A Cesare e a Dio
Gli incontri di Norcia Libertà e laicità 15/16 ottobre 2005
intervento dell’on Alfrefo Mantovano
Sottolinea un limite serio del liberalismo: la tentazione a considerare l’individuo come un essere immacolato. Ma l’individuo, lasciato libero, tende al bene spontaneamente? Gli individui, riuniti in gruppi e in società, tendono spontaneamente al bene comune?
Per rispondere viene in soccorso un “laico” della tradizione pre-cristiana: “Video meliora proboque, deteriora sequor“: (Ovidio, Le Metamorfosi, VII, 20). Perché l’uomo tende al male? Perché deve compiere uno sforzo non da poco per capire cos’è il bene, e uno sforzo doppio per attuarlo? Né il liberalismo, né la democrazia, più o meno innervata da principi, sono in grado di rispondere a questa domanda. L’uomo ha tuttavia la capacità di dirigersi verso il bene.
Il senso morale originale permette all’uomo di discernere, per mezzo della ragione, che cosa è bene e che cosa è male: la legge naturale mostra all’uomo la via da seguire per compiere il bene e per raggiungere il proprio fine. La legge naturale indica le norme prime ed essenziali che regolano la vita morale. Che cosa significa “naturale”? Il termine non è in relazione alla natura degli esseri irrazionali, ma al fatto che la ragione che la riconosce è propria della natura umana.
La legge naturale è presente nel cuore di ogni uomo (S. Paolo ricorda che i Gentili l’hanno iscritta nel proprio cuore, pur non avendola ricevuta sul Sinai), è universale nei suoi precetti, e la sua autorità si estende a tutti gli uomini. Esprime la dignità di quella “persona” di cui ha parlato il pres. Pera, e pone la base dei suoi diritti e dei suoi doveri fondamentali. Pera ha citato il Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica.
Il Catechismo della Chiesa cattolica per esplicitare la nozione di legge naturale riprende Cicerone, un altro “laico” pre-cristiano, un italiano (per inciso, se il Catechismo destinato alla Chiesa universale cita un italiano per spiegare che cos’è la legge naturale, questo la dice lunga sulla qualità della tradizione di cui siamo figli!); Cicerone afferma che “[…] esiste una vera legge: è la retta ragione; essa è conforme alla natura, la si trova in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti chiamano al dovere, i suoi divieti trattengono dall’errore. […] E’ un delitto sostituirla con una legge contraria; è proibito non praticarne una sola disposizione; nessuno poi può abrogarla completamente” (Cicerone, De re publica, 3, 22, 33).
L’applicazione della legge naturale può richiedere degli adattamenti; ma, nella diversità delle culture, resta a regolare gli uomini tra loro e impone a essi principi comuni, al di là delle differenze. La legge naturale è immutabile, perché risponde al criterio fondamentale di agire conformemente alla nostra natura ragionevole (S. Tommaso d’Aquino). Anche se molti ne hanno negato i principi, la legge naturale risorge sempre nella vita degli individui e delle società (come insegna Heinrich Rommen in un bel libro di qualche decennio fa, L’eterno ritorno del diritto naturale).
La legge naturale non è solo il fondamento etico indispensabile per edificare la comunità degli uomini, ma costituisce anche il fondamento della legge civile, applicandone i principi e integrandoli nel dettaglio. Giovanni Paolo II ha affermato che “occorre […] un rinnovato sforzo conoscitivo per tornare a cogliere alle radici, ed in tutto il suo spessore, il significato antropologico ed etico della legge naturale e del connesso concetto di diritto naturale. […] Soltanto su questa base è possibile un vero dialogo ed un’autentica collaborazione fra credenti e non credenti.” (in L’Osservatore Romano dell’01-03-2002, p. 5).
Questa indicazione è utile per avvicinarci al fine del nostro incontro, che Marcello Pera ha richiamato: trovare un terreno comune fra laici e credenti per contribuire alla soluzione della crisi della nostra società. Problema: i precetti del diritto naturale non sono percepiti da tutti con chiarezza e immediatezza.
L’uomo, nella sua concreta esistenza, non ce la fa a conoscere i precetti del diritto naturale senza difficoltà, con la certezza necessaria e senza mescolanza di errore. Può riuscirci qualche pensatore. Ma gli altri? i “poveri”? i “piccoli”? i gruppi? le società? E quand’anche si riuscisse a cogliere i precetti del diritto naturale, permane sempre la difficoltà registrata da Ovidio: vedo ciò che è migliore, lo approvo, ma seguo ciò che è peggiore. Né il liberalismo (più o meno “virtuoso”), né la democrazia (più o meno “virtuosa”) ci forniscono gli strumenti per affrontare il problema.
Alcuni “laici”, persone rette, dotate di quella ragione di cui parla Cicerone, avvertono che manca qualcosa, e soprattutto qualcuno, e per questo si rivolgono alla nostra tradizione. Von Hayek nel 1960 scriveva che «il liberale può avere imparato molto, con beneficio, dall’opera di alcuni pensatori conservatori […] [dal momento che,] per quanto reazionari siano stati in politica, uomini come Coleridge, Bonald, De Maistre, o Donoso Cortés, dimostrano una comprensione del significato di istituzioni sorte spontaneamente (come la lingua, il diritto, la morale e i costumi), che anticipò le moderne impostazioni scientifiche, e da cui i liberali possono aver imparato” (Friedrich August von Hayek, La società libera, trad. it., con introduzione di Sergio Ricossa, Formello (Roma) 1999, p. 490).
Von Hayek però lancia una sfida. Perché aggiunge che «l’ammirazione dei conservatori per il libero sviluppo generalmente riguarda solo il passato» (id); vi è “la loro mancanza di coraggio nell’accettare un cambiamento imprevisto da cui potranno emergere nuovi strumenti per le imprese umane” (id.). Non c’è difficoltà ad ammettere che questo coraggio può essere mancato in passato a taluni “conservatori”.
Oggi va raccolta la provocazione del filosofo austriaco, e usare il coraggio. Purché sia chiaro un presupposto: come insegna Nicolàs Gómez Dávila, “una tradizione non è un catalogo presupposto di virtù che si confronta con un catalogo di errori, ma (è) uno stile nel risolvere problemi. (…) La tradizione non è soluzione pietrificata, ma metodo flessibile”.
La tradizione non è un unguento, di cui va fatto un “uso esterno”. Oggi ciascuno di noi può beneficiare della tradizione proprio perché nei secoli i nostri padri non l’hanno vissuta come un mero rifugio, come una chiesa ridotta a museo, da visitare con il naso in su e la bocca semiaperta, senza indossarla e incarnarla.
Il coraggio oggi sta nel convincerci che se ci apriamo, come politici, come governanti, come legislatori, a quella tradizione di cui ci ha parlato Marcello Pera, non saremo causa di danno per i nostri compatrioti, non li priveremo delle loro libertà, non saremo complici di una indebita ingerenza della sfera religiosa nella vita politica; ma al contrario, faremo insieme dei passi in avanti proprio nella direzione delle autentiche libertà.
Domenica scorsa Benedetto XVI ha beatificato Clemens August von Galen: quest’uomo, da Vescovo di Münster, denunciò l’ideologia neopagana del nazionalsocialismo, difese la Chiesa, protesse gli ebrei e i deboli violati nei loro diritti. Chiedo a chi, ogni qual volta si parla di diritto alla vita, di famiglia, di libertà religiosa, lamenta sempre il superamento dei confini fra laicità e religione: il beato von Galen in quel momento storico avrebbe dovuto stare zitto? In un’ottica più propriamente politica, laicità indica l’atteggiamento di chi rispetta le verità che scaturiscono dalla conoscenza naturale sull’uomo che vive in società, anche se tali verità sono insegnate da una determinata religione.
Laicità significa autonomia della sfera civile e della sfera politica da quella religiosa ed ecclesiastica; ma non significa autonomia della sfera civile e politica da quella etica. Se libertà, giustizia, rispetto della vita e degli altri diritti della persona vengono insegnate anche da una comunità religiosa questo non diminuisce la “laicità” dell’impegno di coloro che si riconoscono in questi principi. E la sfera dell’etica, dalla quale una vera e sana laicità non deve scindersi, non è altro che il diritto naturale cui prima ho fatto cenno. Conclusione obbligatoriamente politica.
La vittoria ai referendum del 13 giugno, a mio avviso, non è stata adeguatamente valorizzata; anzi, non è stata valorizzata per nulla. E’ certo che, se avesse prevalso l’istanza relativista, che era alla base dei quesiti referendari, quella vittoria sarebbe stata adoperata come un trampolino di lancio per ulteriori riforme ideologiche e dannose. Chiedo: perché non partire da quella “quota 74” per consolidare l’alleanza tra “laici” e cattolici sulla base del rispetto del diritto naturale, e con questo affrontare con decisione le battaglie dell’ora presente: da quelle che coinvolgono la famiglia, con i pacs, alla pillola del giorno dopo, dal “suicidio demografico” alla emergenza droga?
E se sul versante dell’economia nessuno riesce a proporre ricette miracolistiche, su questi temi le risposte ci sono. Risposte che hanno bisogno solo di uomini e donne che le immettano nella storia, perché gli scaffali delle librerie sono pieni di buone idee: ma le idee, pur buone, da sole non camminano. La nostra responsabilità consiste nell’offrire alle buone idee di cui discutiamo la possibilità di tradursi in percorsi politici.
Altri interventi sono disponibili sul sito dell’associazione