Avvenire.it 3 aprile 2014
di Carlo Bellieni
Il Codice di deontologia medica è sul punto di cambiare: la nuova versione ha aspetti positivi e punti nevralgici da migliorare, ma c’è una domanda che lo mette sotto giudizio: perché per secoli è bastato un codice ippocratico di dieci righe e ora serve un documento di 80 articoli?
Già: l’attuale Codice è un lungo insieme di mansioni, impegni e clausole con tante pagine e articoli a ribadire quello che già la legge o il buon senso prescrivono: infatti c’è davvero bisogno di sancire che «il medico fonda l’esercizio delle proprie competenze tecnicoprofessionali sui principi di efficacia e appropriatezza», o che «persegue l’uso ottimale delle risorse pubbliche e private», come se questo non fosse un presupposto intrinseco e ovvio?
Ma tanti dettagli normativi servono a far fronte a una perdita di unità, cioè di un’etica che si condensava in poche parole riconosciute e accettate da tutti: onorabilità, rispetto della vita, discrezione, sapienza. Scompare anche la parola «coscienza» (articolo 22) quando si parla di far valere le proprie convinzioni, lasciando solo il riferimento ai «propri convincimenti etici», come se la coscienza non ne fosse una necessaria integrazione. Ora per portare il flusso dell’attività medica negli stessi argini occorrono lunghi discorsi, e si cerca di far fronte con tante regole a un unico disamore.
Già, il disamore: la deontologia medica dovrebbe risolvere, in primis, il paradosso di una professione che si è burocratizzata, ma che al tempo stesso tratta intimamente e drammaticamente con la vita e la sofferenza: cosa disorientante e ambivalente per i medici e i malati. E che provoca, appunto, disamore. Urge formare e supportare un medico che unisca – non per contratto, ma per passione – il saper curare col saper comunicare (anzitutto saper comunicare se stessi per dare fiducia). Ma c’è traccia di questo nel nuovo Codice deontologico medico? Si prova a invogliare alla comunicazione col paziente, ma il Codice sembra annoverarla minuziosamente nell’orario di lavoro (articolo 20) lasciandola in un quadro di freddezza e distacco.
D’altronde questo è quasi ovvio in un Occidente dove gli ospedali diventano aziende, i pazienti si trasformano in «utenza», i medici sono «fornitori di servizio» o «dirigenti»’. Ma è di questo che c’è bisogno? Di medici-capitreno (con tutto il rispetto per i capitreno) che ti portino laddove per contratto stabiliscono di portarti? Qualche volta si pensa che già questo sarebbe tanto, ma equivarrebbe ad abbassare il tiro. Dalla deontologia medica ci aspetteremmo una riaffermazione di poche cose, ma chiare: che
Curare vuol dire ‘avere a cuore’, che guarire significa ‘fare schermo al debole’, che la salute non è un utopico completo benessere psicofisico, ma sentirsi a proprio agio anche nel caso la malattia non sia guaribile e la disabilità non si risolva.
Oggi davvero pochi sono quelli che insegnano tutto questo. Troppo facile, come fanno molti, è identificare il medico con ‘colui che fa passare il male’, e se non ce la fa ha fallito o delega ad altri il cammino accanto al paziente che i medici di un tempo si ostinavano con coerenza e vigore a chiamare ‘cura’.
L’antico giuramento di Ippocrate riassumeva l’arte medica in queste parole: «Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia arte», con la promessa di rispettare vita e salute, di non rivelare segreti dei pazienti e di regolare «il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio». Queste poche parole sono bastate per secoli. I tempi cambiano, e le parti ‘non politicamente corrette’ del giuramento sono sparite, si sono moltiplicati i precetti e gli articoli. Come avviene quando si perde la semplicità di un’arte, e si resta obbligati a sostituire smarriti la passione con le regole.