Perché 5 anni di governo non sono bastati per costruire un progetto politico e una nuova classe dirigente? Pensare alla cultura come una forma residuale di attività politica non ha portato bene alla Cdl. Quando era al potere, la pur vasta galassia dei think tank e delle riviste di area è stata snobbata. Oggi ci s’inventa con ritardo fondazioni e scuole. Mentre servirebbe il Fusionismo
Angelo Crespi
La disattenzione mostrata dal Centrodestra nei confronti della cultura e della formazione durante i cinque anni di governo assume a posteriori tratti masochistici. Certo, le scusanti esistono. Quando si era al governo bisognava governare. Bisognava prestare attenzione a settori ben più redditizi di quanto non sia la cultura. E poi c’era il consenso che pareva illimitato e sufficiente per portare a compimento la “rivoluzione liberale”, imperativo su cui si era costruita la vittoria nel 2001.
A nulla erano serviti i campanelli d’allarme: non si era badato al substrato culturale, tanto necessario alla politica, neppure quando una riforma apparentemente impossibile da non condividere, il taglio delle tasse, era stata apertamente contrastata da più della metà del Paese che per stolida acquiescenza verso un’ideologia preferisce pagare di più, mantenere uno Stato abnorme e sprecone, cedere la propria libertà nelle mani della burocrazia.
Altrettanta poca considerazione il Centrodestra ha mostrato nei confronti della questione “valori” strettamente collegata a quella culturale: l’astensione al referendum sulla procreazione medicalmente assistita, come tra i pochi ha compreso Giuliano Ferrara, dimostrava che due terzi degli italiani si ritrovavano, in merito a decisioni determinanti sulla vita, su un terreno comune.
Come trasformare questa vasta e confusa idealità in voti era compito non facile della politica, ma l’esperienza della seconda campagna elettorale di Bush improntata sui valori forniva, mutatis mutandis, un precedente incoraggiante.
Istituzionalizzare un movimento
Di fatto al Centrodestra è mancata una qualsiasi forma di elaborazione politica che potesse trasformare un’ampia e frastagliata compagine politica – che va dalle tensioni secessionistiche della Lega, al riformismo socialista, passando per il tradizionalismo della Destra sociale, le pulsioni conservatrici di An, quelle liberali di una parte di Forza Italia, il progetto centrista dell’Udc – in un vero polo politico unitario. Un polo che potesse riaggregare quel blocco sociale cattolico, liberale, riformista che di fatto aveva governato l’Italia per un cinquantennio.
Un polo che rappresentasse definitivamente le forze innovative, produttive, riformatrici del Paese. E ciò non è velleitarismo politico. La leadership di Berlusconi aveva già dimostrato due volte come unire e tenere unito il consenso. Ma come esemplificano gli studi sociologici, non si può pensare che alla fase movimentista non subentri una fase di istituzionalizzazione.
E la fase di istituzionalizzazione non può che passare dalla formazione, soprattutto dalla formazione di una giovane nuova classe dirigente che in una decina di anni, introiettando i valori e i riferimenti culturali del movimento, sia fedelmente pronta a spenderli e sostenerli, perinde ac cadaver, a tutti i livelli e in tutte le condizioni.
Ora sembra tragico che l’istituzionalizzazione di una grande forza politica che anche nelle recenti elezioni perse ha denotato, grazie al proprio leader, insospettata vitalità movimentista, venga progettata quando non si è più al governo. Quando non si è più al governo mancano le risorse, manca la possibilità di provare subito sul campo i propri dirigenti.
Si rischia di condurre una battaglia di retroguardia, proprio perché la cultura viene considerata come una forma residuale dell’attività politica da tener in conto solo quando si è nell’impossibilità di partecipare ad altre e ben più remunerative spartizioni di posti e prebende.
Inoltre è mancata la lungimiranza di mantenere e proteggere avamposti nei territori strategici (cultura, informazione, formazione) fondamentali perché le successive battaglie all’opposizione non fossero solo di ripiegamento. Anzi le poche avanguardie di Centrodestra stanno già per essere spazzate vie da uno spoils system metodico della sinistra che non fa prigionieri, come racconta l’articolo di pagina 2.
E anche nei territori amici non si vedono teste di ponte culturali strategiche per la riscossa, a meno che non si voglia far passare Lucignolo per cultura televisiva liberale, Anna La Rosa per una pasionaria di destra, Mondadori per un editore fascista, il Giornale per un think tank neocon.
Le riviste di corrente
Un piccolo elenco, ovviamente incompleto, delle casematte della cultura di Centrodestra è utile per comprendere meglio il terreno sul quale ci si dovrà muovere. Partiamo da Alleanza Nazionale. Oggi Gianfranco Fini annuncia, come detto, una nuova fondazione.
Negli anni di governo la sensibilità del mondo di An verso la cultura è stata tradotta in una serie di piccole riviste, tentativi pur nobili e ben fatti che al massimo sono risultati essere espressione di correnti o di singoli gruppi di interesse: Area per la destra sociale, Charta Minuta di ambiente liberal conservatore ascrivibile ad Adolfo Urso, Percorsi di Gennaro Malgieri, Imperi di Aldo di Lello, La Destra di Fabio Torriero.
Più altre pubblicazioni meno legate alla politica come Letteratura e Tradizione, Nova Historica. E infine un paio di think tank come l’Osservatorio parlamentare e la fondazione Ugo Bordoni ispirata da Maurizio Gasparri. Nessuno di questi esperimenti, ci sembra, ma non per colpa degli intellettuali coinvolti, semmai dei politici assenti, è risultato utile per fortificare una nuova cultura del partito.
Anzi An ha perso quasi tutti i fondatori della svolta di Fiuggi non espressamente di destra e sull’unico tema valoriale forte per il quale si era battuta in parlamento assumendo posizioni intransigenti, la legge sulla procreazione assistita, ha visto paradossalmente il proprio leader in controtendenza rispetto all’indicazione della base (Fini, lo ricordiamo, si espresse per tre “sì” e un solo “no”).
E adesso vediamo la Lega: l’unico tentativo di produrre pensiero, oltre il buon rilancio della Padania, è Terra Insubre: un trimestrale di cultura del territorio e identità che da ormai undici anni si assume l’onere di tradurre in termini alti l’ideologia federalista, localista, secessionista ma che solo oggi arriva anche dal punto di vista grafico a una vera sistemazione.
Per quanto ne sappiamo, non è di certo il luogo dove si sono formate o si formano le nuove leve dirigenziali leghiste, un altro partito che ha molte difficoltà in termini di leadership e di ricambio generazionale dopo l’incidente di Bossi.
Per quanto concerne l’Udc non sembrano esserci progetti rilevanti, se si esclude la rivista Le Formiche che però rappresenta solo l’ala minoritaria folliniana. Certo, il pensiero cattolico viene difeso da ben altre istituzioni che da quelle politiche, ma la sua specificazione per essere funzionale a un partito di centrodestra (per esempio l’Udc) necessiterebbe di ulteriori sforzi. D’altronde in Italia non è assolutamente chiaro perché un cattolico dovrebbe essere liberale e a maggior ragione liberale di destra.
Forza Italia nonostante sia il partito numericamente più grande, anche adesso all’opposizione, si è espressa dal punto di vista culturale non come una maggioranza ma come una minoranza. Hanno funzionato da autentici pensatoi (purtroppo spesso inascoltati), le riviste Ideazione e Liberal, producendo un lavoro quasi sempre esorbitante rispetto alle reali forze a disposizione.
Con il Foglio, la fondazione Magna Carta ispirata dall’allora presidente del Senato Marcello Pera ha occupato lo spazio della difesa dei valori dell’Occidente. Il sito Ragionpolitica.it è l’unico tentativo a cura del dipartimento formazione di Forza Italia, diretto da Baget Bozzo, di formare e dare informazioni alla classe dirigente sparsa sul territorio.
Anche la meritevole idea di Sandro Bondi che espressamente è denominata scuola di formazione politica, in programma dal 7 settembre a Gubbio, negli anni passati più che una scuola è sembrata negativamente a qualcuno solo una passerella politica, positivamente a qualcun altro, come noi, l’unico momento di incontro e riflessione in Forza Italia.
Poi ci sono tutta una serie di attività più o meno legate alla politica o alla cultura di Centrodestra che hanno svolto un buon lavoro. Critica Sociale, rivista socialista che sotto la cura di Stefano Carluccio è diventata ponte tra il riformismo italiano (di Centrodestra) e quello inglese blairiano (di Centrosinistra).
Palomar rivista di cultura politica diretta da Daniela Coli ed editata da Le Lettere che annovera tra i collaboratori numerosi intellettuali liberali e conservatori. Nuova Storia Contemporanea di Francesco Perfetti, rivista di storia improntata agli insegnamenti defeliciani, che ha proseguito in termini scientifici la strada del revisionismo. E poi le case editrici cattoliche come Ares, quelle liberali come Rubbettino e Liberilibri il pensatoio libertario di Andrea Mingardi e Carlo Lottieri, l’Istituto Bruno Leoni, e numerose altre iniziative, cartacee o su Internet (per esempio TocqueVille), frastagliate in una galassia che produce molto senso ma che è poco ascoltata dai politici.
Pur essendo il panorama appena descritto incompleto, la cosa certa è che nessuno dei citati (o dei dimenticati) ha ricevuto benefici definitivi o attenzione meritoria durante i cinque anni di governo da parte dei partiti componenti la Casa delle Libertà. Anzi basterebbe una minima frequentazione coi responsabili per capire quanta insoddisfazione esiste tra loro, quante recriminazioni per ciò che si poteva fare e non è stato fatto, con quale spirito ci si appresta alla nuova traversata del deserto immaginando che la politica è stata così poco attenta nella vittoria e che ora si appresta a essere un po’ più attenta nella sconfitta solo perché non c’è altro a cui appigliarsi.
Se il Centrodestra avesse vinto le elezioni avremmo potuto archiviare tutto ciò definendolo “i soliti lai” degli intellettuali inascoltati, ma avendo perso s’impone riflessione meno banale.
Silvio Berlusconi al Meeting di Rimini ha lanciato lo slogan «l’Italia deve essere cattolica e degli italiani ». Intanto è ripartita la discussione sul partito unico che dovrebbe essere l’approdo finale del Centrodestra e che per ora trova pochi consensi. Ma per capire come diventare un grande partito unico che difenda la civiltà cristiana e dunque i cattolici italiani, che abbia a cuore l’identità del nostro Paese, ma che in quanto tale sia anche federalista, un partito certo conservatore che non disdegni però aspirazioni libertarie e riformiste, che riesca a far comprendere come l’unico welfare state è quello liberale, è necessario al Centrodestra una nuova élite politico-culturale, mentre non è sufficiente un semplice ricambio generazionale coi quarantenni.
Per ora, non è stata creata nessuna scuola, nessun percorso formativo comune ha cresciuto nuove generazioni di tecnici, nessuno strumento politico o culturale è diventato specchio di una nuova élite, ne ha codificato simboli e riti, e non c’è stata neppure una vera “rivoluzione” attraverso la quale ci si potesse riconoscere, attraverso la quale almeno si fortificassero i tic e le memorie di una nuova generazione (come accadde col Sessantotto).
Di fatto non c’è nessun avanguardista, al massimo sempre più rari sottoscrittori antemarcia. Ed è per questo che oggi la battaglia culturale nel Centrodestra si pone come di retroguardia. Ovvio, vale la pena combatterla per difendersi, cercando però di capire che la cultura non è un ammennicolo della politica. La progettazione culturale, al contrario, è imprescindibile specie quando ci si accinge a nuove costruzioni politiche e si vuole avere un gruppo dirigenziale fedele, non per intermittente acquiescenza al leader, bensì per convinzione personale.
Il Domenicale tempo fa aveva lanciato l’idea del Fusionismo, cioè di un percorso culturale di approfondimento che riscoprisse le radici comuni dei movimenti politici alternativi alla Sinistra. Un’ipotesi di lavoro che, coinvolgendo le diverse forze culturali, giungesse a definire i contorni di un pensiero comune per quei partiti che di fatto elettoralmente già stanno insieme.
Poi abbiamo inventato l’ossimoro “gramscismo liberale” per esemplificare l’approccio necessario a una vera politica culturale, convinti che solo la cultura alta produce senso e, a cascata influenzando i mass media e gli opinion leader, consenso. Questo la sinistra lo ha capito alla perfezione da ottant’anni. Appena può costruisce scuole di partito, alleva i propri dirigenti e i propri comunicatori, li insedia in strutture pubbliche, alletta intellettuali e artisti, coccola cantanti e scrittori.