da In Terris venerdì 9 Novembre 2018
Il caso dei Baka e delle popolazioni autoctone cacciate dalle loro foreste in nome dell’ambientalismo
Damiano Mattana
Africa mi toccò l’animo già durante il volo: di lassù pareva un antico letto d’umanità”. Lo descrisse così Saul Bellow, sbirciando dall’oblò del suo aereo, il Continente nero che iniziava ad aprirsi sotto di lui, diventando qualcosa in più che una massa indistinguibile di terra emersa. La linea frastagliata della Rift Valley, simbolo della Terra vergine, gli anfratti della gola di Olduwai, dove nacque l’umanità di cui parlava il Premio Nobel canadese nel 1970, e giù, in ogni direzione, fra savane sconfinate e foreste pluviali attorno ai bacini del Congo e del Niger.
Per qualcuno che bramò di visitarla, l’impatto per gli occhi e per il cuore fu quasi insostenibile, tanto da voler costruire la sua vita fra le praterie essiccate dal sole del Kenya, piuttosto che in una movimentata città al di sopra dell’Equatore. C’è tanto in Africa, tanto per cui lavorare e per il quale vale la pena spendere se stessi. In prima persona magari, forti della memoria storica che vide questo Continente terreno fertile non per piante da frutto o cereali, ma per “zuffe” in nome dell’espansionismo politico.
Una macchia d’olio resistente a ogni trattamento, che non tenne allora conto di chi davvero aveva voce in capitolo su quei territori. Tempi superati, forse, ma il peggio, in apparenza, non è tanto lo scotto che l’epoca coloniale ha lasciato in eredità agli indigeni africani, quanto la sottile ma micidiale politica del colonialismo 2.0. Ciò che ieri era una controversa interpretazione dell’espressione kiplyingiana “il fardello dell’uomo bianco”, oggi è una discutibile forma di conservazionismo che, in troppi casi, non tiene conto di un fattore fondamentale: la preservazione dei popoli ancestrali delle terre che si vuole proteggere.
I due concetti vanno di pari passo, e in qualche modo lo sottolineava già san Francesco nel passo d’apertura del Cantico delle Creature: “Cum tutte”, diceva il Poverello di Assisi. Piante, animali, terra… ma anche l’uomo. La dottoressa Fiore Longo è un’antropologa, ricercatrice di Survival International, da anni impegnata nella protezione dei popoli del bacino del Congo, dove la depressione centrafricana lascia libera crescita alla foresta pluviale, fornendo dalla notte dei tempi vita e sostentamento all’etnia Baka, appartenente al più ampio gruppo di popolazione nativa nota sotto la controversa denominazione di “pigmei”.
Loro vivono in piccoli villaggi, più che altro una base operativa lungo le strade al limitare degli alti fusti: la loro vita è nella foresta, fra quegli alberi che per primi hanno interesse a conservare, e che oggi corre il rischio di lasciar posto a una realtà che, in nome della preservazione, rischia di estromettere i baka dai territori dei loro padri: “La logica è quella dei parchi naturalistici – ha spiegato la dottoressa Longo -: in sé sarebbe un’idea buona se non fosse che l’istituzione di una riserva nella foresta sortisce un impatto fortissimo su tali popolazioni, per i quali questi luoghi non rappresentano solo una fonte di sostentamento ma hanno anche un valore religioso, spirituale. Ecco perché possiamo parlare innanzitutto di uno ‘sfratto psicologico’”.
Trattati da bracconieri
L’istituzione dei parchi nei territori dei baka (come in quelli abitati da altre etnie, non solo nel Congo-Kinshasha ma anche in altri Paesi come il Camerun) significa innanzitutto una sensibile riduzione della loro libertà di movimento all’interno della foresta, dove trascorrono gran parte delle loro giornate, in nome di una complessa logica di salvaguardia che vede nella loro attività (infinitesimale rispetto a qualsiasi altro tipo di interazione) dei risvolti dannosi per l’ambiente: “Il problema è che gli enti che istituiscono queste aree protette identificano i baka esclusivamente come cacciatori, ignorando la loro ben maggiore, oltre che più importante, attività di raccolta.
Questo tipo di interazione uomo-foresta non ha solo consentito a questa popolazione di sopravvivere ma anche di mantenere inalterato l’ecosistema di questi ambienti, ad esempio preservando alcune specie di piante o mantenendo competenze superiori a quelle di qualsiasi ricercatore sulle specie animali e vegetali che li abitano. Loro sono i primi ad avere interesse affinché queste zone siano tutelate.
La cura di un particolare tipo di arbusto, ad esempio, ha contribuito la sopravvivenza del raro elefante delle foreste”. Circostanza non certo secondaria in un contesto in cui il commercio illegale di avorio ha ridotto a numeri estremamente ridotti la popolazione dei pachidermi. Estrazione di avorio di cui in alcuni casi, come raccontato all’antropologa da alcuni esponenti di questa popolazione, sono stati pretestualmente accusati gli stessi baka, i quali provvedevano invece alla raccolta di polvere d’oro.
Abusi di potere
Questo, però, non toglie che l’istituzione dei parchi, frutto di accordi fra enti (ad esempio alcune ong) e governi locali, bypassi nella maggior parte dei casi il consenso libero e informato di questi popoli: “Un altro problema è che, assieme al Parco, arrivano i guardaparco. Persone armate che hanno ufficialmente il compito di sorvegliare il perimetro per scongiurare episodi di bracconaggio ma che, nei confronti di baka, si rendono autori di veri e propri episodi di abuso di potere.
Alcuni indigeni hanno raccontato che, nel migliore dei casi, tali guardiani si limitano a bruciare gli utensili di raccolta una volta individuati i loro possessori all’interno dell’area protetta (un danno comunque incalcolabile per loro, che non possono permettersi acquisti continui, per esigenze economiche e distanza da veri e propri centri abitati, ndr); in altri casi, li picchiano con i machete e li arrestano, anche se la Polizia non può trattenerli in quanto non riscontra mai reati.
Il punto è che un parco sospende qualsiasi tipo di attività al suo interno, senza considerare quanto queste popolazioni abbiano voce in capitolo, oltre che necessità urgenti di soddisfare i loro bisogni interagendo con l’ambiente che li circonda: il risultato è un progressivo allontanamento dalla foresta, uno sfratto in nome di un conservazionismo che noi chiamiamo colonialista ma anche razzista”.
Attenzioni distolte
Una situazione che, indirettamente (ma non troppo) svia l’attenzione da problematiche ben più gravi della semplice raccolta, come la deforestazione o la corruzione, che a sua volta apre la strada alla rete dei bracconieri, “finanziata proprio da questo giro. In più, le compagnie del legno stanno procedendo a un disboscamento sistematico: i baka sono visti come dannosi per questi ambienti con le loro attività nella foresta ma per loro tagliare un albero sarebbe qualcosa di impensabile.
Si tratta di un intero sistema che non funziona, esso sì dannoso per queste popolazioni. E il problema maggiore è che per noi, inconsapevoli di quanto accade, questo resta un modello positivo, o quantomeno animato da ottime intenzioni”.
La campagna a favore dei baka, la dottoressa Longo l’ha definita “la più difficile combattuta in Africa da Survival”, proprio perché coinvolge enti importanti nei maggiori Paesi d’Europa, oltre che nei governi locali. Per gli stessi baka è complicato fare rimostranze per gli sfratti subiti, nonostante l’attività di alcune organizzazioni in loro favore. L’impressione latente è che le politiche colonialiste, ritenute superate da oltre mezzo secolo, da queste parti sembrano sopravvivere sotto nuovi nomi e nuove forme: “Basti pensare che i baka identificano i guardaparco con il nome portoghese ‘chicote’, ‘frusta’ in italiano, lo stesso utilizzato per identificare i colonialisti del passato. E’ triste pensare che organizzazioni esterne all’Africa ritengano di conoscere la foresta meglio dei popoli che la abitano da millenni, e grazie ai quali è riuscita a conservarsi”.
Una missione
Per i baka, ma anche i bayaka e altre etnie pigmee, questo ambiente rappresenta la vita nel senso più elementare di questa parola: interazione pacifica, intelligenza nel trarre da esso solo lo stretto necessario alla sopravvivenza, probabilmente in modo più accurato di qualsiasi politica sostenibile: “Noi abbiamo una grande responsabilità – ha concluso la dottoressa Longo -, poiché spesso è nei nostri Paesi che enti e istituzioni finanziano tutto questo. Il nostro compito è innanzitutto educare e sensibilizzare su questi temi e, successivamente, porre governi e organizzazioni vari davanti alle responsabilità. E’ una battaglia difficile non solo per i baka ma anche per altre realtà come le popolazioni indiane nella Riserva delle tigri di Amrabad”.
Uno scenario sul quale vale la pena di porsi qualche domanda, a cominciare dal perché, dietro l’apparente volontà di preservazione, i primi (e probabilmente gli unici) a rimetterci siano i popoli indigeni. Una ferita sul volto dell’Occidente, ancor prima che nel cuore dell’Africa.