Articolo pubblicato su Il Foglio 9 dicembre 2004
Nel discorso ai milanesi cose giuste, ma niente libertà né responsabilità
di Giuliano Ferrara
La forza del cristianesimo, per l’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, è nella sua debolezza. In un libro di notevole acume, curato dal vaticanista della Rai Giuseppe De Carli, il cardinale afferma che “la debolezza è un elemento essenziale, qualificante e decisivo della fede cristiana”. Naturalmente questa è “una debolezza che non ha paura di nessuno” e che “non si esprime in un complesso di inferiorità bensì in un complesso d’amore” verso tutti, perché tutti debbono essere incontrati dai pastori del “piccolo gregge” evangelico, e tutti amati.
Di Tettamanzi si conoscono e si raccontano profondità di dottrina in argomento di teologia morale e semplicità di cuore, un profilo “giovanneo” anche in senso fisiognomico, come ricorda a proposito della sua somiglianza con Giovanni XXIII da Sotto il Monte l’autore dell’intervista appena citata. L’importanza di questo principe della chiesa non può essere sopravvalutata, visto che è stato chiamato da un’altra diocesi metropolitana a reggere il complesso cattolico più vasto e forse più importante al mondo, appunto Milano.
I beni in comune
In occasione della festa patronale di Sant’Ambrogio, l’arcivescovo si è rivolto ai diocesani e ha parlato a lungo dell’anonimato urbano, della disperazione o emarginazione sociale di una parte della città e della sua area metropolitana, del dovere di solidarietà che “distrazioni” diffuse nelle istituzioni e tra i diversi gruppi sociali tradiscono e rinnegano. La solidarietà di cui parla Tettamanzi non è inclinazione pietosa del cuore né elemosina né “un insieme di buoni pensieri”, è piuttosto “quel vincolo che unisce tutti i cittadini tra loro, che li sorregge nell’impegno civile, che li toglie dal desiderio di essere anonimi in mezzo alla folla”. Nel discorso si parla di cose concrete come l’accoglienza dei migranti, si parla della durezza di vita per le famiglie che hanno a carico persone ammalate fisicamente o psichicamente, degli affitti alti, degli studenti fuori sede, del lavoro precario, della condizione degli anziani.
Il pastore del piccolo gregge fa dunque il suo mestiere, avvinto a una grande tradizione di compassione della chiesa ambrosiana, convinto della necessità di riscaldare una diocesi guidata per decenni con maestria ma anche con freddezza gesuitica e mano da biblista nell’era appena tramontata del cardinal Carlo Maria Martini.
Fa niente se le sue parole vengono piegate a quello che segnalavamo ieri come un uso cinico della religione a scopi politici, fa niente se il solidarismo pastorale diventa nei giornali sciattamente ideologici il pretesto per la solita ramanzina politica ai governanti pro tempore e al demone del potere mondano, questi sono dettagli di bassa cucina teo-lib, riguardano la spudorata disinvoltura con cui i progressisti cosiddetti tirano acqua al loro mulino. L’arcivescovo dovrebbe forse preoccuparsi delle interpretazioni convenzionali e politicamente maliziose della sua attività pastorale, se non voglia essere equivocato e mal tradotto in politica, ma in fondo non è nemmeno affar suo, altre sono le priorità.
Ci sono però due frasi tra quelle pronunciate da Tettamanzi che vanno al di là di un doveroso appello all’impegno solidale, che nasce dalla forza della debolezza cristiana. La prima definisce la solidarietà come “la messa in comune del bene e dei beni, materiali e immateriali, fisici e spirituali”. La seconda chiede che i soggetti che contano a Milano si incontrino per “un grande progetto che riguardi la sostenibilità del vivere per tutti”. Il comunismo del Novecento, inteso come utopia progressiva tradita fattualmente e rovesciata necessariamente in degrado dell’umanità e in schiavitù morale e civile, predicava appunto questo.
Il progetto di una società che mettesse in comune “il bene e i beni” perché tutti, un “tutti” sociologico legato alla cultura della lotta di classe e alla necessità di eliminare le classi, potessero godere nell’eguaglianza di una vita sostenibile. L’idea di una società integralmente giusta e nuova, criticata giusto ieri in un testo pubblicato da Avvenire e firmato dal cardinale Joseph Ratzinger, è sopravvissuta, come hanno notato maestri della storiografia e del pensiero liberale, per l’appunto in settori importanti della chiesa cattolica, impegnata dopo il tramonto del comunismo in una ripresa della battaglia contro il liberalismo, la società dei liberi e dei responsabili, della competizione e dell’emulazione, del primato dell’individuo e della sua libertà. Qui non si parla del comunismo come di uno spauracchio ideologico per risse politiche d’attualità né si nega legittimità a questa specifica vena del pensiero e della prassi cattolica.
Qui però si osserva con rispetto che il comunismo del cardinale dovrebbe essere forse meglio provato alla luce dei fatti e della storia, meglio definito in rapporto alla realtà effettiva della società metropolitana in un’area di industria e finanza e commercio come quella milanese, meglio vagliato nel riscontro con quel che di buono pure esiste nella sua città e nel mondo. Perché basta guardare all’America, ma anche all’hinterland milanese, per capire che la via della solidarietà e della compassione come impegno civile può non partire affatto dalla “messa in comune del bene e dei beni” o dal “grande progetto” per eguagliare “tutti” in una vita sostenibile elaborato in forma concertata dallo Stato e dagli altri soggetti organizzati della vita istituzionale.
Il mondo libero e non più “pianificato” è ricco di esperienze solidali nate nella società, di movimenti e atti singoli incoraggiati da discorsi e legislazioni che puntano sulla libertà e la responsabilità degli individui e dei gruppi, che definiscono una società individualistica e comunitaria ma non organica, non dogmaticamente egualitaria, una società in cui la libertà è la possibilità, l’opportunità eguale per tutti di darsi da fare, di partecipare a un sogno comune pieno di ottimismo e di fede nel futuro. Squilibrio, infelicità, durezza dell’esistenza sono elementi radicali del vivere in ogni città terrena, anche quella capitalistica, e non è un cattolico che debba essere richiamato in termini laici alla dottrina del peccato originale. Pretendere di eliminarli per “tutti” dall’alto, con “la messa in comune del bene e dei beni”, è una risposta già data all’umanità, e da questa con dolore alla fine rigettata. Con molto dolore.