di Giuseppe Baiocchi
Ogni tanto basterebbe fidarsi della Storia, per comprendere che anche le sfide del nostro complicato presente possono acquistare una chiarezza imprevista. Vale persino per la questione, che appare esclusivamente contemporanea, delle «unioni di fatto» e del loro riconoscimento legale e civile.
Con un robusto impianto ideologico alle spalle, subito dopo la presa del potere rivoluzionaria, i bolscevichi si dedicarono con zelo alla costruzione dell’«uomo nuovo», che avrebbe sicuramente edificato la società socialista dove, sotto la guida del Partito, sarebbe scientificamente arrivato alla felicità.
E se questo comportava porre rigidi vincoli alla libertà di espressione, alla proprietà dei privati, ai mezzi di produzione dell’economia (per cui tutto diventava dello Stato), si provvedeva nel contempo a rimuovere i vincoli tradizionali della struttura sociale, a cominciare dalla famiglia, per riconoscere (ma solo su questo terreno) la piena libertà dei desideri dell’individuo.
Non è infatti un caso che fin da subito, e cioè dal dicembre 1917, ad appena un mese dalla rivoluzione vittoriosa, si abolisce il matrimonio religioso e si allargano al massimo le disposizioni sul divorzio (istituto già presente da decenni nell’impero zarista): diventa sufficiente la richiesta di uno solo dei coniugi senza altre limitazioni, nemmeno temporali.
In breve tempo la celebrazione e la retorica del «libero amore» assunsero nella macchina propagandistica del regime il valore quasi assoluto di un anticipo certo della futura felicità collettiva, che rendeva ampiamente sopportabili le fatiche e i sacrifici richiesti per l’edificazione sociale ed economica del «sol dell’avvenire».
E dunque, in questa logica, anche il matrimonio civile si assottiglia fino a diventare non più una cerimonia importante e significativa per la vita delle persone, ma un sempre più semplice atto burocratico di registrazione presso l’ufficio anagrafico; non solo, ma qualche tempo dopo, a metà degli anni Venti, si riconosce la condizione pressoché superflua del matrimonio fino alla piena equiparazione delle unioni di diritto con quelle di fatto.
La dichiarazione del capocaseggiato
Negli anni 1926-’27, nel pieno della Nep (la nuova politica economica) e dei primi piani quinquennali per la forzata modernizzazione industriale dell’immenso Paese, la legislazione familiare si adegua al clima paradossalmente sregolato fino al punto di riconoscere tranquillamente null’altro che lo stato di fatto, chiedendo ai conviventi una banale (si direbbe oggi) autocertificazione che comprovi lo stato di «coabitazione coniugale», di «mutuo sostegno materiale», di «economia in comune».
E perché non sfugga niente all’onnipresente burocrazia statale sovietica, basta aggiungere una dichiarazione vincolante del capo-caseggiato, figura chiave del sistema di controllo ramificato del regime sull’intera società.
Certo, nell’impetuoso processo di inurbamento dalle remote campagne (che accompagnerà tutta l’epoca della dittatura staliniana), la coabitazione plurifamiliare nei falansteri dei quartieri periferici cittadini imporrà nel concreto intimità precarie e privacy inesistenti. E tuttavia, se occorrerà arrangiarsi dietro lo schermo provvisorio di una coperta o di un lenzuolo innalzato a trasmettere l’illusione di casa propria, l’unione di donna e di uomo viene attribuita dal regime a una realtà mutevole e impulsiva e per questo accettata, se non incoraggiata come indispensabile sfogatoio a energie altrimenti pericolose se altrove indirizzate.
Nelle unioni di fatto così autorevolmente benedette non c’è invece spazio, a dire il vero e almeno per il popolo, per le convivenze dello stesso sesso: ufficialmente la conclamata omosessualità viene repressa e condannata come «disgustosa degenerazione borghese», pur se tacitamente tollerata quando riguarda alti gradi della «nomenklatura» comunista, anche perché foriera di utili e succosi ricatti.
Nella regia pervasiva e rigida dello statalismo comunista, l’individuo deve quindi annullarsi nella dimensione collettiva: e la comunità alternativa (e «naturale») come la famiglia costituisce un inciampo insieme reazionario e tenacemente contrastato.
Persino nel gorgo dell’universo concentrazionario che dolorosamente contrappunta il mito della rivoluzione felice, la tenuta umana della famiglia viene pervicacemente cancellata. Infatti, se un componente del nucleo familiare viene arrestato e precipitato nell’abisso del Gulag, è facilitata al massimo per il libero «superstite» (coniuge o convivente, figli o genitori che siano) la soluzione giuridica di separazione definitiva.
Il divorzio o il disconoscimento di parentela viene incoraggiato, al punto che non è nemmeno necessario comunicarlo ufficialmente all’altra persona (sia essa moglie e marito, figlio o genitore) che si trova, spesso senza sua colpa, detenuta nel pianeta carcerario.
È il dolente e sradicato paesaggio umano che Alexander Solzenicyn dipinge con partecipe compassione nel complesso della sua opera. E dall’interno dell’arcipelago Gulag (nel secondo dei tre volumi dedicati all’intera vicenda) spiccano i capitoli più laceranti dedicati alle donne e ai minori nei lager. Dove ci si interroga sottotraccia – nel descrivere le infinite vicende di umiliazione della dignità e di abbrutimento obbligato per l’unico fine della mera sopravvivenza – sulla ferita anche sociale portata dalla labilità dei rapporti coniugali e sulla alienante solitudine che pure contraddistingueva la fortunata platea dei «liberi», dei «salvati» o meglio dei non ancora «sommersi».
Di fronte allo smarrimento personalissimo, individuale eppure insieme comune e condiviso, l’unico elemento di tenuta morale e di lotta per non abbandonarsi alla morte resta, sia dentro sia fuori dal Gulag, la tenerezza robusta delle relazioni d’amore e di famiglia: è l’unica speranza che consente di far fronte alla separazione forzosa, al silenzio delle comunicazioni, alla sofferenza e alle angherie quotidiane. E tuttavia, anche per i nuclei sfuggiti al calvario della carcerazione, la quotidiana fatica del lavoro e il materialismo di una miseria diffusa comportano la frequente instabilità delle convivenze e la sostanziale rinuncia al futuro attraverso la generazione.
Il tasso demografico crolla negli anni Trenta, mentre sale drammaticamente il numero degli aborti che nell’ordine delle centinaia di migliaia si avvicina, se non supera in qualche caso, la quota di nati vivi, in particolare nelle campagne. (Anno 1935: 243mila nascite nei villaggi contro 324mila aborti. Nelle città il rapporto è invece di 574mila nati e di 375mila aborti. Ma proprio nella capitale sovietica le cifre ridiventano impressionanti: a Mosca gli aborti sono 15 mila, mentre i nati vivi sono soltanto 70 mila).
Carne da Gulag
Questi dati (che si devono agli studi dell’avvocato Goffredo Grassani, presidente della Confederazione italiana dei consultori familiari, ripresi da Avvenire nel marzo scorso) si apparentano logicamente all’altro elemento che denota il progressivo sfaldarsi della famiglia naturale: sempre in quell’anno infatti a Mosca solo il 7,4 per cento dei genitori dichiara ufficialmente la generazione, mentre per il 25,4 si arriva all’obiezione di paternità e al disconoscimento dei figli. I restanti due terzi non rispondono al censimento sulla prole.
La condizione generalizzata degli «orfani di fatto» coglie impreparato il regime, che tuttavia deve fare i conti con le conseguenze dilaganti e cioè il vertiginoso incremento della criminalità minorile. Quasi un’intera giovane generazione alimenterà poi la costellazione dei Gulag, nelle sezioni riservate ai delinquenti comuni; e, comunque, il disastro sociale è talmente evidente e diffuso da tracimare oltre la censura mediatica e da annullare il poderoso lavoro della macchina propagandistica, teso a magnificare il «paradiso in terra» realizzato dal comunismo. Fino a giungere alle orecchie e sulla scrivania del compagno Stalin.
Il dittatore sovietico è al culmine del potere e sta preparando la grande stagione delle «purghe» e dei processi che, tra il 1936 e il 1939, decapiteranno la «nomenklatura» del partito, dello Stato, dei militari e delle professioni, sulla quale Stalin scaricherà anche le colpe del fallimento del modello sociale.
Eppure il dittatore si sente (e in privato non rifiuta l’appellativo) il «piccolo padre di tutte le Russie», quel titolo affettuoso che dal popolo veniva storicamente rivolto allo zar un tempo regnante. E, come tale, coglie le dimensioni devastanti dell’esperimento sulla famiglia attuato dalla gloriosa rivoluzione.
In pochi mesi impone una integrale marcia indietro. Intanto, da sollecita e amorevole guida dei popoli della Federazione delle repubbliche socialiste, inasprisce la repressione: la soglia di piena punibilità (fino alla pena di morte) viene abbassata all’età di 12 anni; le pene per i reati comuni vengono aggravate e se ne configurano di nuove proprio per i giovanissimi, con specifiche misure di correzione.
Ma se è determinato a stroncare la delinquenza minorile, a Stalin non sfuggono le cause ultime legate al disordine delle relazioni umane. Da un giorno all’altro vengono così abolite le «unioni di fatto» e il loro riconoscimento legale; torna obbligatorio il matrimonio civile e viene apertamente scoraggiato il divorzio con forti restrizioni, sia giuridiche (come la richiesta necessaria di entrambi i coniugi) sia economiche (con l’imposizione di tasse altissime a chi si incamminava sulle procedure di separazione).
C’è poi, impetuoso, il cambio di rotta della propaganda statale: sulla stampa, alla radio e nella letteratura viene rilanciato il ruolo positivo della famiglia e dell’amore perenne per la maggior gloria della Patria socialista e si scovano vicende e personaggi edificanti all’insegna della miglior saga familiare.
Non solo: nel bisogno di retorica civile e di liturgia celebrativa, si restaurano e in molte città si costruiscono ex novo le «Case dei matrimoni» che, pur nel rigido stile architettonico del realismo sovietico, costituiscono il luogo deputato alla festa di nozze e alla solennità della cerimonia: edifici che costellano tutt’oggi il paesaggio urbano dell’ex Urss.
Così, ripristinata con asiatica durezza il ruolo decisivo della famiglia tradizionale, compresa la sostanziale indissolubilità del matrimonio (ai divorziati, oltre a tasse più alte, spetta per legge il disdoro di vedere segnalato sul passaporto, anche quello interno, la condizione di coniuge «non stabile»), il compagno Stalin cerca una più feconda coesione sociale, che gli verrà utile durante la Grande Guerra Patriottica contro l’invasione nazista; quando lui, portatore ufficiale dell’ateismo di Stato, non si vergognerà di implorare in un pubblico appello l’aiuto e la protezione di Dio sulla Gran Madre Russia.
Fin qui la Storia, con le sue asprezze e comunque con le sue inequivocabilità, comprese quelle sulle «unioni di fatto». Certo, i tempi sono cambiati, nulla è come allora. E tuttavia la modesta conoscenza di queste vicende un filo di inquietudine potrebbe sicuramente provocare.
Anche perché la prosaica elencazione dei fatti e del loro tragico fallimento richiama senza mezzi termini la straordinaria profezia che, un secolo prima, Fèdor M. Dostoevskij affidava nei Fratelli Karamazov al programma del discorso del Grande Inquisitore: «…li faremo lavorare, sì, ma nelle ore libere dalla fatica organizzeremo la loro vita come un gioco infantile, con canti in coro e danze innocenti. Oh, concederemo loro anche il peccato perché sono deboli e impotenti e così ci ameranno come bambini, perché permetteremo loro di peccare».