Il conflitto tra Insorgenza e Controrivoluzione

Abstract: il conflitto tra Insorgenza e Controrivoluzione. Il pensiero e la pratica politica di coloro che si opposero alla Rivoluzione francese e agli altri movimenti rivoluzionari assunse varie forme non tutte paragonabili all’insorgenza della Vandea. Il rischio è di unificare realtà molto complesse e variegate, risolvendosi nella tradizionale contrapposizione ideologica fra Rivoluzione e Controrivoluzione, pertanto lo scritto seguente è un tentativo di mettere in luce, attraverso l’indagine ravvicinata di un caso specifico, la necessità di approfondire l’analisi delle varie realtà italiane rispetto al “modello vandeano”, fondato sull’alleanza organica fra i diversi strati sociali della regione francese all’insegna di comuni simboli e valori .

Research Gate 3 Maggio 2020

Il conflitto tra Insorgenza e Controrivoluzione

al confine fra Regno di Napoli e Stato pontificio (1798-99)

di Luigi Alonzi

(Università degli studi di Palermo)

Le celebrazioni del bicentenario della Rivoluzione francese sono state caratterizzate, com’è noto, da un vivace dibattito culturale, con articolate opzioni storiografiche e ideologiche, di cui sono stati protagonisti il concetto e la storia della Controrivoluzione. In questa cornice, un ampio contributo è venuto dallo storico francese Jean-Clément Martin che, a partire dai suoi studi sul mito e sulla realtà della Vandea, ha progressivamente allargato il campo d’indagine fino a proporre un Dictionnaire de la Contre-révolution che prende in considerazione le varie forme assunte dal pensiero e dalla pratica politica di coloro che si opposero alla Rivoluzione francese e agli altri movimenti rivoluzionari.

Martin ha avvertito la necessità di segnalare i pericoli insiti in un’impresa culturale di questo genere, che rischia di unificare realtà molto complesse e variegate, risolvendosi nella tradizionale contrapposizione ideologica fra Rivoluzione e Controrivoluzione. Il volume è basato su un metodo analitico, al fine di seguire tutte le piste possibili in cui si espressero le reazioni alle rivoluzioni del periodo 1770-1820, delimitando il campo d’indagine con l’individuazione di quattro punti, nel primo dei quali viene precisato che i giochi delle designazioni (révolutionaire / émutier / révolté / réformateur / rébelle / terroriste / anarchiste) sono di una tale complessità «qu’il aurait été vain de l’entraprendre ici», senza contare la difficoltà insormontabile di trovare parole comuni a tutte le lingue e a tutte le situazioni. Tuttavia, aggiungeva:

dans la cas italien, il a fallu garder le terme Insorgenze pour parler des soulevements contre-révolutionnaires populaires des années 1796-1815 parce que il est consacré par une historiographie consequente pour parler de ces bandes royalistes, catholiques, communautaires diversifiées qu’il serait impropre de rebattre sur la Vandée, trop organisé, ou sur la chouannerie, trop diversifiée (1).

Le pagine che seguono rappresentano un tentativo di sviluppare questa osservazione e di mettere in luce, attraverso l’indagine ravvicinata di un caso specifico la necessità di approfondire l’analisi delle varie realtà italiane rispetto al “modello vandeano”, fondato sull’alleanza organica fra i diversi strati sociali della regione francese all’insegna di comuni simboli e valori (2).

In queste pagine esamineremo il caso delle insorgenze fra Regno di Napoli e Stato pontificio, ma probabilmente lo stesso discorso vale per molti altri luoghi in Italia, dove le masse sanfediste, che inizialmente avevano avuto il beneplacito e l’incoraggiamento delle élites laiche ed ecclesiastiche contrarie alla rivoluzione, sfuggirono poi a qualsiasi controllo, con la conseguente elaborazione, per reazione, di una cultura politica che, riprendendo taluni tradizionali fondamenti ideologici della società per ceti, puntava al ristabilimento di un ordine gerarchico in grado di arginare e neutralizzare la partecipazione popolare.

La Corte borbonica, lontana dagli eventi, rifugiata in Sicilia, addossò gran parte delle responsabilità per la perdita del Regno di Napoli ai quadri dell’esercito e ritenne strumentalmente di poter fare affidamento sul popolo, che nel 1799 si era mostrato fedele e coraggioso; tuttavia, i ceti dirigenti rimasti sul campo, pur legati alla monarchia borbonica e contrari alla Repubblica napoletana, avevano fatto una dura esperienza dell’anarchia popolare e, ad un certo punto, si mostrarono disponibili a qualsiasi soluzione pur di giungere ad una stabilizzazione politica (3).

Il 25 aprile 1798 l’informatissimo abate Giuseppe Antonio Sala, insofferente e talvolta acuto testimone della stagione repubblicana romana, scriveva nel suo diario quanto segue:

Il Cardinale Albani, Decano del Sacro Collegio, dopo essere di qua fuggito rifugiossi nel Monastero de’ Trappensi a Casa Marii verso il confine del nostro Territorio, e tentò inutilmente più volte di penetrare in Regno. Studiossi di far credere che era già nel Regno medesimo, e scrisse ancor delle lettere in data di Napoli, anzi si sparse la voce perfino che fosse morto. Fortunatamente ha passato la burrasca, senza cadere nelle mani de’ Francesi, e dopo molte istanze ha ottenuto di metter piedi nelli Stati di Sua Maestà Siciliana, essendogli stato permesso di fermarsi in una piccola Terra sulla Frontiera, chiamata Castelluccio. Se li Francesi l’avessero avuto nelle mani, forse non si sarebbero contentati di mandarlo cogli altri suoi Colleghi a Civitavecchia (4).

Il tragitto percorso dal capo riconosciuto del “partito degli zelanti”, il gruppo di ecclesiastici che rifiutava le prospettive riformatrici in campo religioso promosse dalle correnti illuministe e gianseniste, era coerente con le scelte politiche degli anni immediatamente precedenti, con la strenua e convinta opposizione alla Rivoluzione francese e alle armate napoleoniche; il canonico lateranense Claudio Della Valle, in un opuscolo stampato probabilmente a Milano (5), esaminando la condotta della Corte pontificia in occasione della pace di Tolentino, indicava il cardinale Giovan Francesco Albani come «scandalo di Roma, e della Cristianità», e considerava le sue lettere «talmente infamanti il nome Francese, che i più modesti […] conchiudevano doversi ricorrere a nuovi Vespri siciliani» (6).

Nel luglio 1797, in previsione della morte del papa, gli ambienti diplomatici francesi ritenevano di dover escludere un’eventuale candidatura al soglio pontificio dell’Albani, considerato peraltro responsabile, come membro della Congregazione di Stato, della morte di Bassville. Dopo l’uccisione del generale Duphot, l’Albani fu minacciato di arresto dal generale Berthier e all’inizio di febbraio decise di allontanarsi da Roma; forse non è un caso che alla fine dello stesso mese, quando giunsero le notizie della sollevazione degli insorgenti trasteverini (7), presero immediatamente le armi proprio le popolazioni della diocesi di Velletri, di cui era titolare lo stesso Albani.

La netta posizione assunta dal decano del Sacro Collegio non era certamente quella prevalente negli ambienti della Curia pontificia, che accortamente aveva respinto l’ipotesi di promuovere una guerra di religione, voluta con sollecitazioni non sempre convinte e convincenti soprattutto delle diplomazie austriaca e napoletana; l’Albani era esattamente la principale figura romana di raccordo di quest’ultimo indirizzo politico, che prevedeva una solida alleanza controrivoluzionaria fra la corte asburgica di Vienna e quella borbonica di Napoli, con le quali intratteneva assidue e costanti relazioni. Fra i più ferventi sostenitori della necessità di promuovere una guerra di religione, insieme a Giovan Francesco Albani, vi erano inoltre Romualdo Pirelli e il vescovo di Sora Agostino Colajanni, che era stato insediato nella strategica diocesi di confine, ormai interamente occupata dagli accantonamenti militari; in un decreto del 15 maggio 1798, con il quale informava il clero della prossima esecuzione della vista pastorale, il Colajanni esortava i fedeli a pregare per «la salvezza del Sommo Pontefice nostro Capo e Pastore e del nostro Pio e Religiosissimo Sovrano [Ferdinando IV]» (8).

L’abate di Casamari, Romualdo Pirelli (9), divenne uno dei principali protagonisti sul piano diplomatico della difficile alleanza fra Regno di Napoli e Stato pontificio, nel tentativo di superare gli aspri contrasti che avevano diviso i due governi nel corso del XVIII secolo. Per la ripresa delle trattative relative alla questione della chinea e alla ristrutturazione delle diocesi regnicole, il Pirelli, nominato dal papa “incaricato d’affari” presso Ferdinando IV, insistette affinché proprio Gianfrancesco Albani fosse chiamato a trattare ufficialmente, con il coinvolgimento di Fabrizio Ruffo (10).

Il decano del Sacro Collegio, Giovan Francesco Albani, nella primavera-estate del 1798 fu a strettissimo contatto con il vescovo di Sora e con l’abate di Casamari, i quali con ogni probabilità avevano il loro ritrovo nel casino di San Sebastiano, che il Pirelli si preoccupò di far ristrutturare, come risulta da una poco nota lettera del ministro napoletano Nicola Vivenzio (11).

Occorre precisare bene la posizione geografica del casino di San Sebastiano (oggi distrutto), posto sulle alture che dominavano la grande cascata del Liri, ove furono ripetutamente fermate l’anno successivo le offensive delle armate repubblicane, a metà strada fra Castelluccio (odierna Castelliri) e l’abbazia di San Domenico di Sora, di cui era abate commendatario proprio il decano del Sacro Collegio (quando questi venne a mancare, il 15 settembre 1803, l’abbazia venne affidata, anche per le sue benemerenze politiche, al vescovo di Sora Agostino Colajanni); oltre ai trappisti di Casamari (12), nel casino di San Sebastiano si rifugiarono anche i monaci dell’abbazia di Fossanova, di cui era abate lo stesso Pirelli, che erano stati costretti ad allontanarsi subito dopo la proclamazione della Repubblica romana.

L’amministratore Tuzi, cui si fa cenno nella chiusa della lettera, apparteneva ad una notabile famiglia sorana che si era distinta per la sua avversione alle idee eterodosse portate in questo territorio dall’abate calabrese Antonio Jerocades ed aveva avuto una parte attiva nella formazione di una colonia locale della Reale Arcadia Sebezia (13); un rampollo della stessa famiglia, Ignazio Tuzi, Accademico Sincero, nell’estate del 1796 aveva salutato con versi poetici la parata del Reggimento Messapia in Sora, presenziata da Ferdinando IV e Maria Carolina (14).

Nello stesso torno di tempo in cui l’abate di Casamari ricevette la citata lettera di Nicola Vivenzio, le popolazioni del Dipartimento del Circeo si sollevarono contro le municipalità repubblicane stabilite dai francesi ed in alcune sedi diocesane prossime al confine si procedette all’abbattimento degli alberi della libertà (15).

Ad Alatri (16), l’“abbruciamento” dell’albero della libertà avvenne nel pomeriggio del 25 luglio, in reazione alla requisizione della statua di san Sisto operata dalle autorità repubblicane; in pochissimo tempo furono reclutate squadre di insorgenti da un tal Angelo Maria Cataldi, forse uno “sbirro” dedicatosi alla compravendita di bestiame, e il giorno successivo fu organizzata una processione al grido «viva la Croce, ammazziamo tutti li Giacobini», con la partecipazione dell’abate Franco Colamartini.

E qui troviamo subito una testimonianza emblematica del rapporto fra autorità diocesane ed insorgenti: a fronte dell’intercessione del vescovo di Alatri, Pietro Speranza, in favore dei repubblicani catturati che rischiavano di essere trucidati, il capo insorgente Angelo Maria Cataldi replicò, secondo quanto narra un Racconto istorico coevo, «che andasse a comandare a Civita [ove era la sede del vescovato] perché la piazza di Alatri la comandava lui».

A Veroli, nel cui territorio era compresa l’abbazia di Casamari, in quei giorni di agitazione si preparava la suggestiva processione in onore della Madonna che il 27 luglio di due anni prima avrebbe mosso gli occhi, dando un segno di avversione verso i francesi; mentre ad Alatri veniva abbattuto e bruciato l’albero della libertà, i verolani protestavano contro il divieto fatto alle confraternite di partecipare alla processione ed alcuni patrioti intimoriti si allontanarono dalla città. Il 26 luglio il prefetto consolare Giovanni Franchi, che persisteva nel tenere fermo il divieto, venne raggiunto nella sua abitazione, adiacente la cattedrale di Sant’Andrea, seviziato ed arso vivo insieme al figlio; secondo la testimonianza dell’ufficiale francese Marc-Antoine Girardon, inviato con pieni poteri a reprimere l’Insorgenza nel Dipartimento del Circeo, artefice di questi truci atti fu l’arcidiacono della cattedrale e segretario della municipalità repubblicana, Luigi Bisleti, che nei giorni precedenti si sarebbe recato nel Regno di Napoli per chiedere aiuto contro i francesi.

In una lettera del 2 agosto, riassumendo la situazione al generale Macdonald, egli metteva in rilievo il fattivo contributo della Corte borbonica nell’aizzare le popolazioni locali contro i francesi ed individuava in Veroli, ove sarebbero state prodotte le coccarde e le armi, il centro di irradiazione delle insurrezioni; segnalava inoltre che si erano sparse voci allarmanti circa la perdita di Malta da parte delle truppe napoleoniche, l’arrivo degli inglesi a Civitavecchia, la discesa dell’imperatore in Italia, nel quadro di una rinnovata alleanza fra Trono e Altare.

Marc-Antoine Girardon, sempre sospettoso di trame e complotti angloborbonico-clericali, sosteneva inoltre che l’operato del capo insorgente di Alatri, Angelo Maria Cataldi, fosse legittimato da Vincenzo Fortuna, il quale nel contempo aveva nominato il benestante Filippo Carrozzi, già edile repubblicano, comandante dell’Armata Cristiana (17).

La famiglia di Gaetano Mammone, il noto capomassa di Sora, risulta imparentata (in epoca imprecisata) con la famiglia del bargello di Alatri, Vincenzo Fortuna. Anche il verolano Giuseppe Antoniani proveniva dal Regno di Napoli, ma la sua vedova assicurava che non si era rifugiato colà per sfuggire al reclutamento nella gendarmeria repubblicana; da una lettera del Girardon al Macdonald, dell’11 ottobre successivo, risulta che costui era alla testa dei ribelli che avevano massacrato la famiglia Franchi e si era opposto con forza all’intervento moderatore del vescovo di Veroli (18).

Quest’ultimo, infatti, per evitare una rappresaglia decise di recarsi al campo dei francesi in Frosinone con una sostanziosa «contribuzione», ma dovette soffrire non poche pene ed angustie «per sedare l’impeto degli Insorgenti e richiamarli al dovere»; non bisogna però trascurare l’accusa esplicita di Giovanbattista Franchi, un figlio del prefetto consolare ucciso, che alcuni anni dopo disse di sapere per certo che il vero istigatore della rivolta sarebbe stato proprio il vescovo di Veroli, Antonio Rossi (19).

In tal caso, ritroveremmo già qui tracciata una traiettoria percorsa nei mesi successivi anche oltre il confine, nelle terre del Regno di Napoli, ove molto spesso le autorità ecclesiastiche, che pure avevano favorito le sollevazioni contro i francesi, dovettero rendersi conto di avere scoperchiato un vaso di Pandora e che non era affatto facile controllare le manovre sovversive degli insorgenti; era tutto un sistema di pratiche politiche e di regole sociali che veniva scosso dalle fondamenta, per cui non era più molto chiaro quale fosse il principio di legittimità che permetteva ai governanti di comandare sui governati.

Per tutta l’estate le lettere e i rapporti del Girardon continuarono a segnalare i sospetti andirivieni di uomini e cose alla frontiera pontificio-napoletana e in talune di esse il comandante francese vedeva sullo sfondo lo spettro sempre presente della Corte borbonica, che avrebbe ispirato e organizzato la rivolta. In un’importante lettera del 31 agosto 1798 al Macdonald, quando ormai gran parte dei focolai di insorgenza era stata sedata e si procedeva sommariamente contro i facinorosi, i sospetti del Girardon furono espressi esplicitamente:

L’abbé de Casamara me paraît bien coupable: c’est lui que soufflait le feu; il est allé à Naples pour intriguer à la Cour en faveur des insurgés, mais ayant sçu la réduction du Département, il n’est plus revenu; il se tient à l’Isola de Sora. Cet abbé est noble napolitain; il devait, comme étranger, sortir de la République depuis longtemps, mais le Gouvernement lui avait accordé une exception; il en a profité pour lui même. J’ai rendu visite aux malheureuses victimes de la Rebellion, notamment aux blessés de la famille Franchi; il n’y a pas d’horreur qu’on ait commis sur cette famille, jusqu’à vouloir mutiler les enfants; on reconnaît bien la main des prêtres (20).

Vi è da dire che in questi giudizi agiva una serie di pregiudizi e che le fonti di informazione non erano spesso molto attendibili. Il Girardon non aveva notizie precise e il primo novembre successivo ordinò al comandante di Veroli di presidiare nascostamente l’abbazia, avendo saputo che alcuni emigrati si riunivano in località Cavatelle. In realtà, questi passaggi di emigrati sarebbero avvenuti nei pressi di Ceccano, come risulta da una lettera del 20 ottobre precedente inviata dal prefetto consolare Lorenzo Sindici al ministro di Giustizia e Polizia della Repubblica romana (21).

Ad ogni modo, il 2 novembre si rivolse direttamente al comandante del Direttorio esecutivo della Repubblica francese per chiedere il permesso di arrestare Romualdo Pirelli ed impedire così che mettesse piede nel territorio romano, dando notizie più circostanziate sul ruolo da questi svolto e prospettando un’immediata soppressione delle abbazie di Casamari e Trisulti.

Subito dopo, in una lettera del 3 novembre, Girardon informava il Macdonald che aveva fatto stabilire una postazione di venti uomini presso l’abbazia di Casamari, sulla strada che conduceva a Sora, e finalmente in una delle ultime lettere trascritte sui suoi registri, in data 20 novembre 1798, comunicava ai commissari del Direttorio esecutivo che l’abbazia di Casamari era stata soppressa in base alla legge del 5 termidoro e reputava opportuno trasferire immediatamente i monaci, in considerazione della pericolosità, nelle vicinanze della frontiera (22).

Appena tre giorni dopo, le truppe napoletane varcarono il confine dirette verso Roma, ma la sventurata spedizione militare durò, com’è noto, meno di un mese. Ferdinando IV partì, il 23 dicembre, per la Sicilia, ove fu raggiunto dall’abate di Casamari, che pensò bene di lasciare il suo rifugio prima dell’arrivo dei francesi; a luglio si era già trasferito a Napoli anche Gianfrancesco Albani, che si recò poi a Venezia per partecipare al conclave dal quale uscì eletto papa Chiaramonti (23).

Rimane da chiedersi quale presa il cardinale e soprattutto l’abate, indicato a più riprese dal Girardon come ispiratore ed organizzatore dell’insurrezione del Circeo, abbiano potuto avere sulle insorgenze popolari, se nemmeno i vescovi di Alatri e di Veroli, che operavano sul territorio, erano riusciti a controllare le rivolte e a sedare gli atti di maggiore efferatezza? Si può comprendere che il vescovo di Alatri, Pietro Speranza, non avesse molto ascolto fra gli insorgenti, visto che aveva mostrato piena collaborazione con i repubblicani, ma che dire del vescovo di Veroli, Antonio Rossi, che pur avendo scritto inizialmente una pastorale pacificatrice fu poi, secondo la testimonianza di Giovanbattista Franchi, il promotore della rivolta? Come vedremo fra breve, l’indisciplina e l’autonomia degli insorgenti trovavano ben pochi limiti, anche nel caso in cui si trovavano di fronte autorità ecclesiastiche di intemerata fede controrivoluzionaria.

Nel Natale del 1798, mentre Ferdinando IV in Sicilia lamentava che l’espulsione dei gesuiti era stata una delle cause della perdita del Regno di Napoli, le popolazioni dell’alta Terra di Lavoro si apprestavano ad assistere in una strana atmosfera natalizia al passaggio delle armate “gallo-romane”. Nella zona regnicola di confine, benché fra molti contrasti e non pochi vuoti di potere, il periodo di massima affermazione delle municipalità democratiche si ebbe nel mese successivo alla proclamazione della Repubblica napoletana, avvenuta il 22 gennaio; il giorno precedente, a Sessa, era stato eretto l’albero della libertà e nonostante gli sforzi dei controrivoluzionari e le azioni degli insorgenti, che sin dal 6-7 gennaio avevano preso l’iniziativa, gran parte del territorio della diocesi fu repubblicanizzato.

Anche nella Valle di Comino, nonostante l’arresto del commissario francese Mery avvenuto ad Atina il 7 gennaio, le autorità repubblicane riuscirono ad avere la meglio, ma qui per un periodo molto breve, così come nella diocesi di Sora, dove le idee rivoluzionarie ebbero scarsissimo seguito. Alcune testimonianze lasciano intendere che la cittadina lirina fu sottoposta ad un’onerosa contribuzione e che l’albero della libertà vi venne piantato dopo il 2 gennaio; documenti finora inediti fanno inoltre sapere che nell’Isola di Sora l’arciprete della chiesa di San Lorenzo, Giuseppe Nicolucci, venne eletto giudice di pace, e il vescovo Colajanni ne apprezzò comunque la moderazione assicurando che non potevano essere imputati al ritroso ecclesiastico comportamenti criminosi (24).

Dopo la demanializzazione del Ducato di Sora, a presidiare il territorio e a cercare di dare un minimo di disciplina alle popolazioni locali rimase il vescovo di Sora Agostino Colajanni, che il 22 febbraio 1799 benedisse l’elezione popolare nella piazza principale della città del capomassa Gaetano Mammone, un mugnaio che in contrasto con gli interessi feudali aveva raggiunto un certo benessere economico ed era riuscito ad accumulare un discreto patrimonio terriero.

Il capomassa sorano ebbe una capacità di reclutamento delle cosiddette truppe a massa veramente straordinaria; in pochissimo tempo divenne il capo riconosciuto di un vastissimo territorio, ricorrendo a meccanismi che non sono certo facili da identificare poiché rimandano molto spesso a codici di comportamento informali e a regole non scritte. La posizione di forza assunta dalle truppe a massa del Mammone era dovuta, inoltre, alla collocazione geografica di Sora, posta a ridosso della grande cascata del Liri e coperta alle spalle dall’aspra insenatura della Valle Roveto, la cui occupazione rendeva impossibili i collegamenti per questa via fra la Marsica e la Terra di Lavoro.

Benché manchino informazioni precise, è da ritenere che la Valle Roveto costituisse un fondamentale bacino di reclutamento degli insorgenti, i quali molto probabilmente diedero un contributo significativo per estendere poi il dominio di Francesco Mammone, fratello di Gaetano, alle città erniche con le quali erano in comunicazione attraverso le montagne.

Meglio documentata è la situazione per le città della media Valle del Liri, che senza dubbio ricevettero l’impulso a sollevarsi dall’esempio e dall’incoraggiamento dei sorani; ad Arce, scendendo verso l’affluenza del fiume con il Gari, «la Rivoluzione a prò del nostro Sovrano [con] l’armamento in massa per la difesa de’ Regii e patri dritti» si ebbe il 24 febbraio. Procedendo oltre, verso Roccasecca, Pontecorvo, San Giovanni Incarico e Ceprano, l’albero della libertà fu abbattuto dalle truppe a massa poste sotto gli ordini del fabbro trentenne Pietro Guglielmi; la forte municipalità costituita a San Germano sin dal 2 gennaio fu costretta a sciogliersi il 25 febbraio e l’albero della libertà fu poi abbattuto da un altro fabbro divenuto capomassa, Angelo Ricci detto Moliterno, a conferma del ruolo non trascurabile che i fabbri ebbero tra le file degli insorgenti (25).

Pare di poter dire, e credo questo sia un punto di un certo rilievo, che molto spesso i poli di aggregazione degli insorgenti avevano come confini quelli delle circoscrizioni diocesane e che, nel caso specifico, Gaetano Mammone estendeva il suo potere sui territori delle diocesi di Sora ed Aquino; in tal senso è interessante una lettera di Gaetano Mammone al comandante di San Giovanni Incarico, datata Sora 30 marzo 1799, in cui si ordinava di prestare soccorso alle terre di Pastena e Lenola, che erano state attaccate dai francesi (26).

Siamo qui sulla linea di due sfere d’influenza, una dominata appunto da Gaetano Mammone e l’altra da Michele Pezza, che estendeva i suoi poteri nel comprensorio aurunco, sulle diocesi di Fondi e Gaeta. Le bande capeggiate dal futuro colonnello borbonico si mantenevano sulle alture che dall’attuale Monte San Biagio, attraverso Itri e Maranola, raggiungevano il Garigliano all’altezza di Traetto (odierna Minturno) e Castelforte, affacciandosi sulla via Appia. Il problema di fondo per i francesi era quello di controllare i collegamenti sulle principali vie di comunicazione. Gli insorgenti occuparono infatti una fascia di territorio larga circa ottanta chilometri che scorreva lungo il confine da Sora a Gaeta, stretti fra i contingenti militari della Repubblica napoletana e della Repubblica romana.

Come vedremo, Mammone e i suoi fratelli riuscirono poi ad imporre la loro autorità su buona parte del territorio pontificio della ex provincia di Campagna; al contrario, non potettero allargare la loro sfera d’influenza verso il Cassinate, ove entrarono in conflitto con l’abate del celebre monastero benedettino e con il ricordato capomassa Angelo Ricci. Il tratto della Casilina fra San Germano e Caianello era invece sotto il controllo delle masse rispondenti agli ordini di Leone di Tora, un capomassa che dal promontorio di Roccamonfina penetrò poi nel territorio di Sessa e si ricongiunse con gli uomini di Frà Diavolo (27).

Per quanto riguarda le modalità di affermazione e di legittimazione dei capimassa occorre distinguere almeno due aspetti. Da un lato vi fu l’elezione popolare o in pubblico parlamento attraverso la quale una comunità, facendo ricorso a pratiche consuetudinarie spesso legate a logiche claniche e fazionali, riconosceva un proprio capo carismatico; in questo caso venivano chiamati il più delle volte a capo delle comunità non membri delle famiglie che da secoli monopolizzavano le cariche dell’amministrazione urbana, ma figure di mediazione fra i diversi strati sociali con capacità psicologiche e materiali di reclutamento.

Altro discorso riguarda invece la formazione di una gerarchia fra le varie bande di insorgenti, per la quale evidentemente i capimassa non potevano disporre di alcuna consuetudine precisa. In tale senso è interessante una deliberazione del Decurionato di Alvito, del 12 marzo 1799, che era stato chiamato da Gaetano Mammone a riunirsi in pubblico parlamento per deliberare la formazione delle truppe a massa, inviando precise istruzioni che sarebbe interessante conoscere nel loro contenuto effettivo ma che si possono comunque intuire dal tenore delle decisioni che furono poi prese (28).

La data della deliberazione è successiva ai violenti attacchi che gli insorgenti del Sorano avevano subito il giorno precedente, quando la Guardia Nazionale guidata dal verolano Giovan Battista Franchi strinse d’assedio il fortino di Castelluccio; le perdite per i “gallo-romani” non furono lievi, anche perché gli insorgenti di Bauco (odierna Boville Ernica), che erano già entrati in contatto con i Mammone, si erano impadroniti delle armi in dotazione al quartiere della Guardia Nazionale (29).

Evidentemente, i movimenti dei contingenti militari della Repubblica romana e della Repubblica napoletana erano coordinati e, come vedremo ancora in seguito, gli attacchi sferrati alle insorgenze che infestavano le terre di confine erano pianificati da un’unica regia. Il 9 marzo, infatti, Championnet aveva inviato il generale Dambrowski a distruggere definitivamente gli insorgenti di Castelforte, che resistettero al durissimo attacco e il 21 riuscirono con il capomassa Pasquale Frezzella a riconquistare Traetto; il 25 marzo, giorno di Pasqua, si ebbe un nuovo durissimo attacco congiunto. Anche questa importante festività cattolica, forse non a caso, fu per le popolazioni locali piuttosto drammatica.

All’Isola di Sora le truppe francesi e verolane, rafforzate con alcuni pezzi di artiglieria pesante, cannoneggiarono a lungo le mura del palazzo regio; a Traetto persero la vita tra 800 e 1.200 abitanti e alla fine del saccheggio l’ufficiale francese Watrim pose sulle mura di Portanova la seguente scritta in italiano: «Qui era Traetto. Si è ribellata. Ora non esiste più» (30) Ma l’Insorgenza non era domata.

Fin dal 2 aprile i contingenti militari che avevano il loro quartier generale a Veroli, formati da francesi e patrioti locali, riattraversarono il confine fra Casamari e Castelluccio, stringendo di nuovo d’assedio gli insorgenti. Il 13 aprile, constatata l’inefficacia degli attacchi ripetutamente portati su Sora ed Isola, fu inviata in loro aiuto una colonna armata composta da più di 1.000 uomini; il comandante Cipriani, cui era affidato il governo dell’Isola di Sora, per evitare un’inutile strage decise di aprire le porte della città ed arrendersi senza combattere. Pochi giorni dopo, Gaetano Mammone, che aveva allestito le sue artiglierie sulle alture circostanti, penetrò nella città e la sottomise al dominio degli insorgenti; dopo aver saccheggiato il paese, gli uomini di Mammone condussero Antonio Cipriani nelle carceri di Sora ed Isola fu posta nelle mani del dispotico Valentino Alonzi (31).

A metà aprile, per motivi ancora da chiarire, l’amministrazione del Dipartimento del Circeo subì notevoli cambiamenti e la municipalità verolana fu decapitata: Giovan Battista Franchi, che era stato uno dei principali protagonisti della lotta contro gli insorgenti nelle terre di confine, fu destituito da tutti i suoi incarichi. Il 28 aprile la sconfitta del Moreau a Cassano d’Adda da parte degli austro-russi riaccese le speranze di molti controrivoluzionari, che non ne potevano più dell’anarchia e delle requisizioni condotte sia dai francesi sia dagli insorgenti. Una lettera datata 29 fiorile del vescovo di Veroli, Antonio Rossi, al preoccupato e puntuale Giuseppe Sala, descrive chiaramente questa situazione:

Ieri sera vennero le lettere per il Corriere dopo che dal giorno 3 maggio n’eravamo senza. Che orrori, che disastri abbiamo mai sofferti in questo mentre, prima dalli feroci Insorgenti, poi per i passeggeri Francesi, che d’improvviso ci sono venuti addosso nel numero di dodici e più mila, e che abbiamo dovuto pascere ben bene nel corso di quattro giorni! Può credere quanto siamo rimasti smunti, e spremuti anche de’ generi di prima necessità. Sono anche incalcolabili li danni a venire, perché tutto all’intorno fu devastato il territorio per pascere i cavalli, e fieni e grani se n’andarono tutti. Ora siamo minacciati dalla venuta di soldati romani per preservarci da altre incursioni degli Insorgenti, dopo che fuggirono bravamente allorché temevansi, e vennero disfatti. Siamo in una Anarchia perfettissima e Iddio solo ci governa, e difende, e se non fossimo nelle sue mani poveri noi […]. Due volte ho risparmiato il sacco generale sotto gli Insorgenti ed una sotto i Francesi, e fu fortuna che il Generale Rusca avesse alloggiato in Casa mia a Ferrara, perché a mio riguardo risparmiasse a questo povero paese l’ultimo eccidio. Ma la finiscano una volta questi nostri Dipartimenti di tanto insistere sulle vendette, per cui si ritarda il Perdono generale, e sincero, che ci avrebbe risparmiati tanti guai (32).

Il vescovo di Veroli si riferiva alle stragi perpetrate durante la ritirata dei transalpini dalla Repubblica napoletana, partiti in tutta fretta per prestare soccorso ai commilitoni in difficoltà nell’alta Italia; un primo reparto di francesi, comandati dal generale Olivier, giunse a San Germano sulla strada del ritorno il 10 maggio e la sottopose ad una tremenda spoliazione. Il giorno successivo arrivò il numeroso contingente guidato dal generale Rusca e si attardò anche fra i tesori dell’abbazia benedettina, ove il saccheggio venne completato dagli insorgenti; deviando dalla via Latina, questi stessi militari presero la strada che da Ceprano conduceva a Sora e sostarono a Fontana (Liri), ove continuarono nell’opera di sistematica devastazione.

Il 12 maggio raggiunsero l’Isola di Sora. In questa occasione furono uccisi Antonio e Giovanni Pistilli, fratelli dei più noti canonici Ferdinando e Giacinto, l’ultimo dei quali aveva introdotto la trafila del ferro nell’Isola di Sora e come esperto in materia ebbe un ruolo di rilievo, insieme al fratello Antonio che era “macchinista”, nell’approntamento e nella disposizione delle artiglierie contro i repubblicani. Il comandante della Massa Armata della Regia Terra dell’Isola, malcapitato nelle mani degli insorgenti di Gaetano Mammone, certificò che Giacinto Pistilli era uno dei più decisi realisti; si era opposto strenuamente all’innalzamento dell’albero della libertà verso la fine di gennaio del 1799, partecipando poi in prima persona alla controrivoluzione iniziata alla fine del febbraio successivo, sia risistemando le artiglierie danneggiate dai francesi sia incoraggiando le popolazioni del “Regio Stato di Sora” nella difesa del Trono e dell’Altare (33).

Il canonico Ferdinando Pistilli nella sua Descrizione ricordò con parole cupe e commosse la tragica ritirata dei francesi dalle sponde del Liri, sottolineando le responsabilità di Gaetano Mammone nella carneficina dell’Isola di Sora, «giacché tutti i ponti erano stati tagliati per ordine dello sciocco comandante». Molti isolani, infatti, non trovando via di scampo, visto che l’unico passaggio rimasto aperto era quello della Porta di Napoli da dove entravano i francesi, si rifugiarono nella chiesa di San Lorenzo, nella quale il ricordato arciprete Giuseppe Nicolucci, che era stato giudice di pace repubblicano, stava officiando la messa, e qui furono sorpresi durante la celebrazione e trucidati (34); il giorno dopo, mentre il contingente guidato da Rusca si dirigeva su Veroli, alcuni militari entrarono nel monastero di Casamari e, dopo aver cercato invano l’abate Romualdo Pirelli, uccisero sei monaci (35).

Tragici episodi caratterizzarono anche la ritirata dei francesi attraverso la via Appia, già all’altezza di Sessa, ove gli uomini di Leone di Tora erano penetrati dalle loro basi intorno a Roccamonfina. Il 16 maggio 1799 l’abate Mattia de’ Paoli, nel suo Incitamento al popolo sessano, ritenne di dover recare una testimonianza dell’azione controrivoluzionaria svolta dal vescovo di Sessa, Pietro De’ Felice, presentandolo come principale ispiratore della «terribile controrivoluzione», che aveva avuto corso il 9 gennaio 1799, e lodandolo come autore del catechismo reale, considerato un utilissimo strumento per difendere i ragazzi dai «traviamenti» del deprecato catechismo repubblicano. Nel Catechismo reale del vescovo sessano, che si apriva con una rapida disamina dedicata al principio e origine de’ RE, a partire dal capitolo 14 della Genesi, si poteva leggere un interessante paragrafo (il secondo del capitolo II), ove vi era una netta affermazione della legittimità delle monarchie di diritto divino, ribadita e rafforzata dalla propaganda ecclesiastica controrivoluzionaria (36). Mattia de’ Paoli non tralasciava peraltro di ricordare «la dotta, ed eloquentissima orazione di Monsignor Nostro [Pietro De Felice] in morte di S. M. Cattolica Carlo III il Grande, fatta in tempo che era Canonico Teologo del Duomo di Capua, Napoli 1789, dalla Stamperia Pergeriana, e di cui se ne riporta un nobilissimo squarcio nella grande Opera del nostro dottissimo Principe Arcadico Signor Conte del Galdo» (37).

La citazione finale di Vincenzo Ambrogio Galdi, fondatore e principe della Reale Arcadia Sebezia, non era evidentemente casuale e stava lì a testimoniare il pieno coinvolgimento nell’agenzia controrivoluzionaria dell’abate di Cellole, che rispondeva così con qualche mese di ritardo all’appello subito lanciato dal conte del Galdo per organizzare fattivamente l’opposizione armata alla Repubblica; in un’altra chiosa il de’ Paoli esplicitamente dichiarava che «questa encomia di S. M. è stata meravigliosamente rilevata dalla sublime penna del nostro perpetuo Arcadico Principe Conte del Galdo, e di Belforte, Vincenzo Ambrogio Galdi, nel Proclama in difesa del Trono e della Religione, sotto l’31 gennaro di quest’anno 1799» (38).

Ma ciò che a noi più interessa è il tentativo posto in essere, subito dopo gli eventi rivoluzionari, dai membri della Reale Arcadia Sebezia, di appropriarsi in retrospettiva dell’azione degli insorgenti, presentandosi come ispiratori e registi dei moti contro i repubblicani; nell’Incitamento al popolo sessano, proprio nel passo che contiene la chiosa sul vescovo Pietro De Felice, il de’ Paoli indica nel capomassa locale, Leone di Tora, l’esempio da seguire, legittimandone l’operato.

Questa esaltazione a posteriori ‒ ricordiamo che l’Incitamento è del 16 maggio 1799 ‒ taceva però su quanto era avvenuto solo pochi giorni prima, in una giornata in cui, secondo la narrazione di uno storico locale, i rapporti fra Leone di Tora ed il vescovo Pietro De Felice non rientravano di certo nel cliché presentato al popolo sessano e denotavano invece un significativo scollamento fra le intenzioni violente degli insorgenti e l’intervento moderatore del prelato:

Dopo breve tempo però, si sparse la voce che il giorno 14 [maggio] sarebbe giunto a Sessa il Di Tora. Allora scoppiò il caos. I filofrancesi, per timore di rappresaglie, si eclissarono. Il popolo cominciò a temere un nuovo intervento repressivo francese più duro di quello di gennaio. Mons. De Felice, per evitare guai seri alla città, andò incontro al Di Tora e lo convinse ad entrare in Sessa solo per rifornirsi di vettovaglie e poi tornare sui suoi passi. Il Di Tora tenne fede ai patti e così Sessa potette finalmente respirare. Ma i guai per Sessa e per Mons. De Felice non finirono qui! (39)

Evidentemente, Leone di Tora non rispondeva ai comandi del vescovo Pietro De Felice, che appare sulla difensiva e preoccupato per una possibile aggressione: il caso di Sessa conferma dunque quanto avvenuto anche altrove nei rapporti fra cultura controrivoluzionaria ed insorgenze. Molti ecclesiastici e prelati contribuirono certamente alla sollevazione delle popolazioni contro i francesi e parteciparono spesso direttamente al reclutamento delle cosiddette “truppe a massa”, fornendo loro un’importante legittimazione agli occhi delle popolazioni locali.

Questa legittimazione però, ispirata dalla cultura controrivoluzionaria, proveniva dall’alto e dall’esterno, mentre le forme di reclutamento messe in atto dai capimassa seguivano criteri diversi, basati spesso su logiche claniche di aggregazione sociale, talché essi furono in grado di svolgere un’azione in gran parte autonoma, servendosi inizialmente della legittimazione ecclesiastica ma comportandosi poi spesso in maniera brutale e procedendo alla requisizione forzata di chiese e monasteri.

In certi casi, gli stessi capimassa, che a gennaio erano stati acclamati con il sostegno dei vescovi, a maggio si rivolgevano addirittura contro di loro e non prestavano ascolto ai consigli e agli ordini di nessuno, ritenendosi padroni assoluti del territorio sotto il loro controllo; erano essi stessi a ornarsi degli appellativi più altisonanti, fregiandosi spesso surrettiziamente di una legittimazione che sarebbe provenuta direttamente dal re.

Risalendo più oltre verso il confine, nel quadrilatero ove Michele Pezza a metà maggio aveva reclutato circa 1.700 uomini fra Sonnino, Pontecorvo, Maranola e Terracina, il Visitatore della Provincia di Terra di Lavoro, Vincenzo Marrano, sottolineava preoccupato la mancanza di qualsiasi autorità legittima, che potesse in qualche modo arginare i soprusi e le azioni criminose di «quei naturali volgarmente chiamati scarpitti», mentre il vescovo di Gaeta, Riccardo Capece Minutolo, lamentando gli abusi e le prevaricazioni commessi dagli insorgenti, riferiva a sua volta alla Segreteria dell’ecclesiastico che molte persone temevano di uscire da casa ed egli stesso non poteva «sicuramente girare per i luoghi della diocesi» (40).

Nella seconda metà di maggio i principali capimassa si preoccuparono certamente di legittimare il loro operato verso la monarchia, e se Frà Diavolo poteva farsi forte delle sue relazioni con gli inglesi, Gaetano Mammone inviò una lettera ad Antonio Micheroux in cui descriveva la composizione e i movimenti delle sue truppe a massa, vantando che «una buona porzione delle popolazioni dello Stato romano, e specialmente delle limitrofe, sono tutte a nostro favore, e di già dichiarate realiste, essendo finanche giunte alcune a chiedermi un capo che potesse dirigerle nella difesa, che io non ho mancato di accordarglielo» (41).

La documentazione, recentemente resa disponibile sull’Insorgenza ad Anagni, mostra il ruolo di primo piano esercitato nell’ex capoluogo del Dipartimento del Circeo da Francesco Mammone, tra la fine di giugno e la fine di luglio del 1799, e l’importanza fondamentale conferita al quartier generale di Sora come centro di coordinamento amministrativo e luogo di esercizio della giustizia per l’intero comprensorio; sono documentate addirittura richieste molto significative da parte di persone che, non sapendo bene a chi rivolgersi, inviavano lettere ai fratelli Mammone al fine di ottenere giustizia per i soprusi commessi dagli insorgenti.

Alcune di un certo interesse furono recapitate a Francesco Mammone dopo il sacco di Anagni del 13-14 luglio 1799, con l’impiego di titoli altisonanti, solitamente riservati a nobili e alti prelati, che stanno in questo caso piuttosto a dimostrare la scarsa legittimità del destinatario; in una di queste l’anagnino Antonio Iacobelli, malmenato e derubato nella sagrestia di una chiesa, raccomandava che non si fosse disposto alcunché contro gli aggressori «senza l’Oracolo dell’Illustrissimo General Mammone, poiché il fatto della Chiesa e la rapina commessa nella Medesima dalle Persone Cattoliche è imperdonabile» (42).

L’autorità riconosciuta ai tre fratelli Mammone, in un vastissimo comprensorio che andava dal confine napoletano fino ben dentro la Campagna romana, è un fatto non trascurabile e può contribuire a spiegare il delirio di potenza che essi ebbero nei mesi successivi. Com’è noto, le fortezze di Capua e Gaeta capitolarono rispettivamente il 28 e il 31 luglio; dopo questi eventi la guida della spedizione verso la Repubblica romana fu affidata al capomassa Giovan Battista Rodio, che aveva sullo schieramento di sinistra Frà Diavolo e sulla destra, convergente dagli Abruzzi, l’altro capomassa Girolamo Salomone, quest’ultimo originario, come il vescovo di Sora Agostino Colajanni, del centro pastorale aquilano di Barisciano; quando però il Rodio, agli inizi di agosto, giunse al confine fra Regno di Napoli e Stato pontificio incontrò l’opposizione di Gaetano Mammone, che pretendeva la presentazione di un permesso del re altrimenti non avrebbe lasciato libero il passaggio (43).

L’abbandono del Regno di Napoli da parte delle armate napoleoniche senza che il governo borbonico potesse disporre di un esercito regolare rappresentò di fatto un problema per il controllo del territorio; il Real ordine del 21 luglio 1799, con il quale si tentò di disciplinare subito le truppe a massa, non sortì che effetti molto limitati. Il generale della Santa Fede, Fabrizio Ruffo, aveva già avvertito il ministro Acton, in una lettera del 10 luglio, che Gaetano Mammone si era distinto all’assedio di Capua solo «per le turbolenze continuamente suscitate» ed aggiungeva: «Ho poi pessime notizie della di lui condotta in patria; ma ciò nonostante non bisogna disgustarlo affatto, e procurare solo di frenarlo» (44).

Al di là degli atti criminosi commessi, le sorti di Gaetano Mammone si giocarono per larga parte in questo frangente; durante l’avanzata dell’esercito napoletano verso la capitale pontificia, si procedeva infatti all’accertamento del comportamento degli insorgenti con attestati per le benemerenze conseguite in favore della monarchia borbonica che sottolineavano in particolar modo il mantenimento della disciplina e dell’ordine.

A Frascati, ad esempio, ove le truppe di Giovan Battista Rodio incontrarono a metà agosto una forte resistenza da parte dei repubblicani romani, il colonnello Michele Pezza si guadagnò un paio di attestati molto significativi, ove si elogiavano la sua «somma prudenza» ed il fatto di non aver «usata alcuna violenza»; gli abitanti di Albano assicuravano inoltre che il comandante l’ala sinistra della Regia Truppa in massa di S. M. Siciliana si è guadagnato l’affetto e la benevolenza di tutti i buoni, molto più per aver liberata a tempo questa medesima Città da una nuova scorreria e saccheggio, che già sicuramente si era preparata da parte dei Francesi, e patriotti, e se qualche disordine è succeduto a danno di qualche particolare, si deve questo sicuramente attribuire ad alcuni individui di detta Truppa a Massa, e di quelli specialmente chiamati li scarpitti (45).

Bisogna dunque rilevare da questo punto di vista una differenza sostanziale tra le precauzioni prese da Frà Diavolo, che pure fu rinchiuso nelle prigioni di Castel Sant’Angelo per ordine del cardinale Fabrizio Ruffo, ed il comportamento assunto dai fratelli Mammone dopo la fine della Repubblica napoletana; mentre questi ultimi continuarono a spadroneggiare ed estesero il loro dominio anche sulle terre della Repubblica romana, Michele Pezza dopo alcune incomprensioni rientrò nei ranghi e lasciò che i capimassa locali imponessero la loro autorità oltre la frontiera. Se da un lato, infatti, ad Anagni la popolazione si rivolgeva ai fratelli Mammone per ottenere giustizia, nella diocesi di Terracina-Sezze-Piperno, priva di vescovo, era il capomassa sonninese Domenico Antonio Greco a farsi garante del ripristino delle leggi del governo pontificio, a nome però del sovrano delle Due Sicilie, come risulta dall’ordine da questi impartito alla comunità di Bassiano affinché fosse ripristinato il «pubblico Consiglio» (46).

Mentre, dunque, molti capimassa rientravano nei ranghi ed ottenevano attestati di buon comportamento, accompagnati da richieste di indennizzo per le spese sostenute, la Curia vescovile di Sora avviava indagini su Gaetano, Luigi e Francesco Mammone, interrogando i titolari dell’arcipretura della chiesa di San Bartolomeo, parrocchia cui i tre fratelli appartenevano (47). Così quando il 30 agosto l’Uditore generale dei Reali Eserciti Vincenzo Petroli ‒ fedele accompagnatore del generalissimo Fabrizio Ruffo durante la riconquista del Regno ‒ chiese informazioni su di loro (49), il vicario generale Francesco Felice Tiberi poté attestare che i fratelli Mammone passavano per uomini “irreligiosi” e che da più tempo Gaetano Mammone non adempiva al precetto pasquale (49).

Il termine “irreligiosi” va opportunamente contestualizzato, poiché in questo periodo esso era diventato sinonimo di “giacobini” insieme ad “empi”, con il quale pure il vescovo Colajanni apostrofò il capomassa Gaetano Mammone. Il sovversivismo degli insorgenti e dei democratici era messo sullo stesso piano e ciò spiega anche perché nella convulsa stagione politica successiva all’esperienza repubblicana vi fosse un agitato rifluire di correnti ed orientamenti culturali e si potessero sospettare inconsulte alleanze fra gli uni e gli altri. Nemmeno il vescovo Agostino Colajanni, che pure aveva avuto un ruolo determinante nell’elezione del capomassa, sfuggì al predominio assoluto e al giustizialismo di Gaetano Mammone; costui infatti, secondo quanto riportato nelle Memorie segrete attribuite al filo-borbonico Giuseppe Torelli (50), sarebbe stato addirittura sul punto di far fucilare il vescovo di Sora con l’accusa di giacobinismo (51).

Nel mese di agosto, dunque, i fratelli Mammone perdettero qualsiasi legittimità ad operare in nome della monarchia e diventarono a tutti gli effetti capi di bande armate contro l’ordine costituito. La vicenda di Colajanni e Mammone è stata narrata da Benedetto Croce nell’“Archivio Storico per le Province Napoletane” (52) in pagine che esprimono in maniera esemplare quella linea storiografica che aveva percorso tutto l’Ottocento a partire dal Saggio storico di Vincenzo Cuoco (53), utilizzato per fornire il canovaccio della lettura moderata degli eventi rivoluzionari, nella quale l’esperienza della Repubblica napoletana era elevata a modello della inaffidabilità politica delle masse popolari (54); in questo quadro si inseriva la ricordata lettera di Giovan Battista Rodio al ministro Acton, datata 19 novembre 1801, nella quale l’ex capomassa riassumeva un rapporto stilato dal governatore di Montalto (in provincia di Ascoli) il 13 novembre, ove si esponevano nel dettaglio le trame di una congiura indipendentista alla quale avrebbero partecipato insieme patrioti ed insorgenti, con il sostegno, fra gli altri, di Gaetano Mammone.

Negli atti processuali a carico di quest’ultimo, che si sono conservati, non vi è traccia della sua partecipazione a questa congiura e di un eventuale tradimento politico della monarchia borbonica (55), ma i comportamenti che egli tenne insieme ai suoi fratelli sono più che sufficienti a giustificare la condanna di fatto emessa nei suoi confronti dalle autorità militari e religiose, prima ancora che dal governo napoletano. Il Visitatore generale per la Terra di Lavoro, Vincenzo Marrano, asseriva che la «terribile anarchia» imperante nella Terra di Lavoro era dovuta soprattutto alle azioni dei «masnadieri» di Mammone (56); il vescovo Colajanni, in una lettera del 28 ottobre 1799, dopo aver fatto riferimento ai seguaci de «l’empio Mammone», affermava che «i patrioti iniqui rimasti impuniti e liberi sono oggetto di non piccolo fermento; se capiteranno in mano ai preti pagheranno il fìo della loro ribalderia» (57).

Una testimonianza esemplare del profondo conflitto apertosi fra Insorgenza e Controrivoluzione al confine fra Regno di Napoli e Stato pontificio, della natura anarchica assunta dalle sollevazioni popolari rispetto alla guerra di popolo prevista dalle autorità politiche e religiose di fede borbonica, è costituita dalle Narrative e Riflessioni di Pasquale Cayro, conservate ancora manoscritte e vergate sotto l’impressione degli eventi (58).

Lo storico ed archeologo di San Giovanni Incarico, che nel ’99 aveva sessantasei anni, da giovane era stato cadetto del Reggimento dei Dragoni Borbone, quindi ben conosceva l’importanza della preparazione militare per il programma riformistico borbonico settecentesco e il rilievo assunto dalla carriera nell’esercito per il processo di affermazione familiare ed individuale della piccola e media borghesia meridionale.

Non a caso la critica asperrima delle insorgenze, motivo conduttore sostanzioso e sostanziale dell’intera narrazione, è fatta precedere materialmente e storicamente da una lunga e puntuale critica del malaffare, del malcostume e della corruzione che percorrevano i quadri dell’esercito e che avevano caratterizzato gli inutili e dispendiosi accantonamenti militari del 1796 fra la costa tirrenica e il confine abruzzese. Su questo aspetto conviene riflettere.

Anche gli altri Stati italiani ed europei non erano riusciti ad opporre una valida resistenza alle armate napoleoniche; si era arreso l’esercito sabaudo (con la sua prestigiosa tradizione), era naufragata la gloria della Repubblica veneta, come tre secoli prima milanesi, toscani e pontifici avevano assistito inermi al passaggio delle truppe francesi. Ma per il Regno di Napoli era diverso: negli ultimi anni il governo borbonico aveva condotto una politica internazionale aggressiva, all’interno la lotta al “mostro feudale” e il giurisdizionalismo in campo ecclesiastico avevano aperto la strada ad ambiziosi progetti di riforma; soprattutto, più che altrove, la guerra contro i francesi era stata preparata con un grande spiegamento di forze accompagnato da toni propagandistici e da discorsi retorici, per cui molti si attendevano una più efficace resistenza dall’esercito del più grande Stato italiano.

Per questo la delusione e lo sconcerto furono più forti che altrove e le cause della sconfitta furono cercate soprattutto nella mancata tenuta dell’esercito, già mortificato, secondo alcuni, dalla presenza di parecchi ufficiali stranieri, il che avrebbe contribuito ad accreditare l’ipotesi di un complotto o di un tradimento da parte dei sottoufficiali. Ma come mostrano le considerazioni (ripetute) del Cayro, nella percezione di molti il tracollo dell’esercito napoletano divenne quasi una metafora del fallimento del riformismo borbonico.

In controluce rispetto ad un legittimismo dinastico ancora vigoroso ed operante in maniera giustificatoria nella cultura controrivoluzionaria, l’appello al popolo poteva apparire un espediente disperato, l’ammissione del fallimento di una stagione di riforme, la sconfessione dell’operato dell’esercito borbonico, una mancanza di fiducia nella maturità civile della nazione napoletana. Il popolo, questo vero e proprio feticcio per buona parte della cultura politica ottocentesca, appare nella sua veste anarchica agli occhi del Cayro già subito dopo l’arrivo dei francesi a Napoli, quando alzato il secco albore della sognata libertà, si sentono le acclamazioni per la loro venuta, e tra questi il popolaccio, il quale, per non dimenticarsi del suo innato mestiere di rubare, cominciò a saccheggiare, senza perdonare al real palazzo, nel quale ne pur i ferri vi lasciarono. Questo è quel popolo in apparenza fedele, che paragonar si deve alle frondi degli albori, che piegano a seconda de’ venti (59).

Il quadro dettagliato degli insorgenti, indicati nel loro basso profilo sociale, e delle insorgenze, segnalate in tutta la provincia con dovizia di particolari, era lo stesso dappertutto, fatto di ruberie, sopraffazioni, di scarso senso della disciplina e soprattutto di irrilevante efficacia ai fini della difesa della Religione, della Patria, delle persone, della proprietà:

tutti gli insorgenti sono stati di quella razza di gente, a’ quali poco o niente piaceva la fatica, ed alcuni, ancorché tali non erano, vi si andiedero di giorno in giorno unendo, per aver conosciuto essere una vigna per loro profittevole, di mangiare, bere, ed esigger denaro dalle Università (60).

Su questa falsariga il Cayro tratteggia un disegno molto interessante di ciò che avrebbe dovuto essere la guerra di popolo per il governo borbonico e per la cultura dell’ordine controrivoluzionaria:

Se degl’insorgenti, o sieno scarpitti, fusse stato un capo autorevole, e di senno, e si avesse avuta la voglia di difendere la real corona, con volersi con coraggio affrontarsi coll’inimico, si poteva tenerlo a freno senza la rovina delle Università, e de’ particolari, sarebbe stata una difesa secondo la mente del Sovrano, né si sarebbe dato largo a tanti disordini. Imperocché in ogni settimana secondo le rispettive popolazioni si doveva mandare un determinato numero d’Uomini atti alle armi, e situarsi in Lenola, Campodimele, Spigno, Fratte, Castelforte e Mignano, e da questi paesi distaccarsi corpi volanti con farsi vedere, or in un colle, or su di un monte, ed or in una selva, per far comprendere all’inimico, che si vegliava in osservare i loro andamenti, e per respingerli, qualora avessero voluto avanzarsi, che far non potevano pel poco loro numero, e per non essere prattici delle contrade, e queste montuose, e selvate, e si era conosciuto che il loro scopo altro non era, che di tenersi il passo libero della via Appia per la comunicazione con Roma, per cui teneva truppa il loro Generale, ed in poca quantità in Fondi, Itri, Mola, Trajetto, e Sessa. Non esistevano francesi in Veroli, né in Ceprano, e se vi fussero stati, era sufficiente gente armata in Castelluccio, ed alcuni passi del fiume Liri, ne’ quali è pur pericoloso passarsi (61).

Ma l’Insorgenza non rispose affatto a queste previsioni e conviene seguirne le origini al confine fra Regno di Napoli e Stato pontificio ancora attraverso la descrizione che ne offre subito dopo Pasquale Cayro, ove alla figura evanescente del giacobino e alla sua significativa caratterizzazione ebraica fa prontamente da pendant l’efferatezza debosciata degli uomini che si coprivano dietro i vessilli della Santa Fede.

E se di tempo in tempo, si son fatti vedere nel confine Romano col Regno per lo più era gente collettizia, ed in poco numero col nome di Giacobini, e nella sua maggior parte ebrei, che sono i più timidi del mondo, e la cagione della loro venuta, dir si deve, per le insolenze e furti che commettevano nel territorio, e paesi, esistenti in questo confine della Repubblica Romana. Cominciarono quindi ad unirsi colla [massa] dei Sorani, e degl’altri confinanti, alcuni delle Città, e Terre del dominio di Roma, per aver conosciuto un tal mestiere, molto per loro vantaggioso, ed i loro capi sono stati i Mastrilli di Bauco con altri malviventi di Sonnino, di San Lorenzo, della Scurgola, e di altre Terre, ed Afile soggiacque anch’all’incendio, essendovi stati d’unita alcuni dei Mammoniani di Sora. Eran queste masnade di gente cimentosa co’ deboli, ubriachi, sfaccendati, e dediti al latroneccio, rubando finanche asini, cavalli, bovi, trasportandosi ben’anche branchi di vaccine, capre, pecore, fin’a giumente, bufale, facendone pur ad altri vendita. Persone miserabili, che vivevano colla fatica, e con far il vetturale, si sono veduti con buoni cavalli, ben vestiti con orologi, e denaro, e chi voleva esprimere tal gente, usava le parole, è della Santa Fede, poiché coprivano la loro scelleraggine, col dire, che per la Religione andavano contro i Francesi, i quali mai hanno assaliti, e fatti retrocedere inseguiti (62).

A fronte del protagonismo popolare, la dinamica delle fazioni locali tende a perdere contorni precisi; la stessa polarizzazione in campi contrapposti (repubblicani e monarchici) innescata dal processo rivoluzionario sembra venir meno rispetto all’impeto di movimenti popolari che sfuggono a qualsiasi controllo e portano spesso le élites del governo locale a ricompattarsi, nonostante le divergenze e le divisioni in campi avversi.

Si può ben dire che per circa un anno, dopo l’estate del 1798, nelle città e terre al confine fra Regno di Napoli e Stato pontificio vi fu una sospensione della legalità e della vita politica tradizionale, che buona parte del vecchio ceto dirigente cercò di tenersi in disparte o di moderare gli eccessi commessi dalle truppe a massa, che un’ampia fascia del territorio fu dominata dalle scorribande delle insorgenze, alla testa delle quali si posero capimassa con una rudimentale cultura politica e con obiettivi piuttosto limitati.

Bisogna dunque contestualizzare e circostanziare i movimenti delle insorgenze, poiché molto spesso nobili e borghesi, partecipi in un primo momento dell’opposizione alla repubblica, dovettero defilarsi e lasciare il campo alla violenza popolare. Nel periodo rivoluzionario si riprodussero certamente pratiche e rituali delle jacqueries, tempi e modi delle dinamiche di fazione, rivalità campanilistiche e conflitti urbani, fibrillazione dei rapporti città-campagna ed esaltazione delle devozioni religiose, ma non bisogna però sottovalutare l’impatto dirompente che ebbero le insorgenze al di sopra e al di dentro della crisi delle strutture dell’antico regime (63).

La gradualità delle riforme era stata consapevolmente auspicata dai più autorevoli illuministi meridionali, che facevano in genere affidamento sulla monarchia mostrandosi scettici sulle autonome capacità di palingenesi popolare; al contempo non bisogna lasciarsi fuorviare dai tentativi di manovrare le insorgenze o di strumentalizzare pareneticamente l’esempio dell’opposizione popolare al nemico francese. Nei fatti, facendo perno su un tradizionale sospetto verso la partecipazione popolare alle riforme, gli interessi, la cultura e i propositi del fronte controrivoluzionario si rivelarono irricomponibili quando ci si rese conto che l’Insorgenza avrebbe portato ad un vero e proprio rovesciamento dell’ordinamento socio-politico, anche peggiore e più minaccioso di quello repubblicano voluto dagli odiati francesi (64).

Presentimenti o convincimenti, questi, che furono immediatamente palesati e rafforzati nell’estate del ’99 e che trovano ancora un’eloquente conferma nel manoscritto di Pasquale Cayro, il quale contiene una lettera preoccupata di un cittadino di Anagni che si colloca nel quadro a tinte forti precedentemente tracciato:

Era già cessato il timore de’ nemici, ma non già quei dei briganti, poiché continuarono sotto colore di aiutare a pro della real corona, di andare rubando e commettendo insolenze, dalle quali non furono esenti le Città, e Terre dello Stato romano, per essersi allontanati i Francesi. Ne scrissi con lettera ad un nobile di Anagni, del tutto realista, e mi rispose: Non è possibile, il potervi fare un giusto quadro di tutto ciò, che abbiamo sofferto per gli insorgenti, vi basta sapere, che vi sono stati dei momenti, ne’ quali abbiamo dovuto desiderare i Francesi, gente così malvagia. La nostra Città avurà sofferto de’ danni fin’a centomila scudi; ma il più funesto, e crudele, sono stati i timori, che ci mettevano gl’insorgenti, usciti da casa del diavolo (65).

Vi era una scarsa possibilità di dialogo fra la cultura controrivoluzionaria e le pratiche degli insorgenti, così come vi era ormai uno scarto fra l’immagine del gregge mansueto dei “filiani” elaborata dalla cultura ecclesiastica e la feroce empietà mostrata dagli insorgenti delle comunità agro-pastorali. Così ad esempio a Vallecorsa, sul crinale di molteplici confini nazionali, dipartimentali e diocesani, ove gli insorgenti assassinarono «alcune famiglie, caratterizzandole per Giacobine» o nell’episodio del francese morto e appeso «nel macello, come un porco scannato».

E ancora è lo stesso Cayro ad aggiungere una testimonianza, sul filo della costante distinzione fra la disciplina “borghese” delle truppe di linea e l’indisciplinatezza delle truppe a massa, in favore del “Comandante Fra Diavolo”, il quale negli affannosi tentativi di riportare l’ordine, sconvolto da coloro che ormai usavano il termine “giacobino” solo come un epiteto per coprire le loro ruberie e sopraffazioni, era quello «che più d’ogni altro gli ha tenuti a freno, impedendo i sconcerti».

Proprio in questa parte concitata delle Narrative è inserita una citazione tratta dal “Mercurio britannico” di Jacques Mallet du Pan (66); significativa sia perché esplicita la linea data al periodico dal noto attivista controrivoluzionario svizzero (67), sia per quanto riguarda la circolazione delle informazioni in ambito provinciale e il giudizio storico relativo alla difesa militare del Regno di Napoli.

Pochi francesi sarebbero fuggiti alla giusta vendetta degli abitanti, se gli stranieri, che gli discacciavano, non ne avessero protetta l’esistenza. Tra le bizzarrie di questa controrivoluzione, la più straordinaria è che quel Regno di Napoli, il quale nell’anno precedente aveva quarantamila Uomini sotto le armi, è stato debitore di sua liberazioni principalmente a un’Ammiraglio, e a due Capitani di vascello Inglese, a pochi soldati di marina, e marinari, e ad alcuni deboli distaccamenti di truppe Russe, e Britanniche. Dunque gl’Insurgenti, o sieno scarpitti [concludeva sconsolatamente il Cayro a commento delle parole del Mallet du Pan] ad altro non sono serviti, che ad assassinare i particolari benestanti, e le popolazioni, ed a mettere in confusione ed in rovina il reame, e poco a mancato a suscitarsi una guerra tra paese e paese (68).

Motivo, questo, che ritorna più ampiamente e meglio precisato nei suoi contorni sociali e politici poco oltre, sempre sulla scia del deplorabile arruolamento in massa di giovani indisciplinati, poco avvezzi alla cultura delle armi, espressione nell’esercito di quel sovvertimento dell’ordine gerarchico che aveva causato tanti mali, per cui si doveva solo ringraziare «Iddio, di non esservi succeduta una guerra civile nelle Comuni, tra i benestanti, e gli onorati cittadini, che si contentano con la fatiga vivere con le loro famiglie, con quei che volevano esercitar brigantismo, ed altresì avvenir poteva tra Comune, e Comune» (69).

I ceti dirigenti controrivoluzionari erano ispirati da una cultura dell’ordine, basata su una visione gerarchica della società, che non poteva riconoscersi nelle propensioni eversive degli insorgenti del triennio rivoluzionario. Il problema della partecipazione delle masse popolari, dunque, non si produsse solo nel campo democratico, tema sul quale tanto si è insistito dopo l’eloquente testimonianza di Vincenzo Cuoco, che attraverso la critica dell’astrattismo rivoluzionario fornì il canovaccio dell’interpretazione degli eventi del 1799 napoletani nei termini di “rivoluzione passiva”.

Non sempre le accuse dei moderati contro gli insorgenti corrispondevano alla realtà degli atti commessi ed è certo che in esse agivano spesso pregiudizi, risentimenti e stereotipi radicati da tempo; sta di fatto, comunque, che negli ambienti controrivoluzionari si sviluppò una maggioranza critica consapevolmente contraria a forme di partecipazione popolare ritenute contrarie all’ordine naturale, che raccoglieva in parte le istanze del gradualismo riformatore settecentesco e che costituì uno dei nuclei del pensiero conservatore ottocentesco (70).

In Italia, diversamente da quanto accadde in Francia con la Vandea, ben pochi ritennero di poter formare un’identità politica conservatrice fondandosi sul fenomeno delle insorgenze; le sollevazioni popolari che si ebbero fra Regno di Napoli e Stato pontificio non furono affatto una nuova Vandea (71), come sostenuto dal comandante Marc-Antoine Girardon con il linguaggio già strutturato ideologicamente della Rivoluzione francese (72).

Non lo furono nella pratica, perché le fazioni politiche contrapposte vennero frantumate dal conflitto sociale e proprio per questo non si ebbe una guerra civile delle proporzioni di quella che si verificò nell’antica provincia del Poitou; non lo divennero per la cultura politica, perché la maggioranza dei moderati, soprattutto i liberali, non volle coltivare la memoria di quegli eventi, pur non mancando coloro che hanno ritenuto di poterne idealizzare o strumentalizzare il ricordo.

Infatti, le ambiguità e i pregiudizi affiorati nel corso del 1799 svuotarono l’opposizione alle repubbliche di progettualità ideologica, per cui la mancanza di accordo fra la pratica politica delle masse popolari sanfediste e la cultura politica dei ceti dirigenti controrivoluzionari non permise di approdare, su queste premesse, alla formazione di una solida identità politico-culturale. Il chiarimento di questo punto è tanto più importante perché postula un processo di sviluppo della cultura conservatrice e liberale nel Mezzogiorno d’Italia diverso da quello di tipo vandeano e potrebbe rendere ragione del cauto riformismo dei ceti dirigenti meridionali, con la connessa deriva estremistica degli strati sociali che non riuscirono a trovare una rappresentanza dei loro interessi negli ordinamenti politici ottocenteschi.

Note

(1) J.-C. Martin (dir.), Dictionnaire de la Contre-révolution xviiie-xxe siècle, Perrin, Paris 2011, p. 11; recentemente Martin ha sottolineato il terreno comune a Rivoluzione e Controrivoluzione, sul piano culturale ed emozionale, in Romantisme, Révolution et Contre-Révolution: un oxymore, in “Nuova Rivista Storica”, xcvii, 1, 2013, pp. 211-4; vedi anche Id., La Révolution française, une révolution romantique?, in D. Couty, R. Kopp (éds.), Romantisme et Révolution(s), Gallimard, Paris 2008, pp. 77-91.

(2) Sul tema vi è una storiografia importante, nel tempo risalente e molto differenziata sul piano interpretativo e del giudizio storico; mi limito qui a ricordare A. M. Rao (a cura di), Folle controrivoluzionarie. Le insorgenze popolari nell’Italia giacobina e napoleonica, Carocci, Roma 1999; A. De Francesco, Il significato delle Insorgenze nella cultura politica italiana di due secoli, in C. Continisio (a cura di), Le insorgenze popolari nell’Italia napoleonica. Crisi dell’antico regime e alternative di costruzione del nuovo ordine sociale, Edizioni Ares, Milano 2001, pp. 31-44; L. Topi, “C’est absolument la Vandée”. L’insorgenza del Dipartimento del Circeo (1798-1799), Franco Angeli, Milano 2003; E. Di Rienzo (a cura di), Nazione e controrivoluzione nell’Europa contemporanea, 1799-1848, Guerini e Associati, Milano 2004, pp. 85-116; M. Formica, Sudditi ribelli. Fedeltà e infedeltà politiche nella Roma di fine Settecento, Carocci, Roma 2004; M. Caffiero, La repubblica nella città del Papa: Roma 1798, Donzelli, Roma 2005; M. Cattaneo, Percorsi di elaborazione della memoria: contro-rivoluzione e insorgenze in Italia, in B. Dumons, H. Multons (éds.), “Blancs” et contre-révolutionnaires. Espaces, réseaux, cultures et mémoires (xviiie-dèbut xxe siècle: France, Italie, Espagne, Portugal), École Française de Rome, Roma 2011, pp. 257-76. Del fenomeno delle insorgenze si sono occupate, inoltre, alcune correnti di opinione, in parte ispirate da movimenti neo-borbonici, che hanno coniugato la lettura del sanfedismo con quella del successivo brigantaggio meridionale, recuperando molti dei motivi polemici relativi alla “conquista” del Regno di Napoli da parte dei piemontesi. Si vedano, ad esempio, i libri di F. M. Agnoli, Le insorgenze antigiacobine in Italia, 1796-1815, Il Cerchio, Rimini 2003; F. Pappalardo, O. Sanguinetti, Insorgenti e sanfedisti: dalla parte del popolo. Storia e ragioni delle insorgenze anti-napoleoniche in Italia, Tekna, Potenza 2000; M. Viglione, Rivolte dimenticate: le insorgenze degli italiani dalle origini al 1815, Città Nuova, Roma 1999; particolarmente rilevante è stato il successo editoriale del libro di P. Aprile, Terroni: tutto quello che è stato perché gli Italiani del Sud diventassero meridionali, Piemme, Milano 2010.

(3)Su questi aspetti sia consentito rinviare a L. Alonzi (a cura di), Lettere di John Acton, Ferdinando Borbone e Maria Carolina d’Asburgo-Lorena a Francesco Maria Statella (ottobre 1799-giugno 1800), Rubbettino, Soveria Mannelli 2013.

(4)G. A. Sala, Diario romano, 1798-1799, a cura di G. Cugnoni, Roma 1882-86, ristampa anastatica, Roma 1980, vol. i, p. 166. Sulla figura di G. F. Albani, che richiederebbe più ampie indagini, vedi G. Sofri, Albani Giovan Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. i, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1960, pp. 604-6.

(5)[C. Della Valle], Specchio del governo e popolo di Roma, ed esame della condotta tenuta dalla Corte nella sua neutralità, armistizio, e pace colla Repubblica francese, [Milano? 1797].

(6)Per l’attribuzione cfr. “Monitore di Roma”, n. xli, 23 messifero anno vi rep. e i della R.[epubblica] R.[omana]; il corsivo è nel testo.

(7)Per la rivolta trasteverina cfr. M. Cattaneo, La sponda sbagliata del Tevere. Mito e realtà di un’identità popolare tra antico regime e rivoluzione, Vivarium, Napoli 2004; sul contesto di Roma repubblicana si rinvia ai lavori citati di Marina Formica e Marina Caffiero (cfr. nota 2).

(8)Sulla figura del Colajanni si rinvia a L. Alonzi, Il vescovo-prefetto. La diocesi di Sora nel periodo napoleonico, 1796-1818, Centro di Studi Sorani “V. Patriarca”, Sora 1998.

(9)P. Caputo, Studi su Romualdo Pirelli abate di Casamari, [Casamari] 1971.

(10) G. Tripodi, Due lettere inedite del cardinale Fabrizio Ruffo a Romualdo Pirelli, abate di Casamari, in “Rivista Cistercense”, vi, 2, 1989, pp. 159-71.

(11) La lettera, datata Napoli 23 luglio 1798, è stata riportata da M. Cassoni, La badia di Fossanova presso Piperno. Notizie storico-genealogiche, in “Rivista Storica Benedettina”, vi, 1911, p. 80.

(12) La riforma trappista era stata introdotta a Casamari nel 1717 su ispirazione del cardinale Annibale Albani, che era abate commendatario del plurisecolare cenobio cistercense: cfr. L. Molignini, Gli abati claustrali dell’abbazia di Casamari: dall’introduzione della riforma trappista (1717) all’erezione canonica della congregazione di Casamari (1929), Edizioni Casamari 2011, che alle pp. 87-108 traccia un profilo della personalità religiosa di Romualdo Pirelli.

(13) Sul ruolo della Reale Arcadia Sebezia cfr. E. Spagnuolo, L’Arcadia Reale e il 1799. Un’accademia letteraria alla riconquista del Regno di Napoli, Edizioni Nazione Napoletana, Napoli 2000, e A. L. Sannino, L’altro 1799. Cultura antidemocratica e pratica politica controrivoluzionaria nel tardo Settecento napoletano, esi, Napoli 2002.

(14) Vari poetici componimenti di due Accademici Sinceri dell’Arcadia Reale a perpetua memoria di Sua Maestà Ferdinando iv Borbone […] in occasione che egli ha onorata della Regal Sua Presenza la fedelissima e nobilissima città di Sora, Napoli mdccxcvi.

(15) Un quadro degli avvenimenti legati all’Insorgenza del Circeo si trova nell’opera citata di Luca Topi (cfr. nota 2).

(16) Per il contesto, cfr. ora C. Pietrobono, La diocesi di Alatri nel periodo della crisi rivoluzionaria (1789-1815). «Resistenza o adattamento?», Pontificia Università Lateranense, Roma 2006.

(17) G. Segarini, M. P. Critelli, Une source inédite de l’histoire de la répubblique romaine: les registres du commandant Girardon. L’“insorgenza” du Latium méridional et la campagne du Circeo, in “Melanges de l’École Françaises de Rome”, civ, 1, 1992, p. 318.

(18) Ivi, p. 409.

(19) M. Stirpe, Vicende e protagonisti della giacobina repubblica a Veroli, in Id., Verulana civitas. Ricerche storiche, isalm, Anagni 1997, pp. 143-4.

(20) Segarini, Critelli, Une source inédite, cit., p. 374.

(21) La lettera, conservata nell’Archivio di Stato di Roma, fondo Repubblica Romana, b. 4, fasc. 26, è segnalata da L. Tombolesi, L’insurrezione del luglio 1798 nel dipartimento del Circeo, in “Latium”, 15, 1998, p. 169.

(22) Segarini, Critelli, Une source inédite, cit., pp. 420 e 440.

(23) S. Nanni, Il conclave dell’esilio, in G. Spinelli (a cura di), Pio vii Papa benedettino nel bicentenario della sua elezione, Atti del Congresso storico internazionale (Cesena-Venezia, 15-19 settembre 2000), Centro benedettino italiano – Badia di Santa Maria del Monte, Cesena 2003, pp. 99-121.

(24) Archivio di Stato di Napoli, fondo Rei di Stato, 1569, lettera senza data di Agostino Colajanni a Francesco Migliorini, da collocarsi fra la seconda metà del 1799 e la prima metà del 1800, in cui si parla dell’assegnazione al canonico Giuseppe Nicolucci del beneficio di Regio patronato detto del Palazzo, nell’Isola di Sora, vacato nel settembre del 1798: «In tal stato di cose mi fo un dovere di rassegnare a V. E. come ho perinteso con accerto che il cennato Canonico Nicolucci dentro il mese di febraro prossimo passato essendosi in vista di un proclama repubblicano organizzato nella terra dell’Isola dal Popolo la municipalità, da lui si leggesse sotto l’albero il Proclama suddetto, e restasse in tale occasione ancor esso eletto Giudice di Pace dal Popolo medesimo; sebbene circa la di lui condotta nulla sia stato, come ho udito, di criminoso, e che dimostrasse propensione al Governo Repubblicano».

(25) Per le vicende rivoluzionarie di San Germano e di Arce si vedano G. Lena, Le vicende di San Germano (Cassino) e di Montecassino nel 1799, in “Latium”, 8, 1991, pp. 141-74, e F. Corradini, …di Arce in Terra di Lavoro…, ii, Arce 2004, pp. 186-201.

(26) La lettera è riportata da A. Nicosia, Una inedita corrispondenza del 1799 tra i paesi al confine pontificio, in “Rassegna Storica Pontina”, i, 1993, p. 162.

(27) Su Fra’ Diavolo cfr. F. Barra, Michele Pezza detto Fra’ Diavolo: vita, avventure e morte di un guerrigliero dell’800 e sue memorie inedite, Avagliano Editore, Cava de’ Tirreni 2000.

(28) Archivio Storico Comunale di Alvito, serie i, Sedute del Decurionato (Registri); Reg. 2, Sedute Decurionali. Pubblico Parlamento di Alvito (1745-1799), cc. 467v-468v, Deliberazione del Pubblico Parlamento di Alvito del 12 marzo 1799; ringrazio Lorenzo Arnone Sipari che mi ha fornito questo documento.

(29) Stirpe, Vicende e protagonisti, cit., pp. 154-6.

(30) A. Di Biasio, Rivoluzione e controrivoluzione nell’alta Terra di Lavoro. La Repubblica napoletana del 1799, in F. Barra (a cura di), Il Mezzogiorno d’Italia e il Mediterraneo nel triennio rivoluzionario, 1796-1799, Centro di ricerca G. Dorso, Avellino 2001, p. 539.

(31) Per quanto riguarda questi eventi cfr. F. Pistilli, Descrizione storico-filologica delle antiche e moderne città e castelli esistenti accosto i fiumi Liri e Fibreno, Stamperia Francese, Napoli 1824, pp. 19-21; C. Branca, Memorie istoriche della città di Sora, Napoli 1847, ristampa anastatica [Sala Bolognese 1976], pp. 135-7; D. Celestino, M. Ferri, Il brigantaggio a Sora e nella Valle di Comino dal 1798 al 1808, Centro Studi Cominium [Casalvieri, 1979], p. 145; V. Pinelli, L’occupazione francese, Isola del Liri 1988, pp. 20-3.

(32) Sala, Diario romano, cit., vol. iii, pp. 363-4.

(33) Archivio di Stato di Napoli, fondo Rei di Stato, 1569; ove si conserva un documento sulla questione riportato in parte, ma con altra segnatura, nell’articolo citato di Di Biasio, Rivoluzione e controrivoluzione, cit., alle pp. 598-9. Nel fascicolo da me consultato si trova anche una lettera scritta dal segretario Grossi, in data 24 settembre 1799, riportata senza data dallo stesso Di Biasio alle pp. 596-8; vi è inoltre la seguente lettera inedita, adespota e senza data: «In tutte le azioni la Casa Pistilli era la prima a prendere le armi e a diriggere l’artiglieria; e questo con tale costanza, e fermezza che nell’ultimo attacco di Pentecoste, essendo la Colonna francese, comandata dal Generale Rusca, forte di ottomila uomini, restarono avvinti due fratelli del canonico, fra i quali il celebre macchinista Antonio, ch’era il sostegno della Casa. Essendo, com’è mio dovere, il Sovrano incarico, mi do l’onore di rassegnare alla Vostra Sovrana intelligenza, che l’impegno del canonico e famiglia Pistilli, a vantaggiare gli interessi del Real Patrimonio è a me noto; perché sono stato in mezzo all’affare notorio della introduzione delle manifatture di ferro, progettata da esso canonico, ed accettate dalla M. V., come utili e vantaggiose. Dell’attaccamento poi alla Vostra Sacra Persona, e delle esposte operazioni fatte nella passata rivoluzione, sono stato accertato da persone d’intera fede, e specialmente dal vescovo di Sora Colajanni, da cui si fa elogio grandissimo a detta famiglia; oltre che avendo io piena cognizione del Canonico prefato, e dei suoi fratelli, ho sempre scorti ne’ medesimi quei sentimenti, che caratterizzano il fedele suddito della M. V. La famiglia suddetta è stata sempre una famiglia onesta, e veniva mantenuta nella maggior parte dalle industriose fatiche del fu Antonio Pistilli, rimasto ucciso coll’altro fratello nell’attacco coi francesi; e sono stato avvisato che presentemente per la morte di detti due individui, per i saccheggi ed altri danni ricevuti, si trovi la detta famiglia composta di otto individui, nello stato di deplorabilità; e finanche vi si trova senza casa d’abitazione, perché quella che nella Terra dell’Isola esisteva, rimase incendiata dal furore nemico negli attacchi militari».

(34) In relazione all’eccidio nella chiesa di San Lorenzo di Isola rimandiamo a Pinelli, Pio vii Papa benedettino, cit., pp. 67-73, che fornisce l’elenco delle persone trucidate ad Isola dai francesi il 12 maggio 1799, esistente presso l’Archivio parrocchiale di San Lorenzo, peraltro già riportato in fotografia da A. Carbone, Giustiniano Nicolucci e la sua patria, [con i tipi dell’Abbazia, Casamari] 1971, pp. 284, 286-7. Si veda inoltre A. Lauri, Sora, Isola del Liri e dintorni, Tipo-Litografia V. D’Amico, Sora 1913, pp. 149-50, che riporta due importanti documenti inediti tratti dal Libro dei morti della chiesa di San Lorenzo e dall’Archivio Comunale di Isola del Liri (una deliberazione del Decurionato del 25 aprile 1810), il primo dei quali scritto dall’arciprete Giuseppe Nicolucci.

(35) Per i fatti di Casamari del 13 maggio 1799 cfr. B. Fornari, Assassinio nell’abbazia. La rivoluzione francese in Ciociaria, in “Rivista Cistercense”, iii, 3, 1986, pp. 256-67; altre notizie inedite, relative in particolare a Fra Maturino e padre Simone uccisi in quell’occasione, sono riportate da A. Gabriele, I monaci di Casamari e due “giacobini” verolani in documenti inediti dell’archivio privato Franchi de’ Cavalieri, in “Rivista Cistercense”, viii, 3, 1991, pp. 340-2.

(36) Il Catechismo reale ove per via di domande e risposte si propongono i dritti de’ Re e gli obblighi de’ Sudditi è riportato in appendice a L. Iannone, Il 1799 in Terra di Lavoro. Storia, storiografia e controrivoluzione, De Frede, Napoli 1997, pp. 102-8.

(37) V. Cicale, G. Verrengia, L’abate Mattia de Paoli da Cellole. Le opere della controrivoluzione del 1799, Caramanica editore, Marina di Minturno 1997, p. 134.

(38) Nel 1803, come ricordato nell’opera citata di Cicale e Verrengia (cfr. nota 37), dai torchi della Stamperia dell’Arcadia Reale furono pubblicate Varie produzioni dell’abate Mattia De Paolo in occasione dell’immortale trionfo riportato da S. M. Ferdinando iv Borbone sugli aggressori Francesi, e sull’infame Giacobinica Setta, dedicate a Vincenzo Ambrogio Galdi, Principe della Real Arcadia Eumelo conte Fenicio. Nel 1804, quando ormai la Reale Arcadia Sebezia era stata liquidata, dalla Stamperia Mergelliniana usciva La Rivelazione difesa, ove peraltro erano presenti odi ed epigrammi dei seguenti accademici: del giureconsulto Giulio Beatrice, regio erario per lo Napoletano Soglio nella Città di Sessa tra i Regi Arcadi Sebezj Ateneo Volscio; del dottor-fisico Severino Fusco da Castelforte, Reale Accademico di Napoli, del giureconsulto Domenico Saraceni di Carinola, Reale Accademico di Napoli; dell’abate Mattia Zona, tra i Regi Arcadi Sebezj Pandareo Moludirio; del giureconsulto Filippo Duratorre da Castelforte, tra gli arcadi Clomirio Argirio; dell’Illustre Diego de’ Renzis, de’ baroni di Montanaro, Reale Accademico di Napoli.

(39) L. Di Silvestro, Appunti di storia sessana: pillole di storia del 1700 e 1800, Caramanica, Marina di Minturno 1995, pp. 20-2.

(40) I due documenti di Vincenzo Marrano e del vescovo di Gaeta sono stati riportati da L. Conforti, 1799. La Repubblica napoletana e l’anarchia regia: narrazioni, memorie, documenti inediti, Pergola, Avellino 1890, p. 178.

(41) La lettera è riportata in parte da B. Maresca, Il cavaliere Antonio Micheroux nella rivoluzione napoletana del 1799, in “Archivio Storico per le Province Napoletane”, xix, 1894, pp. 285-7.

(42) Traggo questo riferimento dalla tesi di laurea di F. Cecilia, L’insorgenza ad Anagni nel 1799, Università La Sapienza di Roma, Facoltà di Scienze politiche, a.a. 2006-07, relatore E. Di Rienzo, p. 133.

(43) L’episodio è ricordato in una lettera di Rodio all’Acton, Giulia[nova] 19 novembre 1801, riportata da B. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799. Biografie, storie, racconti; cito dall’edizione critica a cura di C. Cassani, Bibliopolis, Napoli 1998, pp. 407-8.

(44) Cfr. P. Pieri, Il Regno di Napoli dal luglio 1799 al marzo 1806, in “Archivio Storico per le Province Napoletane”, lii, 1927, p. 39.

(45) I due attestati in favore di Michele Pezza, datati 10 dicembre 1799, sono nell’appendice documentaria del citato articolo di Di Biasio, alle pp. 557-8.

(46) Il documento, datato 25 luglio 1799, è riportato da L. Ployer, Dall’albero della libertà alla caduta della Repubblica. Testimonianze d’archivio, in Campagna, Marittima e Terra di Lavoro. I giorni giacobini (1798-1799), Atti del Convegno (Terracina, 15-16 gennaio 1999), a cura di L. Ployer, Archivio di Stato di Latina, Latina 2001, p. 105.

(48) Archivio Storico Diocesano di Sora (d’ora in poi asds), Fascicolo sui fratelli Mammone, Dichiarazioni del can. Amedeo Carnevale e dell’arciprete Giuseppe Lanna sottoscritte dal vicario generale Francesco Felice Tiberi e dal cancelliere Amedeo Antonio Fortuna, Dalla Cancelleria Vescovile di Sora, 13 agosto 1799.

(49) asds, Fascicolo sui fratelli Mammone, Lettera di Vincenzo Petroli al vicario generale di Sora Francesco Felice Tiberi, Dal Quartier generale di Sora, 30 agosto 1799.

(50) Ivi, Attestato sull’irreligiosità dei fratelli Mammone indirizzato all’Uditore generale dei Reali Eserciti, Dalla Curia vescovile di Sora, 30 agosto 1799.

(51) L’attribuzione è dovuta a G. Bianco, La Sicilia durante l’occupazione inglese (18061815), ed, Palermo 1902, pp. xi-xiii.

(52) Il riferimento si trova nelle Memorie segrete: des Freiherrn Giangiacomo von Cresceri über den Hof von Neapel enthöllungen, 1796-1816, in “Sitzungsberichte der Kaiserlichen. Akademie der Wissenschaften“, cxxvii, 4, 1892.

(53) B. Croce, Un tentativo d’insurrezione nel 1801 e la fine di Mammone, in “Archivio Storico per le Province Napoletane”, xxx, 1905, pp. 468-80.

(54) Di cui si segnala, in particolare, l’edizione critica a cura di A. De Francesco nella “Collezione di studi meridionali” dell’animi: V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, Lacaita, Manduria-Roma-Bari 1998.

(55) Sia consentito rinviare in proposito al mio Croce, insorgenze e terrore rivoluzionario, in “L’Acropoli”, v, 1, 2004, pp. 72-9; per l’interpretazione crociana del ’99 si vedano le considerazioni di S. Ricci, Bendetto Croce e il 1799, in “La Provincia di Napoli”, xii, 6, 1990, numero speciale dedicato a “Napoli tra due rivoluzioni, 1789-1799”, pp. 173-9, e di L. Mascilli Migliorini, La rivoluzione del ’99: note di letture crociane, in L. Mascilli Migliorini, A. Di Bendetto (a cura di), Memoria del Novantanove. Storie e immagini della Rivoluzione fra Ottocento e Novecento, esi, Napoli 2002, pp. 259-68.

(56) A. Cogliano, La fine di Gaetano Mammone: un delitto di Stato, in “Archivio Storico per le Province Napoletane”, cxxii, 2004, pp. 307-51.

(57) A. Sansone, Gli avvenimenti del 1799 nelle due Sicilie. Nuovi documenti, Era Nova, Palermo 1901, pp. 197-9.

(58) Pieri, Il Regno, cit., p. 39, ritiene che questa lettera dimostri come Gaetano Mammone «fin dall’estate ’99 non fosse alieno da intese coi giacobini».

(59) P. Cayro, Narrative e Riflessioni dell’accantonamento, e Marcia dell’Esercito, Della Ritirata e venuta de’ Francesi, dell’insorgenza e recuperato Regno con Roma; Dal anno 1796 al anno 1800; ringrazio Angelo Nicosia che ha messo a mia disposizione una copia dattiloscritta del manoscritto, pubblicato per sua cura in “Archivio Storico per le Province Napoletane”, cxxvii, 2009, pp. 237-94.

(60) Ivi, p. 35 del manoscritto.

(61) Ivi, p. 40 del manoscritto.

(62) Ivi, pp. 45-6 del manoscritto.

(63) Ivi, p. 46 del manoscritto.

(64) Per alcuni quadri regionali relativi al rapporto fra Repubblica, insorgenze e controrivoluzione, si rinvia a F. F. Gallo, Dai gigli alle coccarde. Il conflitto politico in Abruzzo (1770-1815), Carocci, Roma 2002; A. Massafra (a cura di), Patrioti e insorgenti in provincia: il 1799 in Terra di Bari e Basilicata, Edipuglia, Bari 2002; A. Spagnoletti, Alla ricerca delle ideologie: monarchismo e repubblicanesimo in Puglia nel 1799, in A. M. Rao (a cura di), Napoli 1799 fra storia e storiografia, Vivarium, Napoli 2002, pp. 635-54; F. Barra, Il 1799 e il tramonto dell’antico regime in un’area interna del Mezzogiorno. Il caso dell’Irpinia, Plectica, Salerno 2003; L. Addante (a cura di), Repubblica e controrivoluzione. La Calabria nel 1799, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004; G. Cirillo, Il paradigma delle insorgenze in Italia tra antico regime e crisi rivoluzionaria, in E. Di Rienzo (a cura di), Nazione e controrivoluzione nell’Europa contemporanea, 1799-1848, Guerini e Associati, Milano 2004, pp. 117-87. Un quadro analitico del periodo, relativo alle singole situazioni locali presenti sul territorio italiano, si trova ora nel volume a cura di M. P. Donato, D. Armando, M. Cattaneo, J.-F. Chauvard, Atlante storico dell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, École Française de Rome, Roma 2013.

(65) L’avversione alle insorgenze è testimoniata da numerose cronache cittadine, da diari e memorie di preti o autori locali, come appunto Pasquale Cayro, che indicano quanto questa prospettiva politica facesse parte in pieno del bagaglio culturale delle élites; alcune notazioni, a proposito del contrasto fra «coloro che impugnavano le armi contro la Rivoluzione e chi la combatteva con la penna», sono presenti nell’articolo di M. de Leonardis, Insorgenze e pensiero controrivoluzionario in Italia nel passaggio dall’antico regime alla rivoluzione, in Continisio (a cura di), Le insorgenze popolari nell’Italia napoleonica, cit., pp. 327-43. Per quanto riguarda gli scrittori controrivoluzionari in Italia cfr. V. E. Giuntella, Le dolci catene. Testi della controrivoluzione cattolica in Italia, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1988, e L. Guerci, Uno spettacolo mai più veduto nel mondo. La Rivoluzione francese come unicità e rovesciamento negli scrittori controrivoluzionari italiani (1789-1799), utet, Torino 2008.

(66) Cayro, Narrative e Riflessioni, cit., p. 51 del manoscritto. Il corsivo è nel manoscritto.

(67) Si tratta del “Mercurio britannico ossia Notizie storico-critiche sugli affari attuali”, n. xxv, 1799, pp. 22-3, cioè a dire dell’edizione italiana del “Mercure britannique ou Notices historiques et critiques sur les affaires du temps”. Par J. Mallet du Pan. A Londres […] Spilsbury, Snow-hill, Août 1798-Mars 1800 (i-v, nn. 1-36).

(68) Sulla quale insiste a sua volta, condividendone la prospettiva politica, anche Alessandro Verri che in una postilla autografa al “Mercurio britannico” del 10 marzo 1799 (n. xiv), inseriva una significativa riflessione a proposito del rapporto tra filosofi illuministi e Rivoluzione francese; cfr. M. Ceretti, La diffusione della pubblicistica antigiacobina in Italia e la testimonianza delle fonti nelle Vicende memorabili dei tempi suoi di Alessandro Verri, in “Rivista Storica Italiana”, cxii, 1, 2000, p. 170.

(69) Cayro, Narrative e Riflessioni, cit., pp. 54-5 del manoscritto. Il corsivo è nel manoscritto.

(70) Ivi, p. 62 del manoscritto.

(71) Per la distinzione fra tradizionalismo, cultura controrivoluzionaria e conservatorismo, ancora utili sono alcune indicazioni metodologiche di K. Mannheim, Conservatorismo. Nascita e sviluppo del pensiero conservatore, Laterza, Roma-Bari 1989.

(72) Sul significato ideologico della Vandea, il riferimento d’obbligo è a J.-C. Martin, I bianchi e i blu. Realtà e mito della Vandea nella Francia controrivoluzionaria, edizione italiana a cura di G. Solfaroli Camillocci, Società Editrice Internazionale, Torino 1987.

(73) M. P. Critelli, «C’est absolumment la Vandée». Girardon e l’insorgenza del Circeo, estratto da “Archivi e Cultura”, n.s. XXIII-XXIV, 1990-91, Il centro di ricerca, Roma 1992.

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