«Il cospirazionista e il meccanico popolare»

11_settembreDa DIARIO del 29 settembre 2006

Il complottismo sull’11 settembre è “una boiata pazzesca” lo spiega un settimanale di sinistra

di Enrico Deaglio

Il 10 settembre, dagli schermi di al Jazeera è andato in onda un documento clamo­roso, prodotto dall’uomo-media ufficiale di al Qaeda negli Stati Uniti: Osama bin Laden in persona forniva ulteriori dettagli della sua ideazione, addestramento e realizzazione della strage dell’11 settembre. Recuperati dagli archivi di al Quaeda, si sono visti i testamenti dei dirottatori, il loro addestramento alla lotta in una cabina di aereo e i famosi coltellini.

Spiegazioni di quelle immagini: Osama voleva cele­brare l’anniversario, riaffermare la propria leadership sul terrorismo islamico, di­mostrare la propria potenza messa in dubbio dai recenti successi di altre forma­zioni. Ma forse c’era qualcosa di più: Osama si sentiva scippato del suo successo più terribile e ha voluto presentarsi per riaffermare: l’assassino sono io, non lasciatevi distogliere dai «complottisti».

Lo Sceicco del Terrore ha le sue buone ragioni. La sua verità, paradossalmente, è oggi sempre più messa in dubbio dall’incredibile diffusione di un’«altra verità», che si contrappone alla «storia ufficiale». L’ «altra verità», diffusa su tutto il piane­ta attraverso internet, centinaia di libri e ormai numerosi film documentari, parla di piloti assolutamente non in grado di portare a termine l’im­presa, del crollo delle due torri causato da una demolizione programmata, di un missile e non di un aereo contro il Pen­tagono, di un aereo fantasma caduto in Pennsylvania.

Secondo i sondaggisti, l’«altra verità» conquista consen­si a ritmo crescente: il 20 per cento dell’opinione pubblica ame­ricana, il 36 per cento dei suoi studenti universitari. Le cifre di­ventano imponenti se si aggiunge che più del 6 o per cento de­gli americani chiede la riapertura della commissione d’inchie­sta; e diventano imbarazzanti per la sanità mentale di quel Pae­se se si osserva che altrettanti americani sono convinti che l’Iraq sia stato invaso per punire Saddam, il vero autore delle stragi.

Non c’è dubbio che le tesi cospirazioniste siano seguite con interesse e i documentari siano affascinanti (domenica scorsa il programma Report di Milena Gabanelli che ha pre­sentato il film Confronting the evidence ha totalizzato quasi 4 milioni di spettatori). Colpisce il tono pacato di chi cerca la ve­rità, esercita un proprio diritto, pone domande, stigmatizza assenze della versione ufficiale e schiera a presentarle non uo­mini politici o predicatori, ma serissimi professori e tecnici.

Questo articolo vuole invece presentare un lavoro gior­nalistico poco noto in Italia, ma a nostro parere decisamente interessante. È un’inchiesta giornalistica condotta dalla rivi­sta Popular Mechanics, giornale di divulgazione tecnica e scien­tifica che esce negli Usa da cent’anni ed è pane quotidiano del­le famiglie americane. Pubblicato dalla Hearst Corporation, tradotto in tutta l’America Latina e in Sud Africa, Popular Me­chanics è quel genere di giornale che presenta i nuovi modelli di automobile e i nuovi tagliaerba, discute del futuro dei raggi laser, consiglia sull’uso dell’inox nella stanza da bagno e ana­lizza i libretti d’istruzione degli elettrodomestici.

Due anni fa la rivista promosse un’inchiesta in profon­dità sull’11 settembre analizzando le teorie cospirazioniste. Mise al lavoro- giornalisti e intervistò 300 esperti e concluse­ in un numero speciale del marzo 2005, che nessuna del­le teorie resisteva alla prova dei fatti. Ora tutto il lavoro è di­ventato un libro, Debunking 9/11 Myths, a cura di David Duri­bar e Brad Reagan, Hearst Books.

Il libro presenta le tesi cospirative e le mette a confron­to con i fatti accertati e con il parere degli esperti intervistati. Vale la pena esaminarli. Il non intervento dei Caccia. La tesi sostiene che, per non in­terferire con i piani del presidente e dei suoi complici, l’avia­zione americana venne lasciata forzatamente a terra; in spe­cifico nessun caccia si alzò dalle 28 basi aeree posizionate nel­le zone dei dirottamenti. «La base di Andrews aveva due squa­driglie di caccia per proteggere i cieli di Washington. Non hanno fatto il loro lavoro. C’è una sola spiegazione: alla no stra aviazione fu ordinato di rimanere a terra».

I fatti: l’11 settembre erano in all’erta solo 14 caccia nei 48 Stati contigui che formano gli Usa, diversi jet si alzarono in volo, ma troppo tardi. I ritardi furono causati dalla struttu­ra della catena informativa, non adeguata a reagire pronta­mente a un evento senza precedenti. Viene poi presentata dettagliatamente la situazione al­la data dell’attacco: non esisteva alcun network di computer in grado di allertare il Norad (North American Aerospace De­fence Command) sulla scomparsa di aerei civili: la comuni­cazione avveniva, letteralmente, per telefono.

I protocolli pre­vedevano una serie multipla di passaggi fino al vertice del traf­fico aereo civile posto a Herndon, Virginia. Questo era inca­ricato di contattare il Comando militare nazionale che chie­deva al presidente o al segretario di Stato l’ordine scritto di in­tervenire. Se questo veniva dato, veniva comunicato al Norad che lo girava a uno dei tre settori operativi presenti.

Il primo allarme venne dato a Boston per la scomparsa del volo 11 American Airlines alle 8.24. «Possibile dirotta­mento». Superando i protocolli il Norad venne subito avverti­to e ordinò a due F15 di alzarsi in volo dalla base di Falmouth, Massachusetts. Gli aerei però non sapevano dove andare. Per­ché?

Perché il posizionamento di un aereo commerciale av­viene secondo due sistemi: i) il transponder che emette un se­gnale elettronico che comunica numero del volo, altitudine e velocità; a) il radar che trasmette pulsazioni anonime sullo schermo. I due sistemi sono separati, in alcune torri di con­trollo addirittura su due piani differenti dell’edificio e senza il dato del transponder (che i terroristi avevano spento) è diffici­lissimo per il controllore associare il segnale radar a un parti­colare aereo. La mattina dell’11 settembre erano in volo sopra gli Usa 4.5oo aerei commerciali. I due Fr5 si alzarono alle 8.46, mentre il volo 11 si schiantava contro la Torre Nord. Si posizionarono sopra Long Island in attesa di ordini.

La sparizione del volo United Airlines 175 venne se­gnalata con molto ritardo (alle 9.03) perché il controllore sta­va ancora cercando il volo 11 La segnalazione avvenne pro­prio mentre il Boeing si schiantava contro la Torre Sud. I due F15 alle 9.25 vennero mandati a pattugliare il cielo di Manhat­tan in caso di nuovi attacchi. Il volo American Airlines 77 riu­scì invece a volare senza transponder verso Washington per 36 minuti.

La prima segnalazione del volo United Airlines 93 avvenne per una comunicazione all’interno dell’aereo capta­ta via radio a Cleveland alle 9.32. Nove minuti dopo venne spento il transponder. Il Norad non seppe che era stato dirot­tato fino al suo schianto a Shankville, Pennsylvania. I: ordine firmato da Bush a bordo delfAir Force One («Intercettare e distruggere») venne dato 17 minuti dopo quello che sarebbe stato l’ultimo schianto, quello del volo United 93. Dal primo dirottamento erano passati 104 minuti.

Oltre alla macchinosa comunicazione, occorre poi no­tare che all’epoca le regole di ingaggio non permettevano ai caccia di superare il limite del suono, né di attaccare gli aerei dirottati (nessuno aveva pensato che il dirottamento potesse trasformarsi in un atto di guerra). Il Norad era concepito, dai tempi della Guerra fredda, per un attacco dall’esterno e quin­di dal Canada, dal Messico o dall’Atlantico. In effetti caccia FrG si alzarono verso l’oceano e furono precipitosamente ri­chiamati indietro.

La tesi cospirazionista presenta però un caso in cui l’or­dine venne dato molto più tempestivamente (la storia è con­tinuamente presentata nei documentari). Si tratta del Learjet del campione di golf Payne Stewart, che partì da Orlando, Flo­rida, nell’ottobre 1999 in direzione Dallas. Rimasto senza controllo alle 9.33 per una depressurizzazione della cabina, venne intercettato da un Ft6 alle 9.52. Il caccia lo seguì fino al suo schianto in una zona non abitata del South Dakota.

Come si vede, appena 19 minuti, una prova che intercettare imme­diatamente è possibile. Popular Mechanics fa però notare che l’F16 era già in volo di addestramento quando ricevette l’or­dine che il learjet aveva un transponder funzionante che ne permise la rapida individuazione e soprattutto che la scom­parsa delle 9.33 era sull’ora della Florida e l’aereo e l’aggancio delle 9.52 sul fuso degli Stati centrali. Per cui il tempo non fu di 19 minuti, ma di un’ora e 19 minuti (la rivista fa poi nota­re che il caso del Learjet fu l’unico caso di intercettamento ne­gli ultimi vent’anni).

Come caddero le torri.

La teoria cospirazionista non accetta che le Torri gemelle siano cadute per effetto dell’impatto dei due aerei. La temperatura sviluppata non sarebbe stata in grado di fondere l’acciaio della struttura. Piuttosto, si sostie­ne che le torri siano cadute per «esplosioni controllate» di bombe precedentemente poste negli edifici. Uguale sorte per il vicino Edificio sette. Prove: testimonianze che raccon­tano di un’esplosione, la dinamica del crollo, nuvole che si sprigionano ai piani alti interpretate come lo scoppio di pic­cole cariche esplosive.

Per Popular Mechanic, che presenta i lavori di alcune centinaia tra accademici, esperti in demolizioni e analisti del­le immagini fotografiche, oguno dei due Boeing che colpirono la struttura brucia37800litri di cherosene che brucia tra i 1100 e i 1.200 gradi. La massa di liquido trovò la sua strada verso il basso tra l’acciaio del guscio e la vuota in­tercapedine che ospita i vani degli ascensori, delle tubature e dei tramezzi.

Il calore aumentò per l’incendio, piano dopo piano, di moquettes, tende, carta, mobilio e materiale diviso­rio. Calore e successivi incendi hanno causato il collasso del­la struttura di acciaio (che fonde effettivamente a i 1510 gradi, ma perde il  40% per cento delle sue proprietà già a mille gradi).

Gli «sbuffi» che si vedono sono l’effetto di espulsione d’aria, dovuta agli incendi. Se il collasso fosse stato opera di un’esplosione, l’edificio sarebbe crollato dalla base e non dal­l’alto. Richiesto di un parere professionale su una possibile demolizione controllata delle torri, il responsabile della Con­trolled Demolition, ditta fondata nel 1947 e che ha la più va­sta esperienza al mondo, ha calcolato che sarebbero state ne­cessarie almeno 75 tonnellate di esplosivo, che avrebbero do­vuto essere trasportate con carrelli e piazzate intorno alle co­lonne di acciaio, dopo che queste fossero state private della protezione antincendio. Un lavoro lungo e laborioso.

Per quanto riguarda il crollo dell’Edificio sette, secondo gli esperti esso è stato causato dall’azione combinata del ca­lore sprigionato e dai danni materiali provocati dal crollo del­le torri adiacenti. Per quanto riguarda un picco sismico registrato dalla centrale della Columbia University Lamont-Doherty, posta 50 chilometri a nord del World Trade Center e che dai cospi­razionisti viene visto come improvviso e quindi causato da un’esplosione, esso è di dominio pubblico: trasportato su una carta temporale corretta, mostra un’inizio di attività, seguito da un aumento di attività che raggiunge il suo apice proprio al momento del crollo.

Il fantasma del Pentagono.

La tesi complottista, enunciata dal francese Tierry Meyssan (il suo libro del 2002 L’Effroyable imposture, ha venduto un milione e mezzo di copie), sostie­ne che nessun Boeing ha colpito il Pentagono. Piuttosto il pic­colo foro di entrata, con le pareti dell’edificio intatte, fa pen­sare a un missile tipo Cruise. Si sostiene inoltre che nessuna fotografia mostra l’impatto e che l’unico pezzo residuo non appartiene a un Boeing. Per tutti coloro che hanno visto i fat­ti raccontati nei documentari, il mistero del Pentagono è una delle parti più convincenti e affascinanti (anche se Meyssan non è mai stato negli Stati Uniti).

Popular Mechanics la smonta in maniera altrettanto con­vincente. In primo luogo ci sono alcune centinaia di pendolari che hanno visto con i propri occhi il Boeing schiantarsi; poi ci sono gli esami del Dna che hanno identificato i resti di quasi tutti i passeggeri e dei cinque dirottatori; poi c’è la foto di re­sti della fusoliera con i colori dell’ American Airline; poi ci so­no i resti del carrello al foro d’uscita. Gli esperti spiegano che il relativamente piccolo foro d’entrata è tipico dello sbriciolamento di un metallo leggero (le ali di un aereo) contro una fortissima struttura di cemento; che il corpo dell’aereo ha con­tinuato a sbriciolarsi all’interno dell’edificio salvando solo, al­la fine della sua corsa, le parti più pesanti, come il carrello.

L’aereo impattò il Pentagono a circa 800 chilometri all’ora e questo spiega l’estrema vaghezza delle immagini riprese dal­le telecamere fisse.

Si potrebbe continuare con il volo 93, la cui esistenza (compresi i passeggeri e loro telefonate) è addirittura conte­stata dai cospirazionisti, ricordando che anche di quel Boeing è stata trovata la scatola nera. Ma forse basta così.

Neanche preso in considerazione. Dai «cospirazionisti», i risultati dell’inchiesta di Popular Mechanics non sono nean­che stati presi in considerazione, perché l’inchiesta stessa è stata contestata alla base: il giornale fa parte della catena edi­toriale Hearst e quindi della Verità Ufficiale; il suo direttore è stato immediatamente inserito nella catena di «sionisti, mas­soni, agenti Cia e Adepti Illuminati per il Nuovo Ordine Mon­diale» e nemmeno i più grossolani errori sono stati corretti. La teoria cospirazionista viaggia su un proprio binario e non accetta deviazioni.

Piuttosto allarga il suo raggio, perché a ogni contesta­zione il numero dei complici della cospirazione si allarga. Se all’inizio erano Bush, Cheney e pochi altri, oggi sono milita­ri, controllori di volo, impiegati, finti passeggeri e loro fami­liari e una schiera sterminata di professori universitari, im­piegati del governo, giornalisti, tutti costretti al silenzio dagli Adepti Illuminati e Sionisti.

Nello stesso modo si allarga il quadro degli avvenimen­ti dell’11 settembre. Alla domanda: se il Boeing American Air­lines 77 non colpì il Pentagono, che fine ha fatto il Boeing AA 77? Semplice, è la risposta dei cospirazionisti: il vero aereo era riempito di «falsi passeggeri» e fu fatto atterrare in una base segreta militare.

Alla domanda: se le Torri caddero per una programma­ta esplosione, che bisogno c’era dei due aerei che le hanno colpite? Semplice: il mondo aveva «bisogno di vedere», l’ef­fetto visuale (prima una torre e poi l’altra) era necessario e in­dispensabile per creare una «nuova Pearl Harbour», che in­vece era stata preparata in anticipo con le mine alle basi delle due torri e con un missile Cruise al Pentagono.

L’ala radicale dei cospirazionisti, contrapposta ai cospi­razionisti moderati, sostiene, per esempio, che i terroristi isla­mici alla guida degli aerei dirottati non sono mai esistiti e che le loro identità sono false, così come è un trucco preordinato la fotografia di Mohamed Atta che passa il check in. I prece­denti citati sono il falso incidente del golfo del Tonchino che servì a Johnson per attaccare il Vietnam; operazioni con ae­rei camuffati contro Fidel Castro; l’intera operazione Iran­ Contra.

Agganci sono anche fatti con il misterioso attentato a Oklahoma City e con il fallimento della missione americana di salvataggio degli ostaggi a Teheran nel 1979.

Gli Stati Uniti sono noti per essere la moderna patria delle teorie cospirative; secondo gli storici, la presenza di un complotto che limita le libertà individuali è presente nel profondo della nazione fin dai tempi della guerra anticolo­niale. A questo si aggiunge ora una frustrazione per la debo­lezza di una tecnologia considerata invincibile che non ha sa­puto fermare l’avventura di pochi giovani arabi senza cultura e senza competenze, guidati da uno sceicco miliardario che vive – o forse non più – in una grotta dell’Afghanistan.

Altro deve essere successo, si sostiene. Altro, qualcosa di «più gran­de» deve essere reso colpevole per il fallimento della propria sicurezza. Altro, anche se questo comporta l’omertà di mi­gliaia (o decine di migliaia) di persone e la depravazione mo­rale di tutti i politici e i militari.

Così oggi, a cinque anni di distanza dagli attentati, stanno le cose. Tutto quello che abbiamo visto può essere ve­ro o può essere falso. Osama bin Laden si lamenta perché gli è stato tolto il copyright del più grande omicidio della storia e una piccola folla di dilettanti in aviazione civile e demoli­zioni di grandi edifici si propone come depositaria di terribili verità scientifiche.

Qui da noi, emerge il deputato europeo Giu­lietto Chiesa, che già si propone («L’intera storia dell’11 settembre è un co­lossale complotto») e mi­naccia attività pubbliche insieme a Dario Fo e al giornalista Claudio Fracassi. Un loro comunicato stampa cita anche, a vario titolo, i nomi di Oliviero Beha, Sigfrido Ranucci, Franco Cardini. Si parla di documenti, animazioni in ad e 3d, dise­gni animati, con il premio Nobel che guiderà lo spettatore, come Virgilio, nell’inferno dell’11 settembre.

Sicuramente avranno successo. Ancora una volta la Grande Teoria batterà il buon senso e i calcoli del piccolo mec­canico che è andato a vedersi migliaia di fotografie, ha inter­vistato chi gli edifici li demolisce per professione e ha fatto i calcoli sul quadernetto. È sempre stata dura confrontarsi con il meccanico: dice sempre cose sgradevoli. In genere, ti dice che non avevi fatto la manutenzione. Poi scopri che aveva ragione lui.

_________________

(Letture consigliate: oltre a «Debunking 9/11 Myths», ampiamente citato nel testo, l’appena uscito «Theater of War», di Ian Buruma. L’autore, già noto per un saggio sull’Occidentalismo e un altro sull’Olanda e l’omicidio di Theo Van Gogh, racconta come l’amministrazione Bush abbia professionalmente sfruttato i media per sostenere la sua guerra in Iraq. Molto convincente e vicino a noi).