), l’età media varia dal massimo nelle Marche (64,2 anni), seguite da Piemonte (63,7), Emilia-Romagna (63,3) e Liguria (63), al minimo, nell’ordine, in Puglia (56,8), Basilicata (55,8), Calabria (54,7) e Lazio (54,5), il quale è perciò la regione che ha il clero mediamente più giovane in Italia. Queste differenze si spiegano almeno in parte considerando le popolazioni delle rispettive regioni. In Liguria l’età media di tutta la popolazione è di circa 8 anni superiore a quella della Calabria. Il clero non fa che rispecchiarla.
Le leve più folte (cioè con oltre 600 sacerdoti) sono quelle che vanno dai 55 agli 81 anni (i nati tra il 1921 e il 1947 rappresentano più del 54% dei sacerdoti). Anche nelle file del clero si sono ripercosse le due guerre mondiali; le file di coloro che sono nati negli anni dei due conflitti sono più esigue, come in unta la popolazione italiana, mentre il periodo del cosiddetto baby boom si riflette anche nel Rinfoltimento delle relative fasce di età del clero.
Di fatto si possono considerare tre tipi di struttura per età del clero: a) quella del Lazio e della Calabria, dove le leve giovani tendono a prevalere su quelle anziane; b) quella della Lombardia (accompagnata da Toscana, Abruzzo-Molise, Campania, Puglia, Basilicata e Sicilia), che presenta un relativo equilibrio tra componenti giovani e anziane; e) la struttura del Piemonte e delle altre regioni centro-settentrionali (Liguria, Emilia-Romagna, Marche. Sardegna, Triveneto e Umbria) dove le leve giovani sono sensibilmente ridotte rispetto a quelle anziane.
Se si esamina il «ricambio» del clero in Italia, cioè quanti nuovi sacerdoti arrivano a sostituire quelli che escono (per morte o per abbandono), si vede che in Italia più del 40% dei sacerdoti in uscita non viene sostituito. Soltanto in Lazio, Calabria e Puglia si nota un aumento del clero, mentre in tutte le altre regioni sta diminuendo, in particolare nelle Marche e in Piemonte, dove le uscite sono rispettivamente triple e quadruple rispetto alle entrate.
Un altro aspetto importante è quello della presenza sempre più diffusa dei cosiddetti «grandi vecchi», cioè di sacerdoti sempre più anziani e spesso non autosufficienti. Per fortuna l’allungamento della vita media è stato accompagnato anche da un allungamento della vita utile e della salute. Se una volta si fissava il limite medio di non autosufficienza ai 75 anni, oggi esso raggiunge e supera gli 80. Ma si tratta di un valore medio, perché tutti conosciamo anche novantenni lucidi e attivi. Per fortuna il livello di efficienza fisica e mentale non corrisponde a una età precisa.
A livello nazionale i sacerdoti con 80 anni e più sono il 12,8% del totale: uno ogni otto sacerdoti. Soltanto nel Lazio, Basilicata e Lombardia la quota è inferiore al 10%. All’estremo opposto c’è la Liguria con il 19,8% del clero ultraottantenne. L’anzianità media di servizio — se vogliamo considerare il sacerdozio una professione — è pure molto elevata: 33 anni sul piano nazionale, ed è molto più lunga rispetto alla durata media dei rapporti di lavoro (presso lo stesso datore di lavoro) che in Italia è pari a 11,6 anni.
Se in Italia la disponibilità al cambiamento è assai bassa, nel clero è minima, per ovvi motivi. La distribuzione dei sacerdoti per anno di ordinazione è pure interessante: le leve più numerose si concentrano negli anni 1947-57 e 1963-68.
Si tenga però presente che stiamo parlando delle ordinazioni dei sacerdoti «sopravvissuti» alla data dell’indagine, cioè il 2003. Le ordinazioni furono in realtà assai di più: nel 1951, ad esempio, le ordinazioni furono 826, ma nel 2003 di quei sacerdoti ordinati ne rimanevano soltanto 558, a causa dei decessi o degli abbandoni (5).
In ogni caso le ordinazioni in pochi anni si sono dimezzate, passando dalle 740 del 1969 alle 558 del 1972, fino alle 388 del 1977. Il minimo storico è stato toccato nel 1983 con 344 ordinazioni. Il 50% dei sacerdoti italiani è stato ordinato prima del 1967, cioè prima dell’entrata in vigore delle riforme del Concilio Vaticano II.
Un elemento da tener presente è pure l’aumento costante dell’età dei candidati al momento dell’ordinazione, che dai 23 anni del 1928 è andata costantemente aumentando sino ai 30 e più anni del 2001. È del resto un andamento che corrisponde a quello dell’età media di coloro che si sposano, la quale per gli uomini è in Italia di 32 anni.
Si entra più tardi nell’età adulta, la formazione e più lunga e si tende a rinviare decisioni che comportano scelte definitive. Numericamente il clero si concentra in Lombardia (5.529 sacerdoti) e nel Triveneto (5.265), seguite dal Piemonte (2.775) e dall’Emilia-Romagna (2.570), mentre all’estremo opposto troviamo la Sardegna (855), l’Umbria (670) e la Basilicata (327).
Ma questo corrisponde semplicemente alla distribuzione della popolazione italiana: Lombardia e Triveneto hanno rispettivamente circa 9 e 7 milioni di abitanti. Mentre Basilicata e Umbria sono le regioni con il minor numero di abitanti: meno di un milione.
I sacerdoti italiani all’inizio del Novecento erano 68.848 per una popolazione dì 33 milioni. 50 anni dopo, nel 1951, erano diminuiti del 30%: 47.117, mentre la popolazione era cresciuta a 47 milioni. Oggi non arrivano a 33.000 — in un secolo si sono quindi più che dimezzati — per una popolazione che supera i 57 milioni. La «densità» dei sacerdoti in Italia è perciò costantemente diminuita.
Per offrire un confronto, la densità di sacerdoti (cioè il numero di sacerdoti per 1.000 abitanti) in Italia è di 0,58, mentre ci sono 0,08 notai per 1.000 abitanti, ma 21,4 insegnanti, sempre ogni 1.000 abitanti. I sacerdoti sono più presenti delle ostetriche (0,26) e dei ricercatori universitari (0,36), ma la densità del clero è inferiore a quella dei dentisti (0,60), degli psicologi (0,66) e dei commercialisti (0,89). Ci si può consolare constatando che in Belgio e Spagna, Paesi tradizionalmente cattolici, la densità di sacerdoti è pari a 0,46, mentre in Francia e Austria è di 0,31 per 1.000 abitanti,
Dal punto di vista regionale la densità è massima in Umbria (0,80), nel Triveneto (0,78) e nelle Marche (0,77), e minima in Sicilia (0,44), nel Lazio (0,39) e in Campania (0,37). Esaminando più da vicino i dati si può vedere che la densità è maggiore nelle regioni con sacerdoti più anziani. Avere molti preti non significa cioè necessariamente avere preti più giovani.
Indicando invece l’inverso della densità, cioè il numero di abitanti per sacerdote, a livello nazionale ci sono 1.724 residenti per sacerdote, che variano dai 2.564 in Campania ai 1.20.5 in Umbria. Interessante è anche osservare che la copertura delle parrocchie è molto bassa (inferiore all’unità) in Emilia-Romagna, Toscana e Abruzzo-Molise, regioni in cui molte parrocchie sono affidate a religiosi. All’estremo opposto ci sono Lombardia e Puglia, che hanno quasi due sacerdoti diocesani per parrocchia e un basso numero di parrocchie affidate a religiosi.
I sacerdoti nati all’estero e le nuove ordinazioni
Un fenomeno nuovo, ancora difficile da valutare (e poco studiato), è quello dei sacerdoti nati all’estero e operanti poi in Italia, clero che l’indagine oscilla nel definire «immigrato» o «di importazione». Quelli nati all’estero e incardinati in diocesi italiane all’inizio del 2003 erano quasi 1.500, cioè il 4,5% del totale. «Nati all’estero» non significa necessariamente stranieri in termini di cittadinanza, ma qui non è possibile approfondire la composizione dei dati.
In quattro Regioni del Centro Italia (Lazio, Toscana, Umbria e Abruzzo-Molise) la percentuale dei sacerdoti diocesani nati all’estero è superiore al 10%: il massimo si registra nel Lazio con il 21%. Il livello minimo è in Lombardia: meno dell’1%. Concretamente l’Umbria conta 79 sacerdoti nati all’estero, mentre la Lombardia, assai più grande, ne conta soltanto 48. Nel Lazio ne sono presenti 462, in Toscana 230 e nel Triveneto 106. In Basilicata solamente 10.
Come Paesi di provenienza, il numero maggiore proviene dalla Polonia (232) seguita nell’ordine da Congo (Zaire) (96), Colombia (86), India (82), Francia (68), Romania (64), Brasile (55), Nigeria e Stati Uniti (53), Svizzera (43), Argentina e Spagna (40), Filippine (39) ecc. In genere sì tratta di un fenomeno recente, come dimostra la giovane età media di questi sacerdoti, inferiore di circa 20 anni a quella dei sacerdoti nati in Italia, un vero salto generazionale.
Se in passato questo tipo di presenza poteva essere considerato occasionale, oggi il fenomeno «sembra invece rispecchiare una chiara strategia di reclutamento non convenzionale» (p. 58). Anche in questo caso si tratta di un fenomeno che accompagna quello più generale dell’immigrazione sempre più consistente di lavoratori stranieri in Italia, in genere provenienti da Paesi a basso reddito.
Il caso limite è costituito dall’Umbria, dove tra le giovani leve la quota di sacerdoti nati all’estero arriva al 50%. Le nuove ordinazioni in Italia per il periodo 1983 -2002 sono sfate 461 all’anno, distribuite in modo assai irregolare, dalle 77 della Lombardia (seguita dal Triveneto con 55, dal Lazio con 50 e dalla Campania con 39) alle 7 della Basilicata (preceduta dall’Umbria con 9 e da Sardegna e Marche con 10). Se, con questo ritmo, si volesse mantenere invariata la densità del clero, i sacerdoti dovrebbero restare in attività 71 anni a partire dall’ordinazione sacerdotale dato del tutto irrealistico.
Anche tra i nuovi ordinati si nota perciò un aumento significativo dei candidati nati all’estero: nel 2003 su 435 nuovi ordinati, 77 erano nati all’estero, cioè il 18% del totale. Inutile dire che la difficoltà di reclutare giovani locali nasce anzitutto dal fatto che ci sono meno giovani. In Liguria, ad esempio, è vero che ci sono poche ordinazioni, ma ci sono anche pochissimi giovani in assoluto, dato il costante invecchiamento della popolazione.
Ci sono poi regioni, come Basilicata, Calabria, Puglia, Lombardia, Triveneto, Sicilia e Sardegna che cedono sacerdoti alle altre regioni, mentre Liguria, Piemonte, Toscana, Lazio, Umbria e Abruzzo-Molise ne attraggono. Altre infine, come Marche e Campania, sono autonome. Negli anni più recenti però alcune di queste posizioni si sono modificate: Piemonte e Umbria, che importavano sacerdoti, sono ora autonome; mentre Basilicata e Calabria non ne esportano più.
Uno sguardo al futuro
In base ai dati precedenti è possibile fare alcune previsioni per il futuro, abbastanza attendibili data la lentezza dei mutamenti che interessano una popolazione e l’elevata forza di inerzia che ne regola l’evoluzione, con ampi margini di aleatorietà, dati da fattori non facilmente ponderabili. Si pensi soltanto al problema degli abbandoni: negli ultimi anni se ne sono registrati circa 40 all’anno, un valore molto inferiore agli oltre 100 dei decenni precedenti e il cui andamento non è facilmente prevedibile.
A seconda delle variabili adottate, la ricerca formula diverse ipotesi o scenari: se il numero di ordinazioni si mantiene costante (intorno alle 500 all’anno), nel 2023 i sacerdoti diocesani si ridurranno da 33.000 a 25.400, con una riduzione del 23%, ma con sensibili variazioni da regione a regione; ad esempio, Piemonte e Marche vedranno una riduzione anche del 40%.
Soltanto Basilicata e Calabria vedranno crescere il numero dei sacerdoti, come pure il Lazio, ma quest’ultimo per effetto di un notevole flusso di sacerdoti provenienti dall’estero, se continua la tendenza attuale. Se oggi un sacerdote su 20 è nato all’estero, nel 2020 lo sarà uno su 10.
Paradossalmente invece l’età media del clero ringiovanirà, per la scomparsa di tanti sacerdoti anziani che sono oggi presenti in Italia. Una seconda ipotesi prevede la costanza dei tassi di reclutamento attuali. Ora in Italia nascono sempre meno maschi; nel 1956 ne nacquero 450.000, che salirono a 503.000 nel 1960 (in pieno baby boom). Ma nel 1986 il numero dei nati maschi è stato di 286.000 e intorno a questa cifra ha continuato a mantenersi sino a oggi, oscillando tra i 260.000 e i 290.000.
I giovani maschi, attualmente circa 4.400.000, sono destinati a diminuire sino a 3.000.000 per effetto della bassa natalità degli anni Ottanta e Novanta. Poiché i giovani maschi destinati a diventare sacerdoti nei prossimi anni sono già tutti nati, se il reclutamento continuerà agli stessi livelli, nel 2023 il numero dei sacerdoti in Italia sarà ancora minore che nell’ipotesi precedente: 21.275.
Inoltre è probabile che il numero crescente di figli unici renda meno disponibili le famiglie a vedere l’unico discendente intraprendere un percorso di vita del tutto particolare come quello del sacerdote, che, fra l’altro, rende impossibile la discendenza. Se invece si volesse mantenere costante la «densità» dei sacerdoti in Italia, in alcune regioni, come Marche e Triveneto, sarebbero necessari flussi di ordinazioni tripli rispetto ai livelli attuali.
In tre regioni, Lazio, Basilicata e Calabria, sarebbe sufficiente mantenere il flusso attuale, mentre in tutte le altre regioni sarebbe necessario un cospicuo incremento delle ordinazioni che, a livello nazionale, dovrebbero passare dalle attuali 500 a oltre 870. Occorrerebbe quindi uno sforzo di reclutamento molto maggiore di quello attuale, anche se, in qualunque ipotesi, esso non sarà in grado di compensare il calo previsto. Sembra evidente poi che «la “produzione” di nuovo clero è sempre meno un processo sociale “spontaneo”» (p. 19.3).
Qualche conclusione
Volendo trarre qualche conclusione soprattutto circa il «cosa fare», si può anzitutto notare come sembri superata la lettura dei dati in base a precomprensioni di tipo ideologico, come l’irreversibilità della secolarizzazione o un improbabile ritorno al «sacro» nei termini di un tempo. Un certo equilibrio però sembra essersi rotto e non sarà facile crearne uno nuovo.
Poiché, qualunque sia l’ipotesi adottata, il numero dei sacerdoti diocesani in Italia diminuirà, sarà necessario pensare anche a una ristrutturazione delle organizzazioni ecclesiastiche esistenti, che trova in questo tipo di clero la struttura portante. La demografia insegna che le trasformazioni di una popolazione avvengono lentamente e c’è quindi tempo per pianificare qualche risposta adeguata, riducendo, ad esempio, le parrocchie e gli uffici di curia.
«Con una piramide ecclesiastica “schiacciata”, si tenderà a divenire subito parroci (dunque in difetto di tirocinio) e molto probabilmente a rimanerlo a lungo, forse per sempre, magari in non più di uno o due posti per tutta la vita ministeriale» (p. 198).
Questo significa che si riducono le possibilità di «carriera» che, in ogni struttura organizzativa, costituiscono normalmente uno dei principali stimoli per migliorare le prestazioni individuali e per la selezione del personale. Gli autori della ricerca notano che, in questa situazione, gli stimoli e i riconoscimenti anche semplicemente pastorali, potrebbero venire cercati dai sacerdoti presso altre esperienze ecclesiali.
«Come spiegare altrimenti che ai movimenti sono più interessati i preti che i laici?» (p. 198 n. 12) (6). Il problema della «importazione» del clero dall’estero, se da un lato manifesta la cattolicità e la missionarietà della Chiesa, dall’altro pone delicati problemi di inserimento nel contesto italiano (come l’estraneità culturale, del resto risolvibile) e di impoverimento dei Paesi di origine (tranne forse il caso della Polonia).
Le motivazioni del trasferimento in ogni caso devono essere evangeliche e non solo dovute alle maggiori gratificazioni e ai maggiori mezzi che questi sacerdoti trovano in Italia. In ogni caso è una soluzione fragile, perché dipende da fattori non permanenti. Non è detto, ad esempio, che la massiccia presenza di sacerdoti polacchi in Italia continui anche dopo la scomparsa di un Papa polacco.
Inoltre, benché la ricerca non li abbia inclusi nella sua analisi, i religiosi presentano problematiche non dissimili, accompagnate da crisi di vocazioni e di reclutamento, e non sarà dal loro mondo che verrà la soluzione al problema del clero diocesano. La parrocchia italiana, «principale istituzione so ciò religiosa del panorama nazionale a partire dal Novecento, non è sicuramente in imminente pericolo di sparizione» (p. 202).
Ma è probabile che debba trasformarsi, e non è questione che riguardi soltanto la struttura interna della Chiesa, poiché si tratta di un elemento fondamentale del generale tessuto sociale italiano, tuttora molto apprezzato dagli italiani. Ma non sarà facile operare trasformazioni che raggiungano lo stesso risultato positivo e la stessa efficacia ottenuti in passato con le parrocchie che conosciamo.
Anche se, in base ai dati offerti dalla ricerca, di tipo statistico, abbiamo insistito sull’aspetto quantitativo del clero, è importante riflettere anche su quello culturale e funzionale o, se si vuole, pastorale e teologico, che dovrebbero essere alla base di ogni vocazione sacerdotale. Già altre Chiese locali funzionano con un rapporto clero/residenti molto più basso di quello italiano.
E nella società moderna si assiste continuamente a una maggiore produttività ed efficienza con un numero di persone minore rispetto a quello impiegato in passato. Molti ruoli tradizionalmente esercitati dal clero non sono più ritenuti oggi specifici del sacerdote. E vero che la Chiesa ha una sua specificità che non si lascia sempre ricondurre alle logiche di una grande azienda, ma molte analogie possono essere utili.
In passato la Chiesa italiana, soprattutto grazie ai suoi sacerdoti, ha saputo assicurare una presenza capillare sul territorio, che costituisce un vero tesoro pastorale e sociale. Si tratta di mantenere viva questa tradizione in forme probabilmente da inventare, ma non rinfoltendo il clero in un modo qualsiasi. La ricerca si mostra critica verso le nuove soluzioni che vengono alle volte presentate.
«Il difficile rapporto tra sacerdote (e tra “chiesa”) da un lato e società a modernizzazione avanzata dall’altra non si risolve gonfiando i ranghi del clero attraverso preti uxorati o introducendo il sacerdozio femminile. Di per sé, anche queste figure sono destinate a conoscere gli stessi problemi e le stesse difficoltà funzionali del clero attuale, come molte ricerche empiriche evidenziano chiaramente» (p. 204).
Anche se è indubbio che. ad esempio, il doveroso accento posto sulla centralità dell’Eucarestia nella vita di un sacerdote si sia concentrato piuttosto su quale debba essere il contenuto teologico eucaristico che non sulla risposta all’ineludibile domanda «con quali sacerdoti» celebrare l’Eucarestia?
Con il passare degli anni, la parte del clero diocesano che ha vissuto il Concilio Vaticano II e le sue spinte di rinnovamento andrà rapidamente riducendosi. Perciò sarà necessaria una forza particolare, come quella che sia Giovanni Paolo II sia Benedetto XVI hanno esercitato ed esercitano, perché questa memoria propulsiva si conservi e sia sostenuta dai vescovi in modo adeguato.
Una cura particolare andrà dedicata alle politiche di reclutamento, spesso lasciate ancora oggi a una certa inerzia tradizionale, dovuta alla rassegnazione o mancata consapevolezza della situazione mutata. In particolare, non esistono più le famiglie numerose, religiosamente impegnate, nelle quali era naturale il sorgere di vocazioni sacerdotali e religiose.
Oggi è sempre maggiore il numero di vocazioni «mature», che si manifestano cioè in età avanzata. Esse non provengono generalmente dalla socializzazione infantile e adolescenziale che tanta parte aveva in passato nel reclutamento, preparandone il terreno di fioritura, ma da una scelta più personale e meno dipendente dall’aria che si è respirata nell’infanzia.
Per queste persone è più importante il ruolo di chi sa far affiorare la vocazione (che è sempre anzitutto dono e frutto dell’iniziativa di Dio) e la aiuta a maturare, che quello di chi si limita a raccogliere una vocazione che era già cresciuta in un ambiente ad essa propizio. Ma sono tutte ipotesi da inventare e da verificare continuamente.
«Un ipotesi di lavoro è che i dati successivi al 2000 mostrino come una pastorale giovanile fatta molto negli ultimi lustri di “eventi” e di “movimenti”, se mai ne ha avuta, abbia cessato di produrre una “spinta propulsiva” anche solo quantitativa sui processi di reclutamento del clero diocesano in Italia» (p. 212).
Non pochi vedono buone possibilità future in una rinnovata combinazione di parrocchia e associazionismo cattolico, Ciò che è evidente è che sacerdoti reclutati sempre più in età adulta saranno diversi dai preti di una volta, per cultura, mentalità e memoria: più difficili da gestire, perché già con una propria formazione ed esperienza di vita (così come avviene per i nuovi mariti adulti di oggi) e con le proprie paure, oltre all’atteggiamento di reversibilità delle scelte tipico del mondo d’oggi.
Saranno disponibili alle prestazioni richieste non più in modo spontaneo, ma soltanto se adeguatamente motivate e richieste. Ma lo scenario non è pessimistico. Molti studiosi convengono nell’affermare che il caso italiano costituisce «uno dei migliori esempi di adattamento della religione, e soprattutto di una religione di chiesa (church oriented religion), a una società a modernizzazione avanzata» (p. 215).
L’Italia perciò dovrebbe trovarsi anche nel prossimo futuro in una situazione migliore, ad esempio, di Francia e Spagna, dove pure del resto la Chiesa è tutt’altro che agonizzante.
In definitiva, si può sperare in una ripresa delle ordinazioni, come si è verificato in passato, quando ci furono anche innovazioni nelle «politiche» ecclesiastiche e in particolare in quelle vocazionali e formative. Come notava mons. Giuseppe Beton, segretario della Cei, alla presentazione della ricerca: «Persino se guardiamo al clero, la Chiesa italiana è per tanti aspetti simile e profondamente solidale con molti se non tutti i processi di trasformazione che interessano la popolazione di questo Paese, persino con quelli più semplicemente demografici».
È quindi uno studio che toglie certezze e paure in eccesso, e che può offrire utili strumenti per preparare il terreno al dono di sacerdoti adatti ai tempi nuovi, nei quali pure il Signore non può mancare di suscitare giovani che lo servano generosamente nel modo necessario alla sua Chiesa.
Note
1) Cfr L. Diotallevi (ed.), La parabola del clero. Uno sguardo socio-demografico sui sacerdoti diocesani in Italia, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 2005. A tale testo si riferiscono le pagine citate nel testo senza altra indicazione.
2) Di questi, 19 sacerdoti non sono attribuibili a una specifica regione pastorale. Inoltre i dati dell’lcsc non comprendono circa 2.000 sacerdoti diocesani in servizio presso la Santa Sede o in situazioni particolari.
3) I dati si riferiscono alle regioni pastorali, che in Italia sono 16 e che non sempre coincidono con le Regioni della Repubblica, le quali sono 20.
4) In Italia essa è mediamente più lunga che altrove: negli Stati Uniti e Gran Bretagna i rapporti di lavoro in corso hanno una durata di 7,4 e 7,8 anni; in altri Paesi la durata si avvicina alla nostra: in Francia è di 10,7 e in Germania di 9,7.
5) Occorre ricordare che il numero dei sacerdoti diocesani può diminuire anche per l’ingresso in Ordini religiosi o per trasferimenti definitivi all’estero.
6) La percentuale di sacerdoti coinvolti in «nuovi movimenti ecclesiali», per quanto modesta, è più elevata non solo di quella dei battezzati coinvolti negli stessi, ma anche di quella dei battezzati praticanti regolari.