«Padre, ringrazio Gesù per l’Aids con cui sono stata contagiata a causa della vita disordinata che ho vissuto, perché così sono arrivata al tuo ospedale dove grazie al vostro abbraccio ho incontrato Gesù, e con Gesù me stessa», mi ha scritto Fabiana
di Aldo Trento
Di fronte a questo titolo, in molti mi hanno chiesto: «Perché parlate di cristianesimo felice? Esiste forse un cristianesimo triste?». Ludovico Antonio Muratori, famoso storiografo del Settecento e autore di un libro che si intitola proprio Cristianesimo felice nelle missioni de’ padri della Compagnia di Gesù nel Paraguay, ha inteso provocarci proprio questa domanda.
E la risposta è che sì, esiste un cristianesimo felice e sì, ne esiste anche uno triste. Però mentre il primo è un Avvenimento che entrando nel mondo ha cambiato la vita di quanti lo hanno incontrato, riconosciuto e accolto, e da cui è scaturita la civiltà dell’amore e della verità, il secondo è un modo ideologico e moralista di guardare alle conseguenze del fatto cristiano, che mette in secondo piano il fatto cristiano stesso.
«Quando ho incontrato Cristo, mi sono scoperto uomo» dichiarava l’ultimo grande retore dell’impero romano, Mario Vittorino. È proprio questo il contenuto della prima evangelizzazione dell’America latina, che i padri della Compagnia di Gesù realizzarono nell’esperienza delle riduzioni. In questi luoghi gli indios Guaraní, affascinati dall’avvenimento cristiano, diedero vita, in assoluta libertà, a una società fondata sull’amore e sulla ricerca della verità, suscitando perfino l’ammirazione di Voltaire e Montesquieu.
Ma come è nata un’esperienza simile? Di che cosa si sono preoccupati i gesuiti fin dal primo impatto con gli indios? È lo stesso Ruiz de Montoya, padre dei Guaraní impersonificato da Robert De Niro nel bellissimo film Mission, a raccontarlo nel suo libro La conquista spirituale del Paraguay: «Per due anni non abbiamo parlato della morale cristiana, e in particolare del VI e IX comandamento, perché non volevamo soffocare quelle piccole e tenere piante che stavano per aprirsi alla vita con dei precetti assolutamente incomprensibili per loro, poligamici da sempre.
Per due anni abbiamo annunciato senza stancarci la bellezza dell’Avvenimento cristiano. E sarà il fascino di questo Fatto che permetterà alla loro libertà di chiedere il matrimonio monogamico». Non è per una decisione etica che si diventa cristiani, ma per un incontro vivo, l’incontro con il Fatto cristiano di cui parla padre Ruiz de Montoya. È questo che cambia la vita, ci dice Benedetto XVI. Cosa vuol dire che la vita cambia?
Il segno, come accadde a me, è una rinascita dell’Io, che ogni giorno si guarda allo specchio e si sorride: comincia a guardarsi con gli occhi di Dio. Ossia uno vive guardando con sorpresa come cresce il proprio Io, come diventa grande e maturo. L’Io non può essere definito da regole e precetti, non può vivere sempre scandalizzandosi dei limiti propri e stracciandosi le vesti di fronte a quelli altrui, perché così diventa disperato.
L’Io cambia se è totalmente afferrato da quel “Tu che mi fai”. La moralità di un uomo si vede se è felice, ed è felice quando il suo Io è definito dal nesso con l’infinito. L’uomo morale è colui che vive cosciente che “Io sono Tu che mi fai”. È l’uomo che in ogni momento vive un inizio di pienezza, di corrispondenza, il cui segno visibile è la letizia. Recentemente alcuni religiosi mi hanno chiesto: «Perché molti abbandonano la propria vocazione?».
Perché non sperimentano in ogni momento quella soddisfazione che il cuore desidera, e un cuore vuoto o a metà non può reggere l’urto del mondo. Il cristianesimo è l’incontro con un Uomo che si è fatto carne, perciò è incontrabile oggi, e il cuore di chi lo incontra trabocca di letizia. Il moralista al contrario è l’uomo “castrato” nel suo desiderio di felicità, mortificato e scandalizzato dal limite, che cerca farisaicamente di vivere aggrappato alle regole finendo per restarne soffocato. È l’uomo che vive colpevolizzando gli altri, che a loro volta lo soffocano con le loro miserie ripugnanti.
Il cristianesimo felice è invece l’ironia e il sorriso di Dio che cambia la vita.
Le bellissime mostre su sant’Agostino e sulle riduzioni gesuitiche presenti al Meeting di quest’anno ci testimoniano che il cristianesimo è un fatto. È l’ironia, è il sorriso di Dio fatto carne… Sì, fatto carne solo ed esclusivamente per noi pubblicani, peccatori umilmente coscienti di ciò che ontologicamente siamo.
Che bello alzarsi ogni giorno e gridare “Io sono Tu che mi fai”, o ripetere insieme al profeta Geremia: «Di un amore eterno ti ho amato, per questo ho pietà del tuo niente». Scandalizzarci del peccato e condannare il peccatore è davvero l’eliminazione non solo dell’umano, ma anche del divino, che per il mio peccato sì è umiliato facendosi uomo, per ridare a me e ad ogni uomo (“creatura divina”) il sorriso e l’ironia dell’inizio dei tempi, quando «creò l’uomo a Sua immagine e somiglianza».
Dolorosamente, quando l’uomo elimina la ferita lacerante del cuore che brama vedere il volto di Dio, si appiattisce e cade vittima del fariseismo, schiacciato dalle regole e dai precetti. I Guaraní chiamavano Dio con la parola “Tupa”: “Tu”, cioè bellezza, meraviglia; “Pa”, cioè chi ha fatto queste cose belle? Il riaccadere di questo stupore, di questa domanda, è la fine del moralismo e l’inizio della libertà, cioè della felicità.
Non esiste niente di più concreto capace di scrollarci di dosso il polverone mediatico di questi giorni, che non il riaccadere di questo sguardo, “Io sono Tu che mi fai”, in cui consiste la bellezza della vita, e quindi in fondo anche la moralità.
Solitudine e desiderio
Il “cristianesimo felice” del Muratori, o il “paradiso in Paraguay”, come ha definito Chesterton l’esperienza dei gesuiti tra gli indios, ci dice che la spada e la croce in questo mondo non si possono separare, così come il peccato e la Grazia, il santo e il peccatore.
È di questa consapevolezza, di questa libertà, che il mondo, perdutosi nel gioco farisaico del puritanesimo e dell’idolatria delle regole, ha estremo bisogno. Non si diventa cristiani a forza di scrupoli, ma grazie a un incontro che è sempre presente nell’orizzonte della vita, come un bellissimo sorgere del sole. I miei malati terminali me lo ricordano ogni giorno, loro, vittime delle peggiori nefandezze cui può giungere la libertà umana…
Eppure, incontrando un uomo che si inginocchia davanti a loro abbracciandoli, il loro sguardo diventa luminoso. «Padre, ringrazio Gesù per l’Aids con cui sono stata contagiata a causa della vita disordinata che ho vissuto, perché così sono arrivata al tuo ospedale dove grazie al vostro abbraccio ho incontrato Gesù, e con Gesù me stessa», mi ha scritto in questi giorni Fabiana, una ragazza di appena diciannove anni, madre di una bambina di due.
Chi è più morale? Lei, peccatrice, o il borghese, il fariseo con il cuore rinsecchito dalle sue false sicurezze e con il dito sempre puntato per condannare, sempre dimentico di quanto ci ha detto Gesù: con la misura con cui misuriamo saremo noi stessi giudicati?
Nei giorni del Meeting ho incontrato un popolo di peccatori, cioè di santi che si avvicinano a me non per parlarmi degli scandali dei politici – che non interessano all’uomo d’oggi – ma per chiedermi: «Padre, sto male, sono depresso, ho perso un figlio, mio marito mi ha abbandonato… Per favore, può aiutarmi?».
Ho visto una grande solitudine, e nello stesso tempo un desiderio umano di un senso ultimo per cui vivere, di poter incontrare qualcuno sul cui volto si rifletta “il volto del Mistero”. Ho visto ancora una volta il cuore dell’uomo mendicante di Cristo, e Cristo mendicante del cuore dell’uomo.