Furono molto complessi i rapporti tra il Partito comunista d’Italia e uno dei suoi fondatori in prigionia
di Roberto Pertici
Si trattò probabilmente della più rilevante operazione di politica culturale del Novecento italiano. Con essa il Partito comunista italiano riuscì a conquistare stabilmente buona parte del mondo intellettuale, dando un inedito prestigio alla propria politica e imponendo una serie di temi con cui la cultura italiana si sarebbe confrontata per oltre un trentennio: insomma, un’operazione “egemonica” in gran parte riuscita.
Essa ruotò attorno all’immagine di un Gramsci leninista e fino in fondo fedele al partito, che approfitta degli spazi che l’amministrazione carceraria gli concede per scrivere qualcosa che duri (com’ebbe a dire) für ewig.Uno dei primi tasselli di questa complessa elaborazione fu l’articolo con cui Togliatti, appena tornato in Italia dall’Unione Sovietica, aveva commemorato il compagno scomparso: era il 30 aprile 1944.
«Strappato violentemente alla vita politica e all’attività di direzione del partito nel 1926 — vi si leggeva — Gramsci (…) arrestato, deferito al Tribunale speciale e condannato non uscì più dal carcere (…). Il risultato dei suoi studi è consegnato in una trentina di quaderni… che sono pure conservati a Mosca, essendo riuscita una cognata del nostro compagno a trafugarli dalla cella la sera stessa della sua morte, grazie al trambusto creatosi».
Questo scritto conteneva una serie inquietante di falsi storici: Gramsci non era morto in carcere, ma nella clinica Quisisana di Roma. Dal 25 ottobre 1934 era in libertà condizionale e aveva ottenuto la piena libertà il 21 aprile 1937, sei giorni prima della morte improvvisa: dei trentatré Quaderni che ci sono pervenuti, ben dodici sono stati scritti fra il 1934 e il 1935, quindi fuori del carcere. Fu solo il primo passo, perché tutto il processo di canonizzazione del pensatore sardo avvenne attraverso un abile occultamento di fatti e di verità, che solo progressivamente sono emerse (spesso a opera di studiosi comunisti e post-comunisti), suscitando domande che mancano ancora di risposte definitive.
Un elemento sul quale esiste ormai un accordo quasi generale è che negli anni del carcere si venne progressivamente logorando il rapporto fra Gramsci e il partito di cui al momento dell’arresto (8 novembre 1926) era segretario generale: si operò qualcosa come un distacco che dopo la sua morte ci si sforzò a lungo di mimetizzare.
Alla vigilia del suo arresto era intercorso un drammatico scambio epistolare fra Gramsci e Togliatti, che si trovava a Mosca. Il primo esprimeva il dissenso del Partito comunista d’Italia sui metodi con cui Stalin e la maggioranza del partito russo stavano liquidando le opposizioni interne e replicava duramente a Togliatti che gli aveva manifestato le proprie riserve su quella presa di posizione: fu il loro ultimo contatto diretto.
Quindici mesi dopo (febbraio 1928), quando il leader sardo era in attesa del processo che poi lo avrebbe condannato a vent’anni di carcere, ricevette da Mosca una «strana» lettera di Ruggero Grieco, un altro importante dirigente comunista: mentre Gramsci ovviamente cercava di minimizzare il suo ruolo nel partito, quella lettera rischiava di provare esattamente il contrario, che cioè vi contava ancora molto. «Onorevole Gramsci — ebbe a dirgli il giudice istruttore — lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera».
Si è molto discusso sulla reale portata della mossa di Grieco. Come che sia, una cosa è certa: essa costituì un rovello continuo e lancinante per il prigioniero, i cui sospetti vennero confermati da una serie di circostanze verificatesi negli anni successivi. Si aggiunga che Gramsci non approvò la “svolta” a sinistra decisa nell’estate del 1928 dal VI congresso del Comintern e che un tale dissenso, in tempi di incipiente stalinismo, costava caro: gli altri reclusi comunisti, infatti, lo vennero sempre più isolando.
I suoi contatti con l’esterno passavano quasi unicamente attraverso la cognata Tania Schucht, impiegata dell’ambasciata sovietica di Roma, e l’amico Piero Sraffa, il noto economista che allora insegnava a Cambridge e che riferiva puntualmente a Togliatti di ogni loro incontro. Tania copiava le lettere che Antonio le scriveva e le faceva avere a Sraffa, che a sua volta le girava a Togliatti: così quella corrispondenza passava attraverso due filtri, quello della vigilanza carceraria e quello del partito.
D’altronde anche la moglie Iulca, che viveva malata in Urss, doveva sottoporre a controllo le lettere in partenza per l’Italia e ciò provocava ritardi nel loro flusso e irritazione nel prigioniero. Si comprende allora quanto Gramsci scrive il 19 maggio 1930: «Io sono sottoposto a vari regimi carcerari: c’è il regime carcerario costituito dalle quattro mura, dalla grata, dalla bocca di lupo, ecc. ecc. (…) Quello che da me non era stato preventivato era l’altro carcere, che si è aggiunto al primo».
Proprio per questo prese una serie di precauzioni: evitò il più possibile di esprimere chiaramente nelle lettere e nei colloqui i suoi pensieri sulla politica del partito, sulla situazione russa, sulle sue prospettive di vita. Da qui lo stile oscuro e criptico di non poche delle Lettere dal carcere, che generazioni di lettori hanno giustificato con la sua intenzione di sfuggire alla censura carceraria: ma i carceri — come abbiamo visto — erano due. La loro lettura quindi non è sempre agevole: c’è sempre il pericolo di banalizzare un passo che in realtà cela un senso riposto, ma anche quello di sovraccaricarlo di significati astrusi e impropri.
Corre arditamente tali rischi Franco Lo Piparo, docente di filosofia del linguaggio all’università di Palermo, da oltre trent’anni studioso di Gramsci, in un suo libro (I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista, Roma, Donzelli, 2012, pagine 144, euro 16). Lo Piparo pone al centro della sua trattazione la lunga lettera di Antonio a Tania del 27 febbraio 1933 (una delle tante omesse nell’edizione del 1947), che per un lettore ingenuo è quasi incomprensibile, tanti sono gli sbalzi tematici e i mutamenti di registro.
Che rinviasse a significati non immediatamente evidenti lo scriveva poco dopo anche Tania a Sraffa, definendola «un capolavoro di lingua esopica» (p. 18). Credo si tratti di una reminiscenza del Che fare? di Lenin, che quei bolscevichi conoscevano a menadito: «In un paese autocratico — vi si legge — dove la stampa è completamente asservita, in un’epoca di reazione politica spietata, la quale reprime anche le minime manifestazioni di malcontento e di protesta politica, improvvisamente si fa strada, in una letteratura sottoposta a censura, la teoria del marxismo rivoluzionario, esposta in linguaggio esopico, ma comprensibile a tutti gli “interessati”». Tale si presentava — a giudizio della cognata — anche quello scritto.
Vi riaffiora subito il fantasma della lettera di Grieco, a proposito della quale Gramsci scrive di aver soppesato tutte le spiegazioni possibili e di essere arrivato a una conclusione: «io sono stato condannato il 4 giugno 1928 dal Tribunale Speciale, cioè da un collegio di uomini determinati, che si potrebbero nominalmente indicare con indirizzo e professione nella vita civile. Ma questo è un errore. Chi mi ha condannato è un organismo molto più vasto, di cui il Tribunale Speciale non è stato che l’indicazione esterna e materiale, che ha compilato l’atto legale di condanna.
Devo dire che tra questi “condannatori” c’è stata anche Iulca, credo, anzi sono fermamente persuaso, inconsciamente e c’è una serie di altre persone meno inconscie. Questa è almeno la mia persuasione, ormai ferreamente ancorata perché l’unica che spieghi una serie di fatti successivi e congruenti tra loro. (…) Ho creduto di doverti scrivere perché mi pare di essere giunto a uno svolto decisivo nella mia vita, in cui occorre, senza più dilazioni, prendere una decisione. Questa decisione è presa. (…) Certe volte ho pensato che tutta la mia vita fosse un grande (grande per me) errore, un dirizzone. (…) Da tutto l’insieme sento che sto attraversando la fase più critica della mia esistenza e che tale fase non può durare a lungo senza determinare, fisicamente e psichicamente, risultati e complicazioni da cui non si può tornare più indietro perché decisive».
Perché mettere la povera Iulca fra i «condannatori»? Perché riferire nella stessa lettera l’impressione «di essere tenuto [da lei] da parte, di rappresentare, per così dire, “una pratica burocratica” da emarginare e nulla più»? Secondo Lo Piparo, Iulca è qui una metafora del comunismo. Sulla base di questi e altri passi da lui minutamente analizzati, l’autore avanza così l’ipotesi che «nella lettera del 27 marzo 1933 Gramsci dichiari e renda ufficiale, anche se in maniera criptica, la propria estraneità, filosofica anzitutto, al comunismo come si andava realizzando e — tendiamo a pensare — al comunismo tout court» (p. 17).
Insomma il Gramsci degli ultimi anni sarebbe diventato un ex-comunista, che si era messo alle spalle l’esperienza del bolscevismo. Di ciò si avrebbe conferma nella riscrittura dei quaderni, che portò a termine nel 1934-35, quand’ormai era in clinica a Formia: nella nuova versione, la terminologia marxista-leninista — sono sempre ipotesi di Lo Piparo —verrebbe sostituita da un’altra riferibile a un paradigma teorico di tipo liberaldemocratico. Così il concetto di «egemonia» che è al centro della riflessione gramsciana dei Quaderni — almeno nella sua accezione finale — non avrebbe più nulla di leninista.
Sono proposte su cui gli studiosi di Gramsci hanno già cominciato e continueranno a lungo a discutere. Ma — credo — si potrebbe utilmente avanzare anche qualche ipotesi diversa: se si leggono le lettere del 1932-1933 (gli anni più drammatici della sua esperienza carceraria) si ha l’impressione che sui problemi teorico-politici ne prevalgano altri che sono molto più elementari: problemi di sopravvivenza.
Gramsci è allo stremo, lo scrive continuamente. Avverte in sé una serie di mutamenti e di degenerazioni psico-fisiche, da cui teme di essere travolto. Ha un unico problema: quello di uscire in qualche modo da quella situazione. La cosa non è facile: la grazia non la vuol chiedere, perché equivarrebbe a un suicidio morale, ma gli anni da trascorrere in carcere sono ancora troppi.
Uno spiraglio si apre alla fine dell’ottobre 1932: in occasione del decennale della marcia su Roma, il regime decide provvedimenti di amnistia e di condono, estesi ai condannati politici. Gramsci ne scrive a Tania già il 31 ottobre e il 9 novembre. La sua condanna potrà essere ridotta, anzi appare ben presto imminente la possibilità di avere nel giro di una quindicina di mesi la libertà condizionale (la pena ancora da scontare doveva essere inferiore ai cinque anni).
Questo diventa — si può dire — il suo pensiero dominante: la «decisione presa» di cui parla nella lettera del 27 marzo 1933 potrebbe essere quella di chiederla in base all’art. 176 del nuovo codice penale, che allora recitava «il condannato a pena detentiva per un tempo superiore a cinque anni, il quale (…) abbia dato prove costanti di buona condotta, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se il rimanente della pena non supera i cinque anni»; e quindi di impegnarsi per scritto a non fare più politica.
Ecco perché pochi mesi prima, appena si era cominciato a parlare della possibilità di riduzioni di pena, aveva proposto un «accordo bilaterale» per cui Iulca (qui evidentemente il partito) e lui dovevano prendere ciascuno la propria strada: la moglie avrebbe potuto «dare un nuovo indirizzo alla sua esistenza», Gramsci sarebbe rientrato «nel suo guscio “sardo”», cioè si sarebbe ritirato dalla politica attiva: questo nella lettera a Tania del 14 novembre 1932.
Il 3 e il 27 febbraio 1933, la segreteria del Partito comunista d’Italia, investita del problema con tutta probabilità da Sraffa, ammetteva il ricorso da parte del leader prigioniero all’art. 176 e il suo impegno «di non dare attività per il Pc»: lo provano alcuni documenti citati da Paolo Spriano già nel 1977. Il 27 marzo Togliatti avanzava una proposta ulteriore: «di fare campagna estero e interno con la parola della libertà condizionale anticipata».
Già nel 1927-28 una serie di analoghe campagne d’opinione per la liberazione di Gramsci erano state lanciate dai comunisti, ma esse avevano avuto un effetto controproducente, irrigidendo Mussolini e impedendo ogni soluzione: ora — scriveva Gramsci alla cognata il 16 maggio — si ripete «la stessa catena di pasticci che si è verificata nel 1927-28 e per la quale il giudice istruttore ebbe ragione di dirmi che pareva proprio i miei amici collaborassero a mantenermi il più a lungo possibile in carcere».
Insomma anche quei nuovi sviluppi lo confermavano nei suoi dubbi e nelle sue diffidenze: il partito lo voleva veramente libero? Una volta scarcerato, non rischiava di diventare un personaggio assolutamente ingombrante? Un “capo” di dubbia ortodossia, con una serie di conti da regolare con gli altri dirigenti?
Il 10 luglio 1933, tuttavia, dà istruzioni alla cognata perché prosegua nella via che le ha prescritta e la invita a scrivere direttamente a Mussolini, anche a chiedergli un’udienza, convinto com’era che «tutto ciò che mi riguarda di una certa importanza, non sarà mai deciso senza una risoluzione del Capo del Governo»: nel novembre successivo, com’è noto, avrebbe lasciato il carcere di Turi e, dopo un transito in quello di Civitavecchia, sarebbe stato ricoverato, sempre in stato di detenzione, in una clinica di Formia. La libertà condizionale (come detto) sarebbe arrivata il 25 ottobre 1934.
Quando la segreteria del Partito approvava una exit strategy di questo tipo, la riteneva un escamotage per sfuggire alla prigione fascista e riprendere prima o poi la vita di rivoluzionario di professione, anche se nell’immediato il prigioniero liberato restava evidentemente “bruciato”: la consentì, infatti, anche ad altri condannati (sarebbe da verificare quanti di costoro ottennero poi effettivamente la libertà condizionale). Ma dalle sue lettere «esopiche» si potrebbe ricavare l’impressione che per Gramsci quel passo contenesse una scelta più radicale: significava sfuggire anche all’altro carcere.
Dal 1991 è nota una lettera di Tania alla sorella di Antonio (18 maggio 1936), in cui le riferisce che Nino vorrebbe lasciare la clinica romana e trasferirsi in Sardegna, a Santo Lussurgio: «è tanto — aggiunge — che egli rumina il pensiero di recarsi nel luogo dove ha passato la sua adolescenza» (p.63). Ma quanto era possibile per altri, era possibile per lui? Uno dei capi del comunismo internazionale poteva ritirarsi in un angolo dell’Italia fascista per trascorrere indisturbato quello che gli restava da vivere ?
Il partito mise in atto un tentativo estremo di fargli cambiare idea, che Lo Piparo commenta adeguatamente. Il 25 marzo 1937, Sraffa raggiunse l’amico in clinica e fece pressioni perché — una volta ottenuta la piena libertà — espatriasse in Urss: fra i tanti argomenti addotti, gli avrà ricordato anche che la sua famiglia lontana (la moglie e i due figlioletti) avrebbe potuto incontrare difficoltà per una sua decisione contraria?
Gli preparò una minuta di richiesta di espatrio, ma gliela spedì da Milano solo il successivo 18 aprile: Gramsci si era impegnato a firmarla? A quali condizioni? Non è possibile saperlo, perché una settimana dopo, all’improvviso, fu colpito dall’emorragia cerebrale che in due giorni doveva portarlo alla tomba. Un esito tragico, che scioglieva in modo imprevisto molti nodi che restavano ancora assai intricati.