Le polemiche sul libro “Gli errori di Darwin”
di Giuseppe Sermonti
I due autori si collegano al filone che privilegia le leggi interne dello sviluppo rispetto alle pressioni ambientali, affermando l’importanza delle “leggi della forma” e della “auto-organizzazione”, rispetto alla lotta per la vita e alla selezione naturale. La loro linea di pensiero ha illustri precursori: basti citare Schiaparelli, Driesch, D’Arcy Thompson, Waddington, Thom, Portmann, Goodwin, Lima-de-Faria e gli strutturalisti del gruppo di Osaka. Ma, ancora una volta, il confronto non avrà luogo.
Il darwinismo è un credo che non tollera eretici. Obiettare al darwinismo è specialmente difficile non per carenza di argomenti, ma per l’eccesso di obiezioni che esso solleva in tutti i campi della nostra cultura. Ogni obiezione, ma anche ogni correzione, è immediatamente screditata come fosse un virus che minaccia di contagiare l’intero organismo. Ha scritto W.H. Thompson (1956), nell’introduzione a una riedizione dell’“Origine delle Specie”: “Questa situazione, dove uomini si riuniscono alla difesa di una dottrina che non sono capaci di definire scientificamente, e ancor meno di dimostrare con rigore scientifico, tentando di mantenere il suo credito con il pubblico attraverso la soppressione della critica e l’eliminazione delle difficoltà, è anormale e indesiderabile nella scienza”.
Fu lo stesso autore a osservare che “il successo del darwinismo fu accompagnato da un declino nell’integrità scientifica.”. E’ questo che ci preoccupa, più che un (auspicabile) confronto tra posizioni. Da parte darwinista il confronto non è tollerabile. Gli obiettori a Darwin sono subito accusati di creazionismo, di fissismo o di complottismo.
E così, in nome della intangibilità della selezione naturale, dobbiamo accettare queste affermazioni darwiniane: “Tra tutti gli uomini ci deve essere lotta aperta…”, e “Tra qualche tempo a venire, non molto lontano se misurato nei secoli, è quasi certo che le razze umane più civili stermineranno e si sostituiranno in tutto il mondo a quelle selvagge…”. Queste parole sono terribili perché non sono una previsione, ma un auspicio. E dovremo lasciar cadere anche l’osservazione di Einstein: “La teoria di Darwin sulla lotta per l’esistenza e sulla selezione è stata da molti assunta come autorizzazione a incoraggiare lo spirito di competizione… Dovunque, nella vita economica e in quella politica, il principio guida è quello della lotta spietata per il successo a danno dei propri simili”.
L’onnipotenza della selezione naturale non ha ceduto neppure di fronte alle critiche di alcuni insospettabili evoluzionisti. “La selezione naturale dichiara che gli individui più adatti (definiti come quelli che lasciano più discendenti) lasceranno più discendenti”. (C.H. Waddington). O ancora: “Benché la teoria di Lamarck non soltanto è confutabile, ma è stata effettivamente confutata (…), non è affatto chiaro che cosa potremmo considerare come possibile confutazione della teoria della selezione naturale”. (K. R. Popper).
O, da parte di un quotatissimo genetista: “Il programma adattazionista fa dell’adattamento un postulato metafisico, non soltanto impossibile da confutare, ma necessariamente confermato da ogni osservazione (Lewontin)”. All’evoluzione per forze esterne il libro di Fodor e Piattelli-Palmarini oppone una teoria alternativa, secondo la quale le forme organiche sarebbero generate dall’interno – per esempio per l’effetto di vincoli fisico-chimici, di limiti dettati dalle reti genetiche, di filtri alla variazione.
La cosa non è piaciuta all’establishment americano che non accetta l’idea che il darwinismo sia in discussione. Al più le leggi della forma avanzate dai due autori possono essere adottate come “espansioni” del darwinismo, rimanendo sovrano il ruolo della selezione naturale, che non può accettare la parte di attrice non protagonista. Eliminata l’antagonista formale, la teoria esclusivista della sopraffazione, della sopravvivenza del più forte, del “might is right” (la potenza ha ragione) rischia di condurci verso un mondo privo di bellezza, di mistero e di Dio.
E poco ci rassicura la notizia che i fisici del Cern siano arrivati, con una spesa di sei miliardi di dollari, l’impegno di seimila ricercatori e l’impiego del superaccelleratore Large Hadron Collider (Lhc), a un passo dal Big Bang e abbiano proclamato di essere vicini a catturare “la particella di Dio”. Suggerirei di assegnare loro il premio Nobel in anticipo, prima che con l’ultima collisione subatomica abbiano trasformato la Terra in un buco nero. Sarà stato forse spiacevole, ma certamente, esprimendo il massimo della potenza, avranno avuto una incontestabile ragione.