Sette, supplemento del Corriere della Sera
Doveva tutelare un oggetto venerato da milioni di credenti. E invece… L’accusa di un famoso scrittore al cardinale Ballestrero
di Vittorio Messori
L’uomo che traffica su questo non porta guanti, le palme nude sono appoggiate contro il tessuto. Non si tratta, come parrebbe, di un esperto di ricamo o un tessitore di arazzi che sta mostrando i segreti della sua arte a un prelato sfaccendato e incuriosito. No: siamo durante i prelievi di tessuto della Sindone per gli esami al radiocarbonio. Chi manipola – senza alcuna preoccupazione di contaminarlo – quel Lino celeberrimo è un famoso professore. E l’arcivescovo con i gomiti pesantemente appoggiati sopra, come se si trattasse della tovaglia di un tavolo di trattoria, è colui che dovrebbe essere il «Custode» ufficiale a nome della Chiesa.
Quell’immagine sconcertante è spesso ricordata dai sindologi per denunciare la mancanza di serietà – o, almeno, di rigore scientifico – che contrassegnò sin dall’inizio la vicenda dei test. Ed è anche allegata, quella foto, al j’accuse (doloroso, per i credenti) contro l’arcivescovo di Torino, per il suo comportamento giudicato corrivo o almeno imprudente. certo, è difficile dimenticare che il cardinale, allora ormai prossimo alla pensione (e, peraltro, sant’uomo e prelato impeccabile), non si risparmiò neppure le battute di spirito durante la conferenza stampa del 13 ottobre 1988, quando comunicò i risultati dei laboratori dell’Arizona, di Oxford e di Zurigo.
Sottovalutando (ed è singolare per un «pastore d’anime») il devastante effetto che sul popolo dei credenti avrebbe avuto quella datazione medievale, a un giornalista che l’interrogava si spinse a dire testualmente: «Spero che nessuno fantastichi di una Chiesa costernata e affranta. sarebbe troppo bello se i nostri problemi e se le nostre preoccupazioni fossero tanto lievi!».
A conferma della libertà che vige oggi nella Chiesa, già la domenica successiva a quella conferenza stampa, sulla prima pagina del quotidiano dei vescovi italiani – Avvenire – potevo avanzare delle perplesse quanto precise domande a un arcivescovo, per giunta cardinale: era davvero sicuro, Sua Eminenza (pericolosamente lodato da Repubblica come un « illuminista con la porpora») che quei risultati non avessero davvero importanza pastorale? Era certo che sarebbero stati accettati senza discutere dalla base di quella Chiesa che ai suoi fedeli, da secoli, proponeva la Sindone come oggetto di culto, da venerare? La massa di lettere d’assenso da cui fui subito investito mi confermò che l’ironico understatement del «Custode della Sindone» non era affatto gradito dal mondo cattolico «profondo».
Scrisse con amarezza uno scrittore credente: «Finché quel telo fu in mano ai Savoia, fu forse strumentalizzato a fini dinastici, ma fu anche venerato e rispettato. Non appena passò – nel 1983, per testamento di Umberto II – nelle mani degli uomini della Chiesa d’oggi, degli attuali “illuministi” in clergy-man , fu subito gettato senza cautela né preoccupazione in mano ai presunti “scienziati di fama internazionale” che si rivelarono volgari vu’ cumprà, golosi di interviste a pagamento e probabilmente mossi anche dal loro odio anticattolico.
Non solo: lo stesso arcivescovo di Torino, che mai aveva pensato di convocare i giornalisti per annunciare le molte, clamorose scoperte che testimoniavano l’autenticità della Sindone, si affrettò a leggere egli stesso – in una conferenza stampa da lui convocata – il documento che riduceva il Telo venerato a volgare falso medievale».
Parole dure. Forse giustificate, però, da un altro fatto sconcertante: il cardinale che la Chiesa aveva nominato ufficialmente «Custode» della Sindone, proprio in quel press meeting, rivelava di non avere mai creduto che si trattasse del lenzuolo di Cristo, ma di avervi sempre scorto soltanto un’«icona», una immagine di incerta origine, pur suggestiva. malgrado ciò, aggiungeva quasi a beffa, i cattolici dovevano continuare a venerarla, come se niente fosse.
Ma una cosa soprattutto i sindonologi rimproverano a questo «Custode che non custodì», forse per l’ingenuità tipica dei vecchi religiosi; o, forse, addirittura, per il desiderio di «declassare» un Oggetto che non rientrava nella sua spiritualità di carmelitano passato attraverso il travaglio confuso della «demonizzazione» postconciliare, con i relativi complessi di inferiorità e di trepida reverenza per «la Scienza moderna».
Gli si rimprovera anzitutto, dicevamo, di aver scambiato il test del C14 come una definitiva «prova del nove» della verità o della «falsità» sindonica. E invece – stando al parere unanime di esperti insospettabili – il radiocarbonio non è che un mezzo settoriale, andava coordinato in modo multidisciplinare con i moltissimi altri risultati già acquisiti (altrettanto «scientifici», se non di più) che mostrano quale enigma si celi dentro questo tessuto.
In effetti, la presunta datazione medievale non solo non svela l’enigma del Lenzuolo, ma lo rende più fitto: la scienza (se scienza fu davvero quella dei laboratori cui la Chiesa di Torino diede troppa fiducia) è entrata in contraddizione con la stessa scienza che ha guidato oltre un secolo di ricerche sindonologiche rigorose.
Un problema troppo complesso, comunque, per essere sbrigato dai frizzi e dalle battute di un vecchio uomo di Chiesa allergico alle reliquie, convinto così di «essere in sintonia con l’uomo d’oggi» e, forse, desideroso di andarsene in pensione a pregare e predicare da buon carmelitano scalzo smarrito davanti a un caos di un mondo non più suo.